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Appunti per non ricominciare. La cultura

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Foto di Francesco Faeta

di Francesco Faeta [*]

Vi è un’ansia diffusa, elaborata in forme retoriche morfologicamente dissimili ma strutturalmente conformi, riverberata nelle mille conversazioni quotidiane, amplificata dal sistema mass-mediatico; un’ansia diffusa, dicevo, di ricominciare. Prima ondata, seconda ondata, terza ondata, malgrado tutto abbiamo l’impellenza di ricominciare. Molti, in vero, hanno già ricominciato, nonostante i cinquecento o i mille morti quotidiani; nonostante le innumerevoli biografie oscure o illustri – vite, affetti, pensieri, relazioni – che s’inceneriscono sotto gli occhi distratti dei più, mentre l’ordine di priorità resta l’apertura delle piste da sci, il cenone di capodanno, la necessaria rentrée negli stadi (le società calcistiche, ciò costituisce una preoccupazione universale, sono alla canna del gas). Ovviamente tra coloro che devono ricominciare vi sono gli artigiani, i camerieri, gli operai messi in cassa integrazione, i piccoli esercenti colpiti dai divieti e dalle chiusure, un popolo minuto per il quale l’alternativa è ricominciare, con il rischio di morire di malattia, o non ricominciare con la quasi certezza di morire di fame; e il mio manifesto fastidio per le poetiche del ri-inizio ovviamente non riguarda loro. Come non riguarda le donne e gli uomini che, dentro gli universi gerarchizzati della cultura cui dedicherò attenzione, portano avanti la loro battaglia per una cultura dell’eguaglianza.

Le poetiche del ri-inizio partono, comunque, da un passaggio obbligato che suona in questi termini: “nulla sarà più come prima; abbiamo imparato la lezione; dobbiamo cogliere l’occasione per migliorare radicalmente le nostre modalità e il nostro stile di vita; le lunghe quarantene ci hanno fatto scoprire una dimensione esistenziale nuova e la poesia delle piccole cose, del silenzio e dell’ascolto, ci hanno guidato verso un’indispensabile autoanalisi”. Saldato velocemente il debito (ipocrita) sulla soglia del ri-inizio, si ri-inizia appunto. Esattamente come prima. A partire dall’ultimo giorno in cui il globo era lo scenario inquietante che ha prodotto la tragedia ancora in atto.

Naturalmente, le poetiche del ri-inizio sono mosse da grandi ragioni finanziarie, industriali e commerciali; nessuna evidenza scientifica consiglierebbe ri-inizi in un mondo che vede ancora centinaia di migliaia di contagiati al giorno e decine di migliaia di morti. Un mondo che sperimenta il disordine, la follia e l’incapacità dei governanti, l’egoismo spiccio e la strafottenza di tanti, il totale disprezzo per la vita umana, la crescita esponenziale e nevrotica della violenza, viepiù efferata e incontrollata. Le poetiche della rinascita, dunque, sono plasmate da capitalisti e finanzieri e coinvolgono, in primo luogo, i grandi commercianti e gli affaristi, gli operatori del turismo globale e gli immarcescibili gestori di discoteche, senza che esse abbiano reale rispondenza nella condizione esistenziale delle genti e dei Paesi. E anche gli umili, quelli che non avrebbero nessuna motivazione economica immediata, speranzosi, si accodano, come se ricominciare fosse un loro effettivo interesse e bisogno, e non un’imperiosa esigenza del sistema e dei suoi ideatori (è l’eterno principio dei lazzari, in nome dei quali si parla e che si sentono coinvolti in prima persona nel sostenere l’interesse dei potenti).

All’interno delle poetiche (e delle politiche) del ri-inizio acquistano una speciale rilevanza quelle legate alla cultura e ai suoi molteplici scenari industriali e artigianali. La cultura, si sente dire ovunque, deve ripartire con la sua insostituibile funzione civilizzatrice. Coloro che hanno vissuto di cultura e per la cultura devono essere aiutati a sopravvivere, in un momento sì difficile. Le grandi istituzioni culturali poste in crisi dall’assenza di pubblico devono essere sostenute. La società tutta deve contribuire alla conservazione della cultura, bene collettivo imprescindibile. Ovviamente anche in questo particolare settore del discorso pubblico, tutto viene posto sullo stesso livello; così il grande teatro di Stato o le grandi fondazioni artistiche private, i luoghi dove la cultura significa essenzialmente elevati profitti per pochi, mostrano di condividere fraternamente il destino con il piccolo libraio di San Lorenzo a Roma, che vive soprattutto dei bicchieri di vino che vende ai suoi clienti, con la comparsa di Cinecittà che non fa più una comparsata, con il clown di strada che campava con le feste private o con lo spettacolino in ospedale per i bambini malati.

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Foto di Francesco Faeta

Proviamo ad analizzare, dunque, il ruolo di questa cultura che deve ricominciare per nuovamente contribuire a rendere più civile, accogliente, empatico questo nostro bel pianeta. E, per quell’indispensabile criterio di concretezza, del tutto disatteso da noi, in base al quale occorre parlare di ciò che si conosce e che si è direttamente sperimentato, proviamo ad analizzarlo, tale ruolo, tenendo presente il nostro Paese e il nostro tempo, quello che inizia indicativamente con la morte dei grandi scrittori del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini, Primo e Carlo Levi, Elsa Morante, Italo Calvino, a esempio.

Nella creazione del mondo com’è stato sino agli inizi del ventesimo anno del nuovo secolo, la cultura (assumo provvisoriamente un termine unificante, che più avanti proverò a mettere in discussione) ha avuto responsabilità notevoli. Se il capitalismo neo liberista ha fatto da motore, se le istanze amministrative e di governo hanno controllato e manipolato i processi, il mondo della cultura, con le dovute eccezioni naturalmente, ha svolto una comoda funzione edulcorante.

Per meglio comprendere di cosa scrivo, proviamo a spostarci in due piazze, alle sette di sera di giugno, o di luglio, di uno qualsiasi di questi anni, prima del distanziamento sociale in atto, piazza Maggiore a Bologna e Largo Domenico delle Greche a Tor Bella Monaca, Roma (lo so, non è una vera piazza, perché lì piazza non ce n’é, ci sono le piazze, cioè nel gergo della Madama e della malavita, i luoghi di spaccio, e poi slarghi, cortili, rotatorie, svincoli; ma tant’é). Nella prima stanno tutti assiepati, sono molte centinaia, forse migliaia, seduti in bell’ordine e tutto intorno alla piazza anche in piedi, assorti ad ascoltare alcuni oratori, sempre gli stessi (ma su questo tornerò), intenti a produrre idee su come rendere l’Italia migliore. Nella seconda, invece, c’è poca gente, crocchi di giovani, per lo più maschi, che schiamazzano e parlano ad alta voce delle squadre cittadine di football, dell’ultimo semi-stupro di gruppo con la ragazza ubriaca semi-consenziente (a loro dire) e dei suoi esiti artistici sui cellulari di mezzo quartiere, delle “j” e dei “giga” che dovranno tentare di acquistare od ottenere in cambio di favori, più tardi, per tirare la nottata. Motorini truccati e automobili rombano sull’asfalto, girano a vuoto per la piazza, numerose volte, si fermano nei pressi dei crocchi, sgommano via fragorosamente poco dopo.

La produzione della cultura avviene, dunque, a Piazza Maggiore. Le idee per una nuova società, per ricordare il titolo di un volume di Franco Ferrarotti di molti decenni or sono (la nuova società può attendere), non albergano là dove ve ne sarebbe reale bisogno, ma restano nel salotto buono di una borghesia quasi agiata, moderatamente dissenziente. Potreste mai immaginare la kermesse di un prestigioso quotidiano progressista a Largo Domenico delle Greche? Si potrebbe pensare di spostare gli abitanti delle piazze di Torbella, come familiarmente si chiama la borgata laggiù, a Piazza Maggiore a Bologna? No, danno irreversibile al turismo e all’immagine della città (che ha i suoi luoghi di spaccio, anch’essa, ma defilati, occhio non vede, cuore non duole). Ma neppure guidando i ragazzi e cercando di porli in relazione con la straordinaria bellezza dello scenario in cui sono ospiti? No, e chi lo fa questo lavoro?

Già, chi lo fa questo lavoro? Questo è un punto importante. Non c’è nessuno insomma (o per essere esatti vi sono poche persone, non pagate, mal pagate, non riconosciute, né garantite) che possa tentare di produrre cultura all’interno dei reali circuiti, e dei reali interessi, degli strati non agiati di questo Paese. La cultura svolge un compito gratificante e consolatorio per una, non ampia, minoranza, abituata a viverla in termini di consumo. Come qualcosa che si acquista, cioè, che si ottiene gratuitamente per contiguità o piccolo privilegio, che si utilizza per riempire le giornate, nelle pause del lavoro o di altre attività ludiche; qualcosa che è tangente i propri gusti, le proprie inclinazioni, le proprie aspettative di ascesa. La cultura non parla più del mondo come dovrebbe essere (in difetto di memoria non parla neppure del mondo com’era), parla del mondo com’è, facendo in modo che l’utente si riconosca empaticamente nel suo discorso, invece che promuovere fastidio, risentimento, rabbia, rifiuto. La cultura tende a immedesimare l’utente con se stessa, in un doppio processo narcisistico che rassicura il produttore (l’artista, lo scrittore, il regista), e fa sentire migliore il consumatore (il professore, la studentessa, l’avvocato, la casalinga agiata). Lungi dal produrre le basi per una radicale critica degli status quo (qualsiasi essi siano), essa tende a modellare una koinè media e condivisa dello scontento, canalizzandolo verso un orizzonte di blando dissenso nei confronti del sistema. La cultura non suona più il piffero per la rivoluzione, per fortuna (ma non certo per merito delle illuminate posizioni di Elio Vittorini), ma lo suona per garantire livelli di gratificazione accessoria per minoranze relativamente ristrette.

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Ma come è potuto accadere che la cultura abbia perso il suo potenziale critico, ogni sua aspirazione apocalittica? Come sono stati uccisi, insomma, Pasolini o Primo Levi o Calvino? Si badi bene, non è mia intenzione in questo breve intervento di carattere essenzialmente polemico analizzare il perché di tutto ciò (un perché che, attraverso mediazioni molteplici, può farsi risalire alla struttura stessa del capitalismo liberista e del neoautoritarismo delle democrazie occidentali). Intendo analizzare soltanto il come, porre sotto gli occhi una mera fenomenica delle cose.

Iniziando dalla questione delle gerarchie. La cultura non è esente dall’organizzazione gerarchica, anzi ne è oggi condizionata in modo determinante. Vi è innanzitutto una gerarchia dei valori, che è ordinata su base globale, come ricorda Michael Herzfeld. Vi sono le cose che contano e quelle che non contano; vi sono ordini di priorità del discorso fissati in modo rigido; vi sono stili del linguaggio attraverso i quali imprescindibilmente i valori vanno partecipati; vi sono luoghi di produzione delle idee, delle estetiche, delle politiche e luoghi di loro mera fruizione; vi sono mode culturali che sono molto più che mode, ma autentiche istanze normalizzatrici dei discorsi; vi sono ambiti culturali e scientifici che predominano nettamente su altri, posti ai margini della scena.

Segue poi una gerarchia degli attori della cultura. Nessuno che non sia al vertice di tale gerarchia (il che significa che ha accettato e fatto brillantemente sua la gerarchia globale dei valori di cui sopra), può ambire a comunicare. La comunicazione, la condivisione intellettuale del proprio pensiero, è inibita se ci si scosta dal vertice (avevo promesso di tornare sulla ricorrenza dei medesimi comunicatori in ogni occasione, convegno, incontro, festival della filosofia, delle idee, della scienza, della letteratura, della fotografia, del cinema, con un effetto di rotazione e sovrapposizione a volte grottesco). Questo processo selettivo è particolarmente evidente là dove vi sono competenze specifiche legate a saperi particolari e, soprattutto, a peculiari esperienze della vita reale, tutte messe in secondo piano dalla presenza degli occupanti il vertice gerarchico (che potranno parlare di tutto, senza preparazione specialistica e senza esperienza reale, in nome della loro adesione alla gerarchia universale dei valori e alle sue peculiari modalità comunicative).

Infine una gerarchia delle agenzie produttrici della cultura. Chiunque sia ammesso oggi a parlare, lo è in nome di una di tali agenzie, che rappresenta, a prescindere dalla legittimità che essa può avere nella produzione di quel particolare discorso. Grandi concentrazioni mass-mediatiche, agenzie d’informazione e testate giornalistiche, fondazioni e istituzioni private, emanazione più o meno diretta di potentati economico-finanziari, istituzioni accademiche; esse autorizzano il discorso, ne garantiscono la legittimità. E, conseguentemente, nessuna voce libera può più alzarsi; ogni voce parla con il timbro dell’agenzia che la legittima. Ciò che un tempo poteva contribuire ad accreditare democraticamente il discorso, dimostrando che non si parlava a mero titolo personale, ma su delega di ampie istanze collettive, si è trasformato in un feroce filtro élitario.

Valori, dunque, attori, agenzie: entità votate alla costruzione di una cultura gerarchizzata e normalizzata, caratterizzata da uno spettro critico assai modesto, adatta all’intrattenimento, all’appagamento spiccio, all’evasione. Quanto non si situa all’interno di questo perimetro viene censurato (i discorsi, i libri, le immagini, i film) con ricorso alla più raffinata e incontrovertibile forma di censura, quella del mercato. Non è, insomma, che quanto tu dici non mi convinca o lo consideri, addirittura, sconveniente, è che non inserendosi all’interno della struttura gerarchica universalmente riconosciuta, non si vende. E siccome anche la cultura deve produrre profitto e io sono convinto –  spesse volte a ragione, ma a volte clamorosamente a torto – di non poter trarre profitto da ciò che è fuori dagli ordini, ti dico che il tuo libro non si vende. E, in effetti, il libro non si vende perché il sistema gerarchico ha le sue ramificazioni ovunque e nessun discorso che ne resti al di fuori o al margine ha la possibilità di essere veicolato, accedendo alla platea mass-mediatica. Non tutti possono parlare, dunque, e come abbiamo già visto, non tutti possono parlare a tutti. Anzi, radicitus, il parlare (potenzialmente) a tutti è avvertito come minaccia politica e come rischio per la stabilità del costrutto economico legato alla produzione culturale. Chi è abilitato a parlare, ai livelli più bassi della gerarchia, lo è per un’audience ristretta e selezionata, un gruppo che non potrà mai costituire minaccia per l’ordine costituito o essere di qualche appeal per il mercato.

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Foto di Francesco Faeta

Dunque, che fine fanno le narrazioni e i discorsi scomodi? Restano nel salotto, tra amici. Quando vi era nel Paese una qualche forma di rappresentanza politica del dissenso intellettuale, pur con l’azione normalizzatrice che l’evocata polemica tra Vittorini e Togliatti rammenta, da tale salotto si sarebbero potuti trasferire nel circolo culturale, nella sezione del partito, nella cellula sindacale, nel vivo delle contraddizioni territoriali, e lì, persino, fecondare. Oggi no. Oggi, essi restano mugugno, del tutto simile, pur se diverso nei contenuti, a quello dei milioni di direttori tecnici della nazionale o di risolutori taumaturgici dei grandi problemi collettivi, che ogni giorno invadono il nostro spazio e il nostro tempo.

Ho prima fatto un fugace cenno alla realtà accademica e alla cultura che nel suo contesto si produce. Da homo academicus, e da assiduo e disincantato lettore di Pierre Bourdieu, mi si permetta di ritornarvi brevemente; con il riconoscimento che l’indagine sulla qualità della cultura prodotta all’interno del campo accademico dell’Italia odierna andrebbe condotta in profondità, sulla base a esempio dei dati dell’ultimo ventennio, periodo di ineguagliata pressione sull’istituzione. Un’istituzione messa sull’attenti e in ordine gerarchico tramite astrusi criteri di valutazione, nei quali i parametri di conformità alla struttura neoliberista della società prevalgono nettamente sulla qualità, la profondità, lo spessore critico delle basi di conoscenza. Forse nessuna delle agenzie produttrici di cultura ha subìto un processo così radicale di destrutturazione e riorganizzazione gerarchica. Credo di poter provocatoriamente affermare che la stragrande maggioranza della produzione culturale e scientifica del Paese (per lo meno nel contesto umanistico e delle scienze sociali che meglio conosco) appare condizionata dai valori gerarchizzati, dagli attori posti al vertice degli apparati gerarchici, dalle agenzie e dai loro stili del discorso. Il linguaggio accademico è divenuto un idioletto idoneo a garantire di per sé l’appartenenza a una consorteria. Valutazione secondo i criteri sopra evocati, accantonamento della lingua nazionale, ferrea gerarchia organizzativa, perdita dell’autonomia ed effettiva etero dipendenza, normalizzazione dei processi legati alla produzione scritta delle idee, burocratizzazione, automatismi nell’esercizio della didattica (tante pagine, tante ore di studio, tanti CFU), hanno desertificato il panorama culturale dell’accademia italiana, facendo di essa un sorta di campo-scuola per l’organizzazione verticistica e autoritaria della società contemporanea.

Al di là della questione delle gerarchie, comunque, la cultura così plasmata possiede un carattere essenzialmente erudito. E qui, abbandonando un termine unificante che ho sin qui usato per comodità, ritengo occorra recuperare un tema caro al nostro ambito disciplinare, quello basilare della distinzione tra cultura come erudizione e cultura come strumento di organizzazione sociale della persona nel suo contesto dato. Creato il suo selezionato personale di addetti ai lavori, la cultura crea un suo mercato basato su una crescita, potenzialmente infinita, dell’erudizione. Hai letto l’ultimo libro di X? Hai sentito l’ultimo album di Y? Hai visto l’ultimo film di Z. E, l’“ancora no”, sprofonda il malcapitato, sia pur provvisoriamente, negli abissi dell’universo, gerarchizzato quanto quello dei produttori, dei consumatori di cultura.

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Qui si colloca il limite invalicabile della nozione di cultura, così com’è oggi socialmente esperita, ciò che rende abbastanza superfluo, a mio avviso, in funzione escatologica, ogni suo salvataggio. La cultura non può essere meramente consumistica, si tratta di una palese contradictio in adiecto. La cultura non si ha, si è, com’è stato autorevolmente affermato. Non è un insieme di nozioni acquistate in libreria o al botteghino del cinema o del teatro, con cui adornare il proprio io. È il proprio io fatto azione sociale, speso sul terreno della relazione con gli altri, a partire da un insieme di coordinate che fondano la mia possibilità di riconoscermi come soggetto, e soggetto portatore di Storia, aggiungerei con suggestione demartiniana.   

Ritorniamo a Torbella. E pensiamo, con felice intuizione, che non sia il caso di proporre ai suoi abitanti, per tre giorni consecutivi, la repubblica delle idee, a loro a cui nessuno si è mai preso la briga di dire cosa è la repubblica e cosa sono, esattamente, le idee. E che invece qualcuno pensi di proporre loro come tema, quale repubblica possa essere compatibile con la concreta realtà di cittadino emarginato, di cittadino indigente, di cittadino “che se deve fa’” in qualche piazza per dare un senso al quotidiano. Insomma proviamo a immaginare una cultura che non ha alcuna erudizione da proporre come modello e come traguardo, che vada a sedersi, permanentemente e non occasionalmente, nello slargo della borgata. Che provi a costruire lì, assieme agli abitanti, un’idea più elevata del vivere, un modello per affrontare la miseria, l’emarginazione, la competizione con altri ancor più poveri e più miseri e con gli oscuri fantasmi che tale competizione scatena. Che provi a costruire insieme la strada per uscire fuori dal ghetto. Più elevata non vuol dire certo venata di poesia, magari dell’autentico, del primitivo, dell’umile, ma semplicemente rischiarata dall’idea che la datità del vivere non è un fatto ontologico, ma una determinazione storica; e che, pertanto, questa datità non è irreversibile, ma può essere modificata restituendo, già soltanto con questo tentativo, dignità al proprio stare nel mondo.

Come corollario di questa impostazione di fondo, il linguaggio gerarchizzato e normalizzato può essere liberato dalle sue pastoie e quello slargo periferico può divenire una Torre di Babele, in cui non facciano più bella mostra di sé, valori, attori, agenzie gerarchizzanti; cose in cui si deve credere, persone che si devono ascoltare, enti delegati alla custodia e alla disciplina dei discorsi.

Diciamo che questa cultura che riconosce certamente le competenze e le reali esperienze, che anzi le valorizza e le pone al centro della propria azione, è qualcosa che dissolve le gerarchie e restituisce libertà individuale. Che riconosce il valore maieutico del pensiero critico, quale componente intrinseca della vita quotidiana (il pensiero critico può ben esercitarsi attraverso la messa in causa dello spaccio di droga o del disprezzo per il corpo della donna, o attraverso l’idea del riassetto dei ghetti urbani, non ha imprescindibile bisogno della meditazione, e mediazione, filosofica dei soliti noti, arrampicati con saccente malagrazia sui soliti palchi).

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Vi è una cultura antropologica della cittadinanza, con cui occorre confrontarsi. Anche quando essa sembra dar forma a contenuti elementari, quando plasma cosmogonie in cui è difficile, se non impossibile, riconoscersi, quando addita soluzioni autoritarie e violente. Occorre infrangere il monopolio aristocratico e gerarchico della cultura asseverativa e consolatoria e iniziare a elaborare una cultura del dialogo e dell’incontro, per difficili che essi siano. Anche attraverso la paura dell’altro, il rifiuto del pensiero razionale, l’angustia della percezione di sé e l’accidia nell’esperienza del mondo si può costruire cultura; attraverso un dialogo ispirato, si può produrre qualcosa di nuovo che includa e faccia sentire inclusi.

Chi ricorda più la storia del maestro Albino Bernardini, trasposta nel suo bel libro che narra l’esperienza didattica di un anno a Pietralata, a Roma, la Tor Bella Monaca di allora, con le dovute distinzioni antropologiche e sociologiche? Una storia riversata poi in un film per la TV (ma uscito più tardi anche nelle sale), dal titolo Diario di un maestro, con la regia di Vittorio De Seta e la magistrale interpretazione di Bruno Cirino. Lì si partiva dalla vita delle lucertole, che i bambini sistematicamente torturavano e uccidevano, per costruire una risposta basata sulla cultura (nel senso che qui sto evocando), contro l’oppressiva e frustrante azione dell’erudizione scolastica. E si partiva, è opportuno sottolinearlo, dall’accettazione della cultura della violenza contro gli animali, senza scandalo o rampogna, lavorando a recuperare, attraverso gli scampoli di umanità che comunque il rapporto con gli animali rivelava, una posizione etica diversa, e da lì una costruzione sociale, improntata alle regole del pensiero scientifico e dell’attitudine empatica.

Mi si potrà obbiettare che non c’è nulla di nuovo sotto il sole. Che quel che scrivo rientra nella rassicurante, quanto sterile, categoria dell’impegno, minoritaria per vocazione, incapace di produrre effettiva liberazione, moralistica e pedagogica. Mi si potrà ricordare che, già molto tempo fa, la figura di un nuovo creatore di cultura, fuoriuscito dalla sua classe e dal suo gruppo sociale, organico agli strati deprivilegiati era comparsa (autorevolmente) sulla scena. Mi si potrà dire che questa configurazione antropologica della cultura rassomiglia da vicino alle istanze missionarie, portatrici di nuove subalternità. Mi si potrà persino mettere sotto gli occhi il dibattito tra ždanoviani e decadentisti per ricordare che le masse popolari hanno diritto a Beethoven oltre che alle mondine o a pensare in termini culturali alti il riassetto dei loro quartieri e delle loro vite emarginate.

Tutte osservazioni da tenere in considerazione, alcune non necessariamente in opposizione con quanto qui ho esposto, che dovrebbero indurci a ripensare profondamente le modalità di attuazione di un processo di destrutturazione gerarchica; di ricostruzione di un universo non globalmente gerarchizzato di valori, di liberalizzazione delle agenzie, di affrancamento del linguaggio e dei parlanti.

Ma certo, della cultura come si è negli ultimi tempi espressa, dopo il mortale abbraccio della pandemia, io non sento alcun bisogno e alcuna nostalgia.

Dialoghi Mediterranei, n. 47, gennaio 2021
[*] Le fotografie che accompagnano questo articolo, da me eseguite a Roma, presso il Palazzo delle Esposizioni il 2 marzo del 2019, illustrano aspetti dell’opera-performance Manifesto di Julian Rosefeldt. Mostrata in pubblico per la prima volta nel 2015, essa evoca i grandi manifesti artistici del Novecento, mettendo radicalmente in discussione il ruolo svolto dalla figura dell’artista nella società contemporanea. Si tratta di 13 proiezioni in simultanea, che si svolgono all’interno di uno grande spazio oscuro. Per ciascuna delle 13 proiezioni, Rosefeldt ha creato un collage di testi, attingendo ai manifesti di futuristi, dadaisti, suprematisti, situazionisti, Fluxus, Dogma 95 e altri collettivi o movimenti d’avanguardia, o alle riflessioni individuali di artisti, danzatori e registi. Ogni stazione presenta una differente situazione incentrata su diversi personaggi femminili e su uno maschile: un senzatetto, una broker, l’operaia di un impianto di incenerimento dei rifiuti, una CEO, una punk, una scienziata, l’oratrice a un funerale, una burattinaia, la madre di una famiglia conservatrice, una coreografa, una giornalista televisiva e un’insegnante, figure interpretate dall’attrice australiana Cate Blanchett. Il senso dell’opera è quello di evocare l’afflato teorico e poetico dei grandi manifesti artistici, la loro carica radicale e la loro tensione utopica, mettendoli a confronto con il degrado del mondo presente, in una critica impietosa alla sterilità delle arti contemporanee rispetto all’obbiettivo fondamentale del miglioramento della vita concreta delle persone. Mi è sembrato che queste immagini, che pubblico qui per la prima volta, potessero accompagnare, con qualche sintonia, i miei appunti sulla cultura contemporanea

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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019.

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