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Antinatalismo contemporaneo

Foto di Cobianchi

Foto di Giovanni Cobianchi

di Sarah Dierna 

Antinatalismo antico e contemporaneo

L’ostacolo forse più grande per comprendere l’antinatalismo siamo noi. La difficoltà di pensare noi stessi come mai stati (never having been) senza considerare nello stesso tempo tutto ciò che con noi non ci sarebbe stato. Kurning lo ha considerato un punto fondamentale: «The consideration to never have existed, the idea of one’s own self as never having been! The absence of one’s very self, of one’s highly important personality on the world stage; the chair one sits on, the bed one sleeps in: empty» [1]. Pensare in questi termini richiede infatti un grande sforzo.

Uno sforzo che faccia i conti con i tanti stratagemmi che la vita si è data per apprezzarsi un poco. Tra questi quello che in psicologia è stato definito Pollyanna Principle, la tendenza cioè a sopravvalutare i momenti positivi e a sottovalutare i momenti negativi. La fatica, ma anche il costo, di rammemorare tutte le volte che si è stati male e quanto invece poche ed effimere siano state le occasioni di vera gioia. Occasioni che senza nessuna sollecitazione dall’esterno siamo soliti ricordare con naturalezza, come fa dire anche Aristotele al suo Edemus nell’omonimo dialogo [2].

Uno sforzo che sia uguale e contrario al conatus sese conservandi della materia animata e al suo cieco bisogno di continuare il più a lungo possibile, di conservarsi, di ripetersi e di riconoscersi infine nella generazione successiva. Uno sforzo che sia capace di confrontarsi in modo serrato con ciò che sempre Kurning ha voluto chiamare ‘parent taboo’ e cioè il rispetto e il senso di gratitudine che si nutre incondizionatamente nei confronti dei genitori dai quali abbiamo ricevuto la vita.

Bisogna soprattutto fare i conti con la storia che ciascuno ha narrato a se stesso. Con la consapevolezza che nel non esserci stati niente si sarebbe conservato perché niente sarebbe stato, ma che anche quando non ci saremo più, presto o tardi, niente ci sarà. Aneliamo a che qualcuno possa ancora riconoscerci in una fotografia e rievocare in questo modo il ricordo di noi.

historyNel compiere questa fatica non è nemmeno possibile riporre fiducia nell’ausilio della ragione. Molti antinatalisti moderni e contemporanei individuano nella coscienza la fonte del nostro soffrire. Per superare questo disagio la mente si orienta nascondendo, obliando o reinventando la verità sui fatti del mondo quando è necessario, con il risultato ultimo di sopravvalutare la qualità della propria vita e di facilitare così la nostra permanenza nel mondo. Tramandarla.

Come specie siamo così fragili, così poco preparati a prendere atto di come stiano davvero le cose che il meglio che si riesce a fare è ingannarsi; laddove questo non riesce possibile, si deve tacere per non ostacolare coloro che stanno credendo di farcela. Così «whoever is “costantly working towards rapid depopulation,” will be “hushed up at all costs”» [3].

L’antinatalismo difende proprio questa posizione. Antinatalismo che è una parola recente ma il cui significato è assai più antico e profondo. Dal punto di vista storico la questione resta ancora poco discussa [4]. La letteratura scientifica distingue comunque un antinatalismo antico e uno contemporaneo. Per essere più precisi, un proto-antinatalismo e l’antinatalismo in quanto tale [5].

Benché in questa sede mi concentrerò sulla contemporaneità, mi sembra utile richiamare brevemente almeno questa distinzione. Nel mondo antico la miglior cosa sarebbe stata non venire al mondo, la seconda lasciarlo il prima possibile. La sapienza greca, induista e buddista mostra in questo un disincanto radicale. E tuttavia nessuno degli antichi sapienti ha mai chiesto di non fare figli. Le generazioni successive hanno continuato a venire al mondo dalle precedenti perché i pensatori delle origini concepiscono la ζωή soltanto come una parte dell’intero. Per i Greci dal punto di vista ontologico non esiste una coscienza sovrana che decida se dare la vita, se continuare a darla. Esiste la materia animata che diviene. Esiste prima di tutto la necessità della natura [6].

Nel mondo contemporaneo le cose stanno diversamente. Proprio perché nascere è una pena bisogna evitare di portare al mondo nuove vite. Gran parte della pena, per dir così, appartiene però soltanto all’animale umano in quanto animale consapevole. Naturalmente qui mi riferisco ad autori come il già citato Kurning, Leopardi, Schopenhauer, Hartmann, Zapffe, il più recente Ligotti. Certamente questo non vale per David Benatar, che pure è attualmente il più noto esponente della contemporaneità antinatalista [7]. Il secondo momento storico – che alcuni fanno cominciare con Schopenhauer, altri con Zapffe, altri ancora con Kurning – assume un impegno pratico di tipo antiprocreativo ed estinzionista che manca invece alla filosofia antica.

youngwertherIn tutto questo c’è del vero. Se tuttavia ripercorriamo il cammino storico seguendo un altro itinerario, diventa praticabile, o quanto meno si può provare a saggiare, un nuovo percorso ermeneutico in cui l’antinatalismo antico e l’antinatalismo contemporaneo sono soltanto apparentemente distanti. Dove sarà dunque possibile, per dirla con Gadamer, una fusione d’orizzonti a partire dal fatto che entrambi raggiungono comunque la stessa inesorabile conclusione.

L’elemento di continuità si trova proprio nel dispositivo autoconsapevole che contraddistingue la specie sapiens. Un primato che evoca sofferenza, dolore, patimento e che proprio per questo è la causa del modo così spesso difficile di abitare il mondo e della necessità quindi di spopolarlo. Ma la causa diventa anche la cura. 

Animali consapevoli

In quel capolavoro della letteratura romantica e di tutti i tempi che è I dolori del giovane Werther, Goethe fa incontrare il giovane amante ormai trafitto da un dolore senza requie con l’inquieto Enrico che si è perso per le campagne. Su questo ragazzo Werther scrive: 

«“E qual è stato il periodo in cui dice che stava tanto bene, in cui era felice?” “Povero pazzo!”, esclamò con un sorriso pietoso. “Si riferisce al periodo in cui era fuori di sé; lo decanta sempre quel periodo in cui stava al manicomio e non capiva più nulla…” […] “Allora stavi bene come un pesce nell’acqua!… Dio del cielo! È questa la sorte che hai riservato agli uomini, di essere felici solo prima di avere acquisito l’uso della ragione e dopo averlo perso!… Sventurato! Eppure invidio la tua malinconia, la confusione dei sensi in cui stai languendo! Te ne vai pieno di speranza a raccogliere fiori per la tua regina … d’inverno… e ti lamenti perché non ne trovi, e non capisci perché non ne trovi. E io… io me ne vado in giro senza speranza, senza scopo, e ritorno a casa uguale a come ne sono uscito… Tu deliri pensando che uomo saresti se gli Stati Generali ti pagassero, beato te che puoi attribuire la tua mancanza di felicità a un impedimento terreno. Tu non senti! Non senti che la tua infelicità risiede nel tuo cuore distrutto, nel tuo cervello sconvolto, e che tutti i re della terra messi insieme non potrebbero darti aiuto!”» [8]. 

Questa pagina coglie esattamente il ruolo che la coscienza occupa nell’esistenza dell’umano. Come gli altri animali nasciamo, moriamo, ci riproduciamo, patiamo e soffriamo nel mezzo. La differenza specifica dell’animale umano risiede tuttavia in ciò che Aristotele aveva già intuito, e cioè nell’anima razionale, nella facoltà intellettiva che gli fa sapere tutto questo: «Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza – lenta o veloce – che ci condurrà alla morte. Questa è la conoscenza di cui “gioiamo” in quanto organismi più intelligenti a nascere dal ventre della natura» [9].

Da un punto di vista biologico ed evolutivo le facoltà intellettive e rammemoranti hanno favorito la sopravvivenza di Homo Sapiens. In Su verità e menzogna in senso extramorale Nietzsche presenta questa particolare funzione come predisposta a garantire il ‘successo vitale’: 

«Funzione dell’intelletto è appunto difendere questa sua “casualità” vale a dire la “casualità” dell’individualità vivente cui esso è proprio, l’uomo, nel fiume del divenire: “trattenerlo per un minuto nell’esistenza” – ecco lo scopo dell’intelletto, che “come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione”. L’impulso alla “verità” sorge primieramente in questo quadro determinato al “successo vitale” dell’individuo dotato di questa “funzione”» [10].

640px-zapffe_peter_wessel_tromso_norwegenAnche il filosofo e letterato norvegese Peter Wessel Zapffe nelle prime pagine del suo racconto mitico L’ultimo Messia (Den sidste Messias, 1933) presenta il modo consapevole di esserci dell’animale umano come una spada, ma una spada a doppia lama. Come tale uno dei due estremi si rivolge all’esterno e permette al cacciatore-protagonista di nutrirsi, di soddisfare il suo interesse biologico e quindi di sopravvivere. Se si sa ben spendere diventa insomma un’utile bussola per la vita. L’altro corno si rivolge però contro se stessi condannando l’essere umano a un eccesso di coscienza che in alcuni casi diventa fatale.

È questo eccesso che porta il cacciatore, giunto sulla riva del lago, a riconoscere nell’altro animale una certa somiglianza, una comune sorte nel patire (Brotherhood of Suffering) e che lo farà tornare a casa a mani vuote. Questa consapevolezza sul dolore alla fine lo annienta così come l’eccessivo sviluppo delle corna, in passato, piegò fino alla scomparsa il Cervus Giganticus [11].

Questo dolore appreso, sentito e patito ha radici profonde perché all’essere umano non appartiene soltanto l’interesse biologico, sociale e autotelico, che condivide con gli altri animali, «each organism represents a certain “interest” associated with reproduction, which in the simplest case becomes its main fate» ma qualcosa di più: «Our human destiny, our place in the world, however, is based, at least in part, on something more than just the biological nature of the species» [12].

L’umano manifesta un bisogno di tipo metafisico, sente cioè l’esigenza di stabilire un ordine morale, un principio di giustizia, in una parola un senso all’accadere del mondo che in se stesso è privo di senso. Proprio da questo contrasto tra sé e il mondo sorge il sentimento del tragico che dà il titolo alla sua opera maggiore.

La coscienza comprende che la natura è in sé stessa priva di senso, e che le sue leggi sono cieche (blind laws), attraverso il processo che più di ogni altro terrorizza l’essere umano, il morire: «Zapffe then argues that our understanding of life as a whole presupposes consciousness of death. Consciousness of death shows the finite and mortal character of human existence, giving us an idea of life as a limited whole. […] Zapffe (1941: 68) says that death puts a brutal and arbitrary end to our activities and engagements, stopping our projects and plans by burying our possibilities, hopes, and dreams. Thus, for Zapffe, death shows the meaninglessness of life and that there really is no point after all» [13].

benatarE tuttavia la coscienza ha bisogno di trovare un senso, di possedere una verità che garantisca all’unità psicosomatica un equilibrio, per questo inventa la luce e i colori, per questo traveste un impulso generativo alla procreazione nell’amor cortese, la lotta per la sopravvivenza nella Grande Guerra e rimuove il pensiero della morte travestendolo nella porta d’accesso per l’aldilà. Generazione, sopravvivenza e morte che appartengono invece a tutti gli organismi terrestri ma su di essi l’umano consapevole ha bisogno di favoleggiare, per garantirsi la vita e per favorire quella altrui. «Man’s survival is made possible by a more or less conscious suppression of his hazardous surplus of consciousness. This suppression is, for all intents and purposes, continuous; it goes on as long as we are awake and active, and becomes a condition for social adjustment and what is popularly called “healthy” and “normal” behavior» [14].

Si tratta di ingaggiare una nobile menzogna affinché il ruolo della coscienza si mantenga funzionale. Qualcosa che Nietzsche aveva già intuito: 

«È degno di nota che tutto ciò che sia prodotto dall’intelletto, il quale è concesso – unicamente come aiuto – agli esseri più sfortunati, più delicati e più transitori allo scopo di trattenerli per un minuto nell’esistenza, […] quell’alterigia connessa col conoscere e col sentire, sospesa come nebbia accecante dinanzi agli occhi e ai sensi degli uomini, li inganna dunque sul valore dell’esistenza, portano in sé la più lusinghevole valutazione riguardo al conoscere. Il suo effetto più universale è l’inganno, ma anche gli effetti più particolari portano in sé qualcosa del medesimo carattere. L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione» [15]. 

Zapffe indica quattro particolari meccanismi di difesa: l’ancoraggio, la distrazione, l’isolamento e la sublimazione. Ciascuno di essi orienta il modo di concepire il mondo, stabilisce un ordine, delle convenzioni, un senso appunto. Tra questi meccanismi rientra anche il fenomeno religioso con la sua promessa di un aldilà felice e senza peccato, con il suo sogno di immortalità che redime dall’inevitabile fine. Alla Vecchia Genesi del religioso Ligotti aggiunge poi la Nuova Genesi del transumanesimo. Sono meccanismi che assomigliano, ma solo in parte, alle prospettive di senso di Benatar. Il filosofo sudafricano, infatti, sostiene come Zapffe che l’individuo non raggiungerà mai un senso sub specie aeternitatis. È possibile però individuare e accogliere prospettive più misurate che possano contribuire a risollevare la qualità della vita. Mentre i dispositivi di Zapffe agiscono in modo inconsapevole perché sono stati introiettati per reprimere una verità che risulterebbe altrimenti insopportabile, i dispositivi di Benatar non nascondono niente ma aiutano a tollerare una condizione comunque faticosa, misera, inquieta. Nell’uno e nell’altro caso si tratta comunque di strumenti che rendono la vita degna di continuare, mai di iniziare.

schopenhauerNel pensiero di Zapffe c’è l’inconfondibile influenza di Giacomo Leopardi e di Arthur Schopenhauer. Entrambi, sia il filosofo di Recanati sia il filosofo di Danzica, sono infatti richiamati nel libro sul tragico. Il primo è nominato soltanto una volta insieme a Hartmann e a Schopenhauer per dare forza all’ipotesi di un pessimismo metafisico (metafysisk værdipessimisme), di uno stato patologico-sano in cui la ‘malattia’ è così atroce soltanto perché rivela il vero. Nella verità c’è la malattia ma il paziente (Zapffe chiama così colui che soffre) ritrova anche la salute. Il morbo che lo ha colpito non ha una fonte patologica, curata la quale si può tornare a stare bene. Per il paziente non c’è limite al malessere perché non c’è limite nel pensiero fino al punto che il sentimento di disperazione può estendersi e diventare disperazione per la storia del mondo e per il carattere dell’umanità.

Il secondo (Schopenhauer) è assai più presente invece. A questo livello di comprensione dei fatti la concezione di Zapffe è la stessa che è stata di Nietzsche e del suo maestro. Non si vede più alcun progresso nella storia, nessun margine di miglioramento che non sia il riflesso di un interesse metafisico. Opere quali Il mondo come volontà e rappresentazione o i Parerga e paralipomena devono essere state ben presenti al norvegese Zapffe.

Della cieca volontà la vita individuata è il fenomeno. Soltanto al fenomeno spetta il nascere e il morire; soltanto al fenomeno umano poi la capacità di sentire il desiderio acceso e soffocato della volontà che lo mantiene in uno stato di turbamento. In questo stato il male è di gran lunga superiore al bene che in se stesso non esiste se non come una condizione negativa, di assenza del primo elemento (il male, appunto). «Il bisogno e la noia» scrive Schopenhauer «sono […] i due poli della vita umana» [16]. Spostando lo sguardo sulla totalità del mondo umano 

«si scorge dovunque una lotta incessante, una battaglia imponente, nella quale sono impegnate tutte le forze, del corpo e dello spirito, per la vita e l’esistenza contro la minaccia e il continuo insorgere di pericoli e mali di ogni genere. – E, se poi si considera il premio per il quale si fa tutto ciò, cioè l’esistenza e la vita, si trovano alcuni intervalli di esistenza senza sofferenza intaccati subito dalla noia e rapidamente interrotti da nuove angustie. – che dopo l’angustia si trovi subito la noia, la quale assale perfino gli animali più intelligenti, è una conseguenza del fatto che la vita non ha un vero contenuto autentico, ma viene tenuta in movimento soltanto dal bisogno e dall’illusione: ma non appena questo movimento si arresta, si rivela tutta l’aridità e la vacuità dell’esistenza» [17]. 

Di fronte a tutto questo, Schopenhauer si domanda se l’atto generativo fosse un atto razionale chi mai lo porterebbe a termine. Probabilmente nessuno. L’infelice sorte che spetta al fenomeno umano deriva proprio dal gioco cieco della volontà e dall’essere una sua parte. La natura fenomenica raggiunge poi nel sapiens il grado maggiore di autocoscienza. È questo un dispositivo che per molti pensatori separa l’animale umano dall’animale non umano. 

Animali non umani

Da Schopenhauer Zapffe si allontana quanto al rapporto con l’animalità non umana. Nei Parerga il filosofo così si esprime rispetto agli altri animali: «Ma quanto più forti sono, rispetto a quelli dell’animale, gli affetti che sono suscitati in lui! Quanto più profondamente e più violentemente il suo animo è commosso! – Per raggiungere, da ultimo, solo lo stesso risultato: la salute, il cibo, la protezione del corpo, e così via. Ciò deriva, prima di tutto, dal fatto che in lui ogni cosa è grandemente intensificata dal pensiero». La coscienza diventa insomma l’unità di misura del dolore. Infatti: 

«[all’animale], cioè, manca, con la riflessione, il condensatore delle gioie e dei dolori, che perciò non possono accumularsi, come avviene nell’uomo mediante il ricordo e la previsione: nell’animale, il dolore del presente, anche se si ripete innumerevoli volte, una dopo l’altra, rimane pur sempre come la prima volta dolore del presente, e non può essere sommato. Di qui l’invidiabile mancanza di preoccupazioni e tranquillità d’animo degli animali. Invece, mediante la riflessione e ciò che con essa è legato, nell’uomo si sviluppa, da quegli stessi elementi di piacere e di sofferenza, che l’animale ha in comune con lui, un’intensificazione del sentimento della propria felicità e infelicità» [18]. 

Il dispositivo autoconsapevole insomma accresce il patire e il soffrire. Di questa accresciuta intensità fa parte anche la consapevolezza del proprio morire che l’animale rifugge in modo istintivo senza però rinnovarla istante dopo istante, senza sapersi un essere-per-la-morte. Nel Mondo, questo iato ritorna allargando la sua cerchia al mondo vegetale: 

«Nella pianta non c’è ancora alcuna sensibilità, e quindi non vi è alcun dolore; un grado certo molto piccolo dell’una e dell’altro è insito negli animali inferiori, negli infusori e nei radiati; persino negli insetti la capacità di provare sensazioni e di soffrire è ancora limitata; è solo con il più complesso sistema nervoso dei vertebrati che essa si presenta in un grado elevato, e sempre più alto quanto più si sviluppa l’intelligenza. Nella stessa misura, dunque, in cui la conoscenza perviene alla chiarezza e in cui la coscienza aumenta, cresce anche la pena, la quale di conseguenza | raggiunge il suo grado più alto nell’uomo, e anche qui tanto più quanto più l’uomo conosce con chiarezza e quanto più è intelligente: il genio soffre più di chiunque altro. In questo senso, vale a dire in relazione al grado della conoscenza in generale, e non solo del puro sapere astratto, io capisco e utilizzo qui quel detto di Qohélet: “Qui auget scientiam, auget et dolorem”» [19]. 

Nella stessa pagina Schopenhauer rimanda a un disegno del pittore del Settecento Johann Heinrich Wilhelm Tischbein che raffigura nella parte superiore del foglio delle donne straziate dal rapimento dei loro figli mentre nella parte inferiore lo stesso accadimento coinvolge però un gregge e i loro agnellini. Con ciò «si vede ora chiaramente quale relazione vi sia tra il dolore che può provare l’ottusa coscienza animale e lo strazio lacerante che soltanto la chiarezza della conoscenza, la lucidità della coscienza rendono possibile» [20].

Diversa è invece la posizione di Zapffe che nel racconto esordisce, come si è detto, con una scena di caccia mutilata e nella sua tesi di dottorato non mancano numerosi e ripetuti riferimenti al mondo animale. Bisogna però prendere nota di un passo in cui il pensatore si accinge a distinguere l’animale umano e l’animale non umano.

6-essential-books-existentialist-philosophy-5Nell’opera del 1933 scrive: «Animals, too, know angst, under the roll of thunder and the claw of the lion. But man feels angst for life itself – indeed, for his own being. Life – for animals it is to feel the play of forces, of rut and play and hunger, and at the last, to bow before necessity. Suffering in an animal is limited to itself; for men it builds itself up and spilled out into angst for the world and for life» [21]. La mia convinzione è che l’intenzione di Zapffe non sia quella di stabilire una gerarchia ma soltanto una differenza. L’animale non umano conosce comunque l’angoscia esattamente come l’animale umano. Non trascurerei inoltre che il narratore fa scorgere al cacciatore la prossimità che lo avvicina alla specie che avrebbe dovuto uccidere. È insomma l’essere umano ad annullare la distanza, a sentire una sorte simile a quella delle sue prede e a tornare per questo a mani vuote.

In questo mi sembra più fecondo accostare la posizione di Zapffe all’antropodecentrismo di Leopardi in cui è l’animale a deridere e compatire l’umano. Nelle Operette Leopardi mette in dialogo un bue con un cavallo e un cavallo con un toro ma per irridere la specie umana; la natura con un’islandese per restituirla alla sua indifferenza. Alla fine infatti la vita animale non umana risulta essere sempre la sorte migliore mentre gli umani sono dipinti come gli infelicissimi sopra gli altri animali (Elogio degli uccelli), come coloro che non riuscivano mai a essere contenti e felici (Dialogo tra due bestie). Scontenti e infelici non perché siano una specie superiore anche nel dolore ma perché hanno contribuito alla loro frustrazione quando si sono attribuiti privilegi che non possiedono. Molte delle Operette hanno di mira proprio questo antropocentrismo.

Nel Dialogo tra le due bestie c’è una situazione caratterizzante che si ripresenta nello scambio tra il cavallo e il toro, o tra il folletto e uno gnomo: la razza umana che è al centro della loro conversazione si è già estinta. E la natura non se n’è ‘avvista’.

L’antinatalismo di Leopardi non è ancora quello del Novecento e del XXI secolo ma non è più quello che è appartenuto alla Grecità. Del primo e del secondo si intravvede qualche barlume soltanto. Fa dire a Malambruno che «assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere» [22]; a Filippo Ottonieri che «dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non essere nato» [23]; a Tristano che «il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna» [24]. E se si domanda agli umani se desiderano riavere la vita di prima si scopre che nessuno vorrebbe rinascere perché nessuno ambisce a rivivere una vita che ha recato loro più male che bene. A questo punto ciò che segue è molto semplice e ha la stessa valenza profetica/oracolare del Messia di Zapffe: bisogna «astenere dal porli al mondo» [25].

9780190633813_0_536_0_75Nell’esclusione della questione animale dal suo lavoro David Benatar è stato sincero e in The Human Predicament ha motivato questa sua scelta. Non si tratta di avere la presunzione di ritenere solo l’essere umano la specie che sta peggio, ma di rivolgerci a noi stessi con obiettività: se desideriamo che l’antinatalismo venga preso sul serio bisogna rivolgersi al diretto interessato e rendere lui l’unico protagonista della storia. Insomma, da questo punto di vista c’è in Benatar una sicura sensibilità sulla questione animale [26].

C’è poi da soffermarsi su un ulteriore e non trascurabile aspetto. Gli animali non umani soffrono come gli animali umani. Ma ai primi si aggiungono le atrocità che i secondi arrecano loro. Liberarsi della specie sapiens raddoppia quindi il vantaggio e dimezza la sofferenza: l’animale umano che non viene al mondo si sottrae al suo patire e l’animale non umano gioverà di questa assenza perché non subirà più il danno da parte della specie adesso estinta.

Moen, che sull’antinatalismo di tutti gli organismi senzienti ha rimandato al programma abolizionista di David Pearce, nota in modo curioso che 

«insofar as a Zapffian is genuinely concerned about suffering in nature at large, it is unclear how they could be justified in concluding that it is even morally permissible to phase out humanity. The reason is that although the phasing out of humanity would eliminate suffering in wild nature. Quite possibly, if humans went extinct, there would be more, rather than less, wild animals, and therefore, every year, there would continue to be billions of sentient beings that are born into an existence that, for a great many of them, is characterized by hunger, fear, and pain, and in which just a minority survives into adulthood» [27]. 

L’estinzione del genere umano diventa quindi un quarto e più radicale meccanismo di soppressione della coscienza: «It would be to shut out the horrors of the world by means of wiping out the human intellect» mentre «insofar as one is concerned with preventing suffering, however, the right way forward is not to wipe out the intellect that is painfully aware of those horrors, but rather, to put the intellect to use in the fight against suffering» [28]

Conoscenza e redenzione

Nell’analitica esistenziale di Benatar la coscienza non assume particolare rilievo. Sebbene egli riconosca che «l’ignoranza è un analgesico esistenziale», ammette anche che «coloro i quali non avvertono in modo sufficientemente adeguato il peso della condizione umana sono anche dei vettori della trasmissione alle nuove generazioni» [29]. È su questo valore positivo della coscienza che mi concentrerò adesso.

La conoscenza diventa salvifica per l’ultimo messia che compare soltanto alla fine del racconto di Zapffe a portare il suo annuncio di salvezza prima di essere messo di nuovo in croce. Si rivolge ai presenti con le stesse antiche parole dell’oracolo di Delfi: «The life on many worlds is like a rushing river, but the life on this world is like a stagnant puddle and a backwater. The mark of annihilation is written on thy brow. How long will ye mill about on the edge? But there is one victory and one crown, and one salvation and one answer: Know thyselves; be unfruitful and let there be peace on Earth after thy passing» [30].

La coscienza torna di nuovo a essere la lama senza impugnatura che è una condanna ma che in ultimo può ancora redimere. Redime le future generazioni perché solo ‘conoscendo se stesso’, andando oltre le sue dissonanze cognitive, l’essere umano sarà veramente capace di maturare e di raggiungere un esito antinatalista. Redime se stessa perché l’esserci che si riconcilia con ciò che è ritorna a vedere il nascere e il morire come due necessità naturali e in quanto tali l’orrore metafisico che su di esse gravita si dissolve. Ciò che Zapffe ha definito tragico «would then be simplified, reduced, to nothing more than the physical end of existence, making the phenomenon of tragedy extensively extrapolable to all forms of life on Earth» [31].

Qui il cerchio ritorna dove siamo partiti: a Kurning e a Schopenhauer. A loro si aggiunge Hartmann. E la conclusione è la stessa degli gnostici, degli induisti e dei buddisti. L’unica a essere praticabile per l’antinatalismo antico. La volontà di vivere 

«non può venire soppressa da null’altro che dalla conoscenza. […] Solo in seguito a questa conoscenza la volontà può sopprimere se stessa e, con ciò, anche porre fine alla sofferenza, che è inseparabile dal suo fenomeno; questo invece non è possibile attraverso violenze fisiche, come la distruzione dei germogli, oppure l’uccisione dei neonati, o il suicidio. La natura guida appunto la volontà verso la luce poiché soltanto nella luce essa può trovare la propria redenzione. Perciò tutti gli scopi della natura debbono essere perseguiti in ogni maniera, non appena la volontà di vivere, che è la sua essenza profonda, si sia decisa a manifestarsi» [32]. 

In queste righe ritornano le parole di Democrito sulla necessità della natura, dell’atomista che trova nella possibilità di conoscere le vere cause l’unica ragione di gioia, come a dire che solo da questa conoscenza si potrà forse ricavare quel poco di soddisfazione che riesce a redimere la difficile condizione umana.

bonatellilafilosofiainconscio_0000Allievo ideale di Schopenhauer, Eduard von Hartmann riprende la natura della volontà così come l’aveva pensata il maestro dei suoi studi. Nella Filosofia dell’inconscio il movimento della volontà segue tuttavia un percorso di tipo evolutivo ma soprattutto teleologico. Questo percorso prevede una stagione matura della ragione che lungo il cammino acquisirà una forza sempre maggiore rispetto alla volontà stessa che in ultimo sarà capace di emanciparsi e di vincere così la forza cieca e inconscia della materia animata.

Distinguendo questo percorso storico in tre fasi, con l’antichità greco-romana e l’avvento del Medioevo e del Cristianesimo già superate, Hartmann «believes that the third (the current) stage of human development will gradually raise our consciousness further so that in the long run the greater part of humanity will come to realize the fundamentally flawed nature of existence and its inescapable miseries» e «once his perception takes hold, volition will cease and the world process will come to an end» [33]. Anche per Hartmann, dunque, la conoscenza è la condizione e la premessa per una liberazione che culmina con l’estinzione (self-annulment).

A differenza delle correnti orientali o gnostiche, la liberazione – la vera liberazione – è una soluzione collettiva perché la negazione del singolo assume per Hartmann lo stesso effetto che ha per Schopenhauer il suicidio: si tratta del venire meno del singolo, non della specie. Ogni cosa che esiste in modo animato deve disperdersi. Solo così la volontà che sta al fondamento di ogni vita non potrà più continuare a esistere e cominciare ancora. «For Hartmann the endeavour to bring existence to an end is an altruistic act meant to end at the same time the immorality of life as well as its pain and sufferings». «World-evolution is moving in that direction is his metaphysical premise that the world began from an original state of rest and non-being and that return to that initial state is immanent in the process of evolution itself»[34].

Schopenhauer, sulla scia del buddismo e dell’induismo, scorge nella negazione della volontà di vivere un percorso, ancora una volta, individuale in cui l’asceta supera il dualismo io-mondo abbracciando uno stile di vita povero di desiderio, lontano dai piaceri della carne e dei sensi. La negazione di questi piaceri non serve alla salvaguardia delle vite future ma contribuisce a liberare la propria. L’autore de Il mondo avrebbe escluso naturalmente l’evoluzionismo di Hartmann. Oltre ogni ottimismo storico la filosofia ci conferma che niente è mai davvero mutato. Per questo restano ancora valide le parole di Kurning: «The study of philosophy and the cult of beauty (in art) is the only means that will be able to warrant mankind relatively lasting satisfaction. And it will prepare mankind for an exodus from existence» [35].

A questo livello l’antinatalismo attivo, antiprocreativo, o moderno che sia, incontra di nuovo le sapienze antiche. Questa volontà che si nega assecondandola – benché dia da pensare sull’effettivo antinatalismo dell’autore – riprende i temi della natura necessaria, o delle sapienze orientali. Certo, se si guarda al convergere di questa riflessione sul piano pratico, allora un certo distacco rimane. L’antinatalismo forte e risolutivo di Benatar ci mette tra le mani una prassi antiprocreativa che passando per l’aborto arriva all’estinzione, una soluzione certamente definitiva che non asseconda niente [36]. Lo stesso filosofo sudafricano ha però scritto di sperare ben poco nella realizzazione di un’ipotesi come questa. Egli sa e riconosce che se ci sarà una fine essa sarà certamente costretta e non voluta dagli umani.

Siracusa, Medea, 14 maggio 2023 (ph. Sarah Dierna)

Siracusa, Medea, 14 maggio 2023 (ph. Sarah Dierna)

E tuttavia, nell’antinatalismo contemporaneo si intravede l’antinatalismo antico, soltanto dimidiato e forse inconsapevole. Con specifico riguardo alla Grecità Lachmanová scrive che «in the mythic outset, the desire for happiness was considered to be an unacceptable haughtiness, ὕβϱις, and so yet from the beginning of the modern times started to hold true, […] a right to seek personal happiness» [37]. Credo si possa considerare veramente attivo un antinatalismo che sia consapevole del limite di tutte le cose. Il divario sta nel mezzo e cioè in quel salto tutto moderno che ha portato a rivendicare «[a] right to seek personal happiness», un masso che è destinato a precipitare giù e, cosa ben più grave a considerare la propria vita degna di essere cominciata (e dunque di continuare).

I moderni, in altre parole, introducono un altro dualismo che al male accompagna il bene, al dolore la gioia superando così il limite ma anche la consapevolezza degli antichi, l’unica garanzia, quest’ultima, veramente sicura per una esistenza consapevole ma nonostante tutto ancora sorridente.

L’innesto di questo dualismo ha comportato per l’essere umano una costante tensione verso il raggiungimento di qualcosa che a lui non è dato, nell’illusione però che gli sia stato dato e la speranza dunque di raggiungerlo. Per farla breve: uno sguardo miope su se stessi e sul mondo che, gravido di questa idea, ha reso gravida anche la propria vita. Ma questo è un inganno della coscienza.

Non mi sto impegnando a sostenere fino in fondo e in modo deciso una totale sovrapposizione o coincidenza tra il mondo antico e la contemporaneità. È un anacronismo e come tale sarebbe ingenuo ed errato. Penso piuttosto che la questione del nascere tra antichità e modernità possa meritare uno studio più analitico e attento in questa direzione. Potrebbe emergere che la separazione non sia poi così netta. Il tutto soltanto a una condizione che mi sembra fondamentale affinché il discorso possa proseguire. Bisogna mettersi d’accordo su che cosa si intenda per antinatalismo per poi capire quali posizioni siano da considerarsi tali e quali no, quali di tipo pragmatico e quali soltanto teoriche. Non è una cosa da poco ma è necessario stabilire il confine del campo all’interno del quale si decide di giocare la partita.

In questa sede, assumendo come criterio non le pratiche coinvolte bensì il dispositivo di autoconsapevolezza che contraddistingue la specie sapiens, mi sembra plausibile sostenere che l’approdo di Zapffe come di Schopenhauer, di Hartmann e di Ligotti sia lo stesso che hanno già battuto i pensatori delle origini. Con la differenza però che ciò che agli antichi è apparso evidente noi dobbiamo impararlo di nuovo perché abbiamo preferito dimenticarlo. Solo quando saremo tornati a vedere le cose come stanno saremo pronti a renderci infecondi con convinzione e per filantropia.

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] Kurning, in K. Akerma, «Kurning and his neo-nihilism: the first modern antinatalist», in Aa. Vv., History of Antinatalism. How Philosophy has challenged the question of procreation, edited by K. Lachmanová, 2020: 141. Il corsivo è dell’autore. Kurning è uno pseudonimo con cui l’autore ha scelto di firmarsi nei propri libri.
[2] Su Aristotele si veda F. Svoboda, «Aristotle and his Edemus», in Aa. Vv., History of Antinatalism: 53-67. Qui lo Stagirita presenta anche il noto dialogo tra Mida e Sileno che poi verrà ripreso ne La nascita della tragedia da Nietzsche.
[3] Kurning, in K. Akerma, «Kurning and his neo-nihilism: the first modern antinatalist», cit.: 144.
[4] Sulla storia dell’antinatalismo rimando a K. Coates, Anti-natalism: Rejectionist Philosophy from Buddhism to Benatar, First Edition Design Publishing Sarasota, Florida 2014. Al già citato Aa. Vv., History of Antinatalism. How Philosophy has challenged the question of procreation, edited by K. Lachmanová, 2020. Per una breve introduzione invece si veda M. Morioka, What is Antinatalism? Definition, History and Categories, in The Review of Life Studies, Vol. 12, May 2021.
[5] Lachmanová definisce l’antinatalismo antico e contemporaneo rispettivamente ‘passivo’ il primo e ‘attivo’ il secondo; M. Poledníková propone invece la divisione tra ‘broader-sense antinatalism’ e ‘narrow-sense antinatalism’; M. Morioka separa invece l’antinatalismo come ‘Birth negation’ dall’antinatalismo come ‘Antiprocreationism’, e aggiunge a queste due categorie una terza: ‘Reincarnation negation’.
[6] Basterà questo frammento di Democrito a lasciare intendere la tonalità in cui si inserisce l’antinatalismo antico: «ἀνθρώποισι τῶν ἀναγκαίων δοκεῖ εἶναι παῖδας κτήσασθαι ἀπὸ φύσιος καὶ καταστάσιός τινος ἀρχαίης. δῆλον δὲ καὶ τοῖς ἄλλοις ζῴοισι· πάντα γὰρ ἔκγονα κτᾶται κατὰ φύσιν ἐπωφελείης γε οὐδεμιᾶς εἵνεκα· ἀλλ’ ὅταν γένηται, ταλαιπωρεῖ καὶ τρέφει ἕξαστον ὡς δύναται καὶ ὑπερδέδοικε, μέχρι σμικρὰ ᾖ, καὶ ἤν τι πάθῃ ἀνιᾶται. ἡ μὲν φῦσις τοιαύτη πάντων ἐστὶν ὅσσα ψυχὴν ἔχει· τῷ δὲ δὴ ἀνθρώπῳ νομίζον ἤδη πεποίηται, ὥστε καὶ ἐπαύρεσίν τινα γίγνεσθαι ἀπὸ τοῦ ἐκγόνου» ‘avere figli pare agli uomini una necessità dettata dalla natura e da un’antica disposizione. Questo pare trovare conferma da quel che appare chiaramente accadere per tutti gli altri esseri viventi: infatti, tutti, in accordo con la natura, hanno figli senza aspirare a guadagnarci qualcosa. Anzi, quando il figlio viene al mondo, ciascuno soffre, lo alleva nel modo in cui riesce, e si dedica al di là di ogni limite al figlio, fintanto che è piccolo, e si tormenta per le sofferenze che egli prova. Questa disposizione naturale è propria di tutti gli esseri animati. Tuttavia, negli uomini questo processo è ormai compiuto con consapevolezza, giacché c’è la speranza di trarre qualche vantaggio dalla prole’, Democrito, DK, B 278, in I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimoniante e dei frammenti nella raccolta di Herman Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006: 1435.
[7] Per un’introduzione a David Benatar, del quale non parlerò in queste pagine, mi permetto di rimandare a un mio recente contributo: S. Dierna, «È il nascere che non ci voleva. Introduzione a David Benatar», in Vita pensata, n. 26, gennaio 2022.
[8] J.W. Goethe, I dolori del giovane Werther (Die Leiden des junger Werthers), trad. di G. De Sanctis, Giunti Editore, Milano 2015:. 111-112.
[9] T. Ligotti, La cospirazione contro la razza umana, (The Conspiracy Against The Human Race, 2010), trad. di L. Fusari, Il Saggiatore, Milano 2016: 27.
[10] E. Mazzarella, Nietzsche e la storia. Storicità e Ontologia della vita, Carocci, Roma 2022: 45.
[11] Il paragone col cervo viene proposto da Zapffe nel racconto e ripreso poi nella tesi di dottorato, Om Det Tragiske (1941). Su Den Sidste Messias farò riferimento alla traduzione inglese: P.W. Zapffe, The last Messiah (Den sidste Messias, 1933), in Aa. Vv., Wisdom in the Open Air: The Norwegian Roots of Deep Ecology, edited by P. Reed and D. Rothenberg, translated by S. Kvaløy with P. Reed, University of Minnesota Press, Minnesota 1992.
[12] A.M. Proszewska, «Investigating the origins of Peter Wessel Zapffe’s notion of tragedy in Aristotle’s Poetics: the case of mimesis», in Degruyter, ejss 50(2), 2020: 290.
[13] R. Fremstedal, Meaning Of Life: Peter Wessel Zapffe On The Human Condition,in Aa. Vv., Meaning in Life, edited by Beatrix Himmelman, De Gruyter, Berlin Boston 2013: 116.
[14] P.W. Zapffe, The Last Messiah,cit.: 44.
[15] F. W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, (Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne), trad. di G. Colli, Adelphi, Milano 2015: 12.
[16] A. Schopenhauer, Aggiunte alla dottrina del dolore del mondo, in Id., Parerga e Paralipomena, (Parerga e Paralipomena: kleine philosophische schriften, 1851), tomo secondo, trad. di M. Montinari e E. Amendola Kuhn, Adelphi, Milano 1983: 387.
[17] Id., Aggiunte alla dottrina della nullità dell’esistenza, ivi: 376-377.
[18] Id., Aggiunte alla dottrina del dolore del mondo, ivi: 386.
[19] Id., Il mondo come volontà e rappresentazione, (Die Welt als Wille und Vorstellung), a cura di G. Brianese, Einaudi, Torino 2013: 399.
[20] Ibidem.
[21] P.W. Zapffe, The Last Messiah, cit.: 41-42.
[22] G. Leopardi, Dialogo di Malambruno e di Farfarello, in Id., Operette morali, a cura di G. Ficara, Mondadori, Milano 2016: 48.
[23] Id., Detti memorabili di Filippo Ottonieri, ivi: 149.
[24] Id., Dialogo di Tristano e di un amico, ivi: 248.
[25] Id., Dialogo della natura e di un’anima, ivi: 49.
[26] Su Benatar e la questione animale si veda A.G. Biuso, «Meglio non essere mai nati. Riflessioni sul libro di David Benatar», in Liberazioni. Rivista di critica antispecista, Anno X, n° 38, autunno 2019.
[27] O. M. Moen, «Pessimism Counts in Favor of Biomedical Enhancement: a Lesson from the Anti-natalist Philosophy of P.W. Zapffe», in in Neuroethics, n. 14, 2021: 324.
[28] ibidem
[29] D. Benatar, La difficile condizione umana (The human predicament: a candid guide to life’s big questions, Oxford University Press, Oxford 2017), a cura di L. Lo Sapio, Giannini Editore, Napoli 2020: 258.
[30] P.W. Zapffe, The Last Messiah, cit.: 52. Il corsivo è dei curatori P. Reed e D. Rothenberg.
[31] A.M. Proszewska, «Investigating the origins of Peter Wessel Zapffe’s notion of tragedy in Aristotle’s Poetics: the case of mimesis», cit.: 290.
[32] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tomo secondo,cit.: 512.
[33] K. Coates, Anti-natalism: Rejectionist Philosophy from Buddhism to Benatar, cit.: 81-82.
[34] Ivi: 83.
[35] Kurning, in K. Akerma, «Kurning and his neo-nihilism: the first modern antinatalist», cit.: 132.
[36] Credo comunque che non vadano trascurati esempi come la figura di Medea che uccide i propri figli o di Talete del quale Dioegene scrive: «ἔνιοι δὲ καὶ γῆμαι αὐτὸν καὶ Κύβισθον υἱὸν σχεῖν· οἱ δὲ ἄγαμον μεῖναι, τῆς δὲ ἀδελφῆς τὸν υἱὸν θέσθαι. ὅτε καὶ ἐρωτηθέντα, διὰτίοὐτεκνοποιεί, διὰφιλοτεκνίανεἰπεῖν; ‘Alcuni dicono, inoltre, che si sia sposato, e abbia avuto un figlio, Cibisto; altri, invece, che sia rimasto scapolo, e abbia nominato suo erede il figlio della sorella. E interrogato proprio sul perché non generasse figli, rispose: “Per amore dei figli”», Talete, I, 26 in I presocraticicit: 149.
[37] K. Lachmanová, «History of Antinatalism: From Modern Age to Present», in Aa. Vv., History of Antinatalism, cit.: 92.

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Sarah Dierna, studia Scienze filosofiche nel Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. Si è laureata in filosofia con una tesi dal titolo Liberi di scegliere fino alla fine: questioni etiche e politiche su eutanasia e suicidio medicalmente assistito. Sulla rivista Vita pensata ha pubblicato una introduzione al pensiero del filosofo sudafricano David Benatar. Scrive anche sulla rivista Il Pequod.

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 2023
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