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Antropologia delle migrazioni. Responsabilità e risorse della ricerca etnografica

 Foto CristianTrappolini

Foto Cristian Trappolini

 di   Daria Settineri

La comprensione dei fenomeni migratori richiede uno studio interdisciplinare che permetta di mettere in relazione fattori macro strutturali, come quelli economici, con istanze personali. La prospettiva antropologica, inserendo le vicende dei soggetti in spazi sociali complessi, riesce a coniugare i vari livelli di analisi restituendo una prospettiva olistica del fenomeno. Tale prospettiva, però, viene poco sfruttata, per esempio, dalle lobby della comunicazione mainstream, quelle che forgiano il comune sentire, le quali preferiscono avere come opinionisti sedicenti esperti che, tuttavia, poco e nulla hanno a che fare con serie riflessioni di tipo sociale, sviluppate sul campo di ricerca. Né, tantomeno, le analisi antropologiche hanno mai fornito il metro entro cui sono state formulate le agende politiche. Eppure, è partendo dalle singole esperienze di migrazione, inserite in un ordito più ampio, che dovrebbero strutturarsi le politiche sociali. Tali politiche richiederebbero riflessioni scaturibili da un’etnografia multisituata (Marcus, 1995).

Bruno Riccio, studiando le migrazioni senegalesi in Italia, parla di percorsi che devono tentare di «stabilire delle connessioni transnazionali nella vita degli attori e delle situazioni che si osservano» (Riccio, 2007: 17). La marginalità, lo sfruttamento, l’eccedenza umana (Settineri 2013a), infatti, non prescindono dalle politiche adottate su scala globale o locale, piuttosto ne sono l’esito più o meno previsto. L’antropologia, per sua stessa vocazione, potrebbe contribuire alla creazione di un discorso sociale più “giusto” fornendo strumenti che permettono uno sguardo compassionevole (nel senso etimologico del termine) sul mondo e sulle cose, sguardo grazie al quale è possibile costruire un discorso attorno al sociale che tenga in conto, e sullo stesso piano, le sollecitazioni di tutti gli attori. Il testo etnografico, infatti, non è valido tanto nella misura in cui offre una narrazione degli eventi, quanto per la sua capacità di offrire una lettura della narrazione. Al ricercatore che si occupa di particolari ambiti dell’agito umano, inoltre, spetta anche il compito di posizionarsi criticamente nei confronti delle relazioni che indaga e dei meccanismi che tali relazioni innescano. Ciò è ancor più vero allorché l’etnografo investiga su questioni fondanti la vita degli attori studiati, come può essere nel caso delle migrazioni.

1L’antropologia delle migrazioni, infatti, occupandosi delle sorti di quanti affrontano l’esperienza migratoria alla ricerca di un rifugio e di condizioni di vita migliori, ha il dovere di chiedere uno spazio di riconoscimento per tali persone che non sia quello strumentalizzato dalla retorica ufficiale che tende a demonizzare o vittimizzare i migranti (Settineri, 2013a: 110). Spesso, invero, non si tiene conto del fatto che “i migranti” non sono una categoria astratta con determinate caratteristiche, ma persone, ognuna delle quali con storie, forze, debolezze, perfidie e sensibilità proprie. Per evitare stigmatizzazioni, dunque, bisogna offrire una lettura degli eventi differente, ma, per far questo, è necessario avere uno sguardo d’insieme sulla storia: uno sguardo che sappia vedere bene da lontano e lontano, che parta dall’incontro, che diventi un modo di stare al mondo. Il ricercatore, pertanto, deve essere un «soggetto responsabile», nel senso che deve pretendere il riconoscimento del valore del proprio lavoro sia all’interno dei luoghi di produzione del sapere sia in spazi pubblici più ampi, nei quali, normalmente, con buone dosi di semplificazioni e qualunquismi, le persone si formano opinioni e convinzioni.

La produzione di sapere sui fenomeni migratori richiede, invece, un’ analisi etnografica che si sviluppa su più piani (sia nella società di partenza sia in quella di approdo), grazie alla quale è possibile indagare le varie connessioni tra eventi che coinvolgono molti più aspetti di quanto, in apparenza, potrebbe sembrare. Inoltre, è utile ribadire quanto detto prima, bisogna analizzare sia i temi riconducibili a macro questioni politiche, economiche e sociali, sia quelli inerenti alla sfera pubblica, privata e intima delle persone coinvolte nel processo migratorio.

Tessendo reti contemporaneamente con attori sociali provenienti da diversi settori specialistici – avvocati, strutture sanitarie, scuole, uffici comunali, associazioni di volontariato – e vivendo un rapporto avvantaggiato con i migranti, l’etnografo si trova in una posizione privilegiata. Il lavoro etnografico, di conseguenza, diventa la base da cui si può partire per affrontare problemi e modelli che, nella maggior parte delle situazioni, hanno una complessità tale per cui non è possibile che vengano ricondotti all’uniformità di una narrazione. Ed è questa la ragione a causa della quale una scrittura etnografica più è esaustiva meno è coerente, più problematizza e si apre a connessioni, a interrogativi, a probabilità meno offre certezze e dogmi. Più incontra e racconta l’uomo, insomma, più si rende complessa e ribalta le prospettive.

Pierre Bourdieu

Pierre Bourdieu

Pierre Bourdieu, in un’intervista rilasciata a Lanzmann e Redeker su «Le Monde» il 18 settembre del 1998 (citata anche in Bauman 2003: 48), sosteneva che non fosse pensabile, per chi si occupa di scienze sociali, restare in una «posizione neutrale e indifferente, distaccata dalle lotte che hanno come posta in gioco le sorti stesse di questo mondo». Anche Zygmunt Bauman (2005; 2007) più volte nei suoi scritti sottolinea questo particolare statuto del ricercatore come soggetto responsabile. La questione è complessa e articolata. In particolare ritengo che due siano gli aspetti su cui è opportuno soffermarsi. L’atteggiamento che si assume nei confronti del fenomeno migratorio diventa la lente con cui è possibile leggere il modo in cui ognuno di noi si colloca dal punto di vista sociale e politico.

Il soggetto migrante, dunque, spesso è schiacciato tra due rappresentazioni che nulla hanno a che fare con la sua soggettività. Demonizzato o vittimizzato, vive una sorta di riduzione a unica entità (“il migrante”) che non tiene conto della sua singolarità e della sua pluralità in quanto essere umano. Stretto nelle morse di questa rappresentazione aprioristica, ogni qualvolta si svincola con atti non riconducibili all’una o all’altra rappresentazione, mette in crisi un sistema. In realtà il migrante, in quanto essere umano, vive appieno la comune dimensione incoerente e molteplice del sé, non tenendo conto delle costruzioni che gli vertono attorno; queste, d’altro canto, pur essendo costruzioni, vengono agite come vere e, dunque, hanno conseguenze sul piano sociale. La responsabilità del ricercatore consiste anche nella capacità di mettere in crisi il proprio sistema e nel non contribuire alla edificazione di un discorso preconfezionato che tende a reificare uno status. A questo proposito, Bourdieu (1992: 280) scriveva:

mi avvilisce […] vedere come chi si incarica, per professione, di oggettivare il mondo sociale raramente si mostri poi capace di oggettivare se stesso, senza nemmeno accorgersi che il suo discorso apparentemente scientifico non parla tanto dell’oggetto quanto del suo rapporto con l’oggetto.

Una scrittura etnografica coerente rischia continuamente di castrare il dato esperienziale, mentre la narrazione dell’imperfezione (De Lauri 2008: 16) dell’esperienza etnografica permette di restituire una visione più vicina alla complessità degli eventi, senza nessuna pretesa di esaustività conoscitiva di un preconfezionato dato a priori da esplorare. Al ricercatore che si occupa di particolari ambiti dell’agito umano spetta anche una presa di posizione netta, cioè una disponibilità «alla responsabilizzazione delle azioni e delle conseguenze implicite nel suo lavoro» (De Lauri 2008: 17). Ciò poiché sia la fase di ricerca sia quella di analisi sono soggette a variabili di molteplice natura, non ultime quelle legate alla predisposizione, nelle varie fasi di elaborazione, del soggetto ricercatore.

L’esperienza etnografica, infatti, ha una dimensione processuale di cui si deve tener conto. La presenza stessa dell’etnografo modifica il tessuto sociale da indagare, creando situazioni nuove con cui tutti gli attori devono relazionarsi. E questo avviene in un campo, quello etnografico, che proprio la presenza del ricercatore modifica determinando il cambiamento di alleanze e strategie, secondo un’orchestrazione relazionale. Parafrasando Austin (1974), si potrebbe dire che l’esperienza etnografica stessa, nella sua dimensione processuale, creando il luogo dell’incontro, è performativa. Un percorso di ricerca non può essere prestabilito né quando si sta compiendo la ricerca etnografica né quando la si sta sviluppando. Anche l’appartenenza di genere condiziona e direziona la ricerca:

Il fatto di essere donna in un campo a forte predominanza maschile, tra uomini che intravedono la risoluzione alla mancanza di status giuridico, ha coniugato il bisogno di trascorrere molto tempo con i miei interlocutori alle loro fantasie progettuali. La necessità del riconoscimento giuridico diventa così impellente che, pur di ottenere l’agognato pezzo di carta, sarebbero ricorsi a qualsiasi metodo (Settineri, 2013a, p. 110).
 mercato Ballarò,Palermo

Mercato Ballarò, Palermo

 Ascoltando le storie di vita raccolte fra migranti residenti a Ballarò (Palermo, porzione del quartiere dell’Albergheria coincidente con il mercato), anche fra quelli sprovvisti di documenti, è possibile osservare che gli esseri umani adottano diverse strategie per ottenere un riconoscimento sociale.

Malik (registrazione audio 13 febbraio 2011), per esempio, grazie all’esperienza vissuta al centro Astalli di Palermo, avverte in maniera meno pervasiva la sua anomalia giuridica:

Il centro mi permette di esistere come persona, di avere un posto nella società, porto gli studenti delle scuole in giro per Ballarò. Gli faccio conoscere i luoghi non con i monumenti ma con le persone che ci abitano.  […] io spiego come si vive a Ballarò, faccio vedere i luoghi più importanti…Santa Chiara, il giardino si madre Teresa, dove suoniamo, dove mangiamo…Per me i ragazzi devono sapere queste cose […] pagarmi non è facile, io non posso spuntare nei progetti, bisogna trovare un altro modo sempre […] ma queste cose danno un senso alla mia vita […] ho un riconoscimento sociale, almeno quello.

La riflessione di Malik rappresenta una delle tante espressioni di diniego rispetto ai luoghi comuni, alle riflessione da talk-show imbonitore, alle facilità di stigmatizzazione. È fondamentale superare la visione stereotipata e strumentalizzata delle realtà sociali così come viene propinata. È importantissimo imparare a ricordare che non ci sono categorie astratte ma essere umani, ognuno con la propria storia e ogni storia con le proprie contraddizioni. Non è possibile ridurre la complessità. È l’invito di Deleuze (2010) a fare rizoma, a tracciare linee e mai punti, a non essere né uno né molteplice ma a essere molteplicità, affinché si inneschino reazioni produttive in grado di operare apparenti discontinuità discorsive che, in un gioco di rimandi, restituiscano narrazioni vitali laddove pressioni di poteri politici ed economici tentano di uniformare le storie in un’unica, mortifera, voce narrante, quella di chi sta al di là della barricata.

Dialoghi Mediterranei, n12, marzo 2015
Riferimenti bibliografici
Bauman Z.,  2003, Una nuova condizione umana, trad. it. Vita e pensiero, Milano
Bauman Z., 2005 [2004], Vite di scarto, trad. it. Laterza, Roma-Bari
Bourdieu P.,1992 [1992], Risposte. Per un’antropologia riflessiva, trad. it. Bollati-Boringhieri, Torino
De Lauri Antonio Per introdurre una riflessione sull’etnografia in De Lauri A. Achilli L., (a cura di) 2008, Pratiche e politiche dell’etnografia, Meltemi, Roma
Deleuze G., Guattarì F., 2010 [1980], Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. V.II Castelvecchi, Roma
Marcus G., 1995, Ethnography in/of the World System: the emergence of multisited ethnography, in «Annual Review of Anthropology», V. 24: 95-117 «
Riccio B., 2007, “Toubab” e “vu cumprà”. Transnazionalità e rappresentazioni nelle migrazioni senegalesi in Italia, Cleup, Padova
Settineri D., 2013a, Uomini di troppo. Illegalità ed eccedenza a Ballarò (Palermo), in De Lauri Antonio, (a cura di), 2013, Antropologia giuridica. Temi e prospettive di ricerca, Mondadori: 97-120
Settineri D., 2013b, Dispositivi ed eccezioni nel processo migratorio. La-storia di Odette in «Dialoghi mediterranei», (ISSN2384-9010),  on line, n.4, novembre
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Daria Settineri, dopo aver conseguito la laurea in Lettere classiche presso l’Università degli studi di Palermo, nel 2013, ha acquisito un Ph.D in Antropologia della Contemporaneità  all’Università Milano-Bicocca, con una tesi riguardante il rapporto tra migrazione, gestione di spazi urbani, criminalità organizzata e istituzioni a Palermo nel quartiere di Ballarò. Ha vissuto alcuni anni in Tunisia dove ha lavorato, tra l’altro, sull’impatto dell’esperienza migratoria sui riti matrimoniali in un sobborgo urbano di Tunisi e sulla migrazione dei siciliani durante il XX secolo. Ha pubblicato saggi e studi su dinamiche migratorie, storie di vita e metodologia della ricerca etnografica.

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