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Alle radici della crisi dei nostri giovani

128134-mddi Giuseppe Savagnone 

Si parla molto oggi della situazione problematica dei giovani, insistendo su una serie di fenomeni – la droga, la violenza, la dipendenza dalle mode – che sono in realtà solo le manifestazioni di un cambiamento antropologico più profondo, di cui stentiamo a prendere coscienza perché coinvolge noi stessi, gli adulti, immersi a nostra volta nello stesso clima culturale. A ben vedere, anzi, quello che vediamo rispecchiato nelle nuove generazioni non è altro che il riflesso del nostro volto. Perciò è importante prendere coscienza, guardando loro, di ciò che sta accadendo, dietro i sintomi superficiali, per cominciare da noi stessi un percorso che in prospettiva consenta di superare la crisi in atto.

Senza dimenticare che quella che stiamo vivendo è anche una crescita, di cui sarebbe assurdo negare gli aspetti positivi. Nella società che qualcuno chiama “iper-moderna”, qualcun altro “tardo-moderna”, altri ancora “post-moderna”, i giovani – almeno nel mondo occidentale – fruiscono di una condizione generale di emancipazione e di libertà sconosciuta ai loro coetanei di un secolo fa.

A volte si sente rievocare con nostalgia un passato di cui si rimuovono spesso i limiti e le chiusure. Ma nessuno vorrebbe seriamente ripristinare il rapporto di totale dipendenza dei figli (e della moglie) dal padre-padrone, o gli stili autoritari che caratterizzavano la scuola e la Chiesa. Non si tratta di tornare indietro, ma di capire come andare avanti, in un contesto in cui il dissolversi di strutture sociali entro cui i giovani erano al tempo stesso protetti e rigidamente inquadrati determina l’apertura di nuovi orizzonti, ma anche un profondo smarrimento e reazioni scomposte.

71mhy7i4qrl-_ac_uf10001000_ql80_La ricerca dell’autenticità

Quando si denuncia la “crisi dei valori”, non si tiene conto che in realtà dei valori nel mondo giovanile ci sono, anche se sono diversi da quelli del passato. Basti qui citarne uno, che per i giovani rappresenta un punto di riferimento fondamentale, quello dell’autenticità, in cui si esprime la fedeltà di ciascuno, nel suo essere unico e irripetibile, al proprio volto, alla propria verità.

Un posto fondamentale, nella prospettiva dell’autenticità, hanno, con la loro indefinita varietà e perfino con la loro contraddittorietà, le emozioni, in passato spesso represse, misconosciute, mascherate (perciò l’autenticità viene spesso identificata con la sincerità!) in nome di una ragione tirannica, che Freud ha denunziato come espressione del Super-Io e che trovava la propria espressione nei condizionamenti della famiglia, della società, della Chiesa.

Particolarmente evidente è stato questo processo di liberazione nel mondo femminile. Qui i modelli in cui identificarsi erano particolarmente rigidi. Si poteva essere “angelo del focolare”, oppure amante, o sgualdrina. Tranne che nel caso di una vocazione monastica, che sottraeva a questa gamma di destini per aprirne uno diverso, ma anch’esso rigorosamente codificato. Nel mondo attuale una ragazza, al pari dei suoi coetanei di sesso maschile, ha davanti a sé una gamma indefinita di opportunità tra cui scegliere in base alle proprie inclinazioni. E non deve più nascondere i propri stati d’animo e le proprie pulsioni, anche in quell’ambito tradizionalmente dominato da una serie di tabù che era la sessualità.

Non si può negare, tuttavia, che la scoperta di un valore come l’autenticità, che dovrebbe garantire una maggiore capacità di essere se stessi, dia luogo invece ad affetti problematici. Come nota un lucido osservatore non sospetto di pregiudizi moralistici, Umberto Galimberti, alla scoperta delle emozioni corrisponde «un’emotività molto più incontrollata e uno spazio di riflessione molto più modesto». E questo, invece di potenziare la ricchezza dei sentimenti del soggetto, ha spesso l’effetto paradossale di indebolirli e anestetizzarli:

«L’eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento riflessivo» producono infatti, secondo l’autore, «1) lo stordimento dell’apparato emotivo attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per assopire le emozioni attraverso i percorsi dell’ignavia e della non partecipazione (…); 3) il gesto violento, quando non omicida, per scaricare le emozioni e per ottenere un’overdose che superi il livello di assuefazione come nella droga» [1].

Si può cercare di andare più a fondo. Una sollecitazione unilaterale della sfera pulsionale degli individui uccide lo stesso desiderio. Come osserva Massimo Recalcati, utilizzando il linguaggio freudiano, «è necessaria una perdita originaria, una differenziazione, un limite, una lontananza dalla Cosa materna perché vi sia desiderio». Ora, la cultura del consumismo «rigetta il limite, la mancanza, il desiderio (…). Il godimento deborda senza argine, senza freni (…), sospinge verso la consumazione dissipativa della vita». In questo modo si favorisce una «pulsione che conduce la vita verso un godimento tanto illimitato quanto distruttivo», che perciò diventa «pulsione di morte» [2].

44rs_0Del resto, la caduta della tensione delle passioni nella nostra società è sotto i nostri occhi. Nel 44° Rapporto Censis, del 2010, troviamo, da questo punto di vista, una diagnosi spietata della situazione, che si adatta perfettamente anche alla situazione attuale: «Sembra avvenire ogni giorno di più che il desiderio diventi esangue, senza forza, indebolito da una realtà socioeconomica che da un lato ha appagato la maggior parte delle psicologie individuali attraverso una lunga cavalcata di soddisfazione dei desideri  (…) e che dall’altro è basata sul primato dell’offerta che garantisce il godimento di oggetti e di relazioni mai desiderati, o almeno non abbastanza desiderati» (n.13).

Siamo davanti al paradosso di una cultura che ha posto in primo piano la liberazione del desiderio, anzi dei desideri, e che alla fine si ritrova a constatare il fallimento proprio della capacità di desiderare [3]. 

Libertà e autorealizzazione

Non meno problematico è il processo che ha portato i giovani a vivere in pienezza la loro libertà, sbarazzandosi del soffocante bagaglio di ideologie e pseudo-valori, ereditati dalla famiglia, dalla società, dalla Chiesa, che un tempo condizionavano la loro vita, imponendole una cornice precostituita e indiscutibile.

Anche a prescindere dal margine di retorica e di ipocrisia che spesso rendeva la loro osservanza più una formalità esteriore che il frutto di una reale adesione interiore, questo quadro valoriale condizionava pesantemente le scelte dei singoli che, in nome della patria, del rispetto per l’autorità, della morale dominante, dovevano sacrificare le loro più profonde inclinazioni. Ma anche in questo caso si assiste ad esiti contraddittori. A una enfasi della modernità sul tema della vocazione della missione, a cui veniva subordinata e spesso sacrificata la ricerca della felicità personale, è subentrato un vuoto di prospettive valoriali in grado di orientare e dare significato all’esistenza delle persone.

71lngj-vhwl-_ac_uf10001000_ql80_Nella morte delle ideologie, nella crisi delle fedi religiose, nel declino degli assoluti morali, l’autorealizzazione – prima misconosciuta – è diventata l’unico obiettivo veramente indiscutibile in base a cui fare le proprie scelte. Ma la realizzazione di se stessi dovrebbe essere la conseguenza, non il fine di queste scelte. Anche perché queste hanno, di per sé, una portata che non si lascia chiudere all’interno di una logica autoreferenziale. Al giovane che vuole fare il medico per realizzarsi si potrebbe legittimamente chiedere se davvero la medicina è nata perché i medici si realizzino o non, piuttosto, per curare i malati. E un professore che mirasse solo a realizzarsi facendo lezioni splendide che i suoi studenti faticano a capire avrebbe fallito anche l’obiettivo di realizzarsi veramente.

È ancora Galimberti a notare che «quando ci si autodetermina nell’assenza di qualsiasi orizzonte di senso che non sia l’orizzonte dell’Io, parole come “autodeterminazione”, “autenticità”, “individuazione”, “essere se stessi”, stanno semplicemente a significare che l’unico spazio disponibile all’esercizio della libertà è quello concesso dalla cultura del narcisismo» [4].

E continua spiegando perché ciò implichi, paradossalmente, la morte dell’individuo e della sua libertà:

«La cultura del narcisismo (…) si compone con la cultura del relativismo, per cui ciascuno, chiamato alla propria autorealizzazione, deve decidere da sé in che cosa questa consista, senza che nessuno debba o possa interferire in questa autodeterminazione (…). La cultura del relativismo indossa i nobili paludamenti della tolleranza (…). Ma sbarrare la porta alle richieste provenienti dall’esterno dell’Io, accantonare la storia, la natura, la società e ogni altro riferimento che non sia ciò che l’Io trova in se stesso, significa sopprimere le condizioni per cui qualcosa è più o meno rilevante e, nell’impossibilità di questa valutazione, sopprimere anche le condizioni per l’esercizio della propria libertà» [5].

Nella società dove finalmente trionfa la libertà, «ciò che passa è in realtà la cultura dell’irrilevanza della scelta» [6].

La disgregazione del soggetto

L’età moderna aveva avuto come protagonista assoluto il Soggetto: dal cogito cartesiano all’Io penso kantiano, all’Io assoluto dell’idealismo, la filosofia ne aveva celebrato il primato. Poi è venuto Nietzsche che, alle origini della post-modernità, ha definito l’io «una favola, una finzione, un gioco di parole» [7],  dietro cui si nasconde un flusso caotico di cieche pulsioni e di percezioni frammentarie.

Un messaggio che ha trovato peraltro riscontro negli studi, di poco posteriori, di Sigmund Freud sulla psiche umana. Là dove l’età moderna vedeva, come caratteri peculiari del soggetto, l’autocoscienza e la libertà, il medico austriaco smascherava l’oscura presenza di un inconscio, a cui non si addice il nome di “Ich” (“Io”), bensì quello di “Es” (“Esso”), terza persona neutra, perché del tutto inconsapevole e soggetto a meccanismi incontrollabili. La coscienza, tanto esaltata fino ad allora dai filosofi e dai letterati, altro non è, per Freud, che una sottile crosta superficiale, impegnata a reprimere e ricacciare nel buio i mostri emergenti dall’inconscio, sotto il controllo spietato di un tirannico Super-Io, a sua volta frutto di processi inesorabili.

71hiv-gn11l-_ac_uf10001000_ql80_L’antica immagine monolitica e auto-trasparente del soggetto si disgregava, lasciando il posto a una più realistica visione della complessità del soggetto, che include, tra le sue ricchezze, anche la sua fragilità. Ma questo ha anche aperto la strada a una esperienza del soggetto che implica aspetti fortemente problematici, perché lo priva di un centro interiore.

La differenza tra il modello antropologico moderno e quello post-moderno può essere rappresentata dal confronto fra un ritratto di Piero della Francesca o di Tiziano e un dipinto di Picasso. Nel primo il volto umano si trova rappresentato secondo una prospettiva armoniosa, unificante. Nel quadro di Picasso, invece, a prima vista è difficile capire di cosa si tratti. Poi, guardando bene, si scopre che gli elementi del viso – occhi, naso, bocca – ci sono tutti. Ma è come se ognuno fosse riprodotto all’interno di una prospettiva diversa e contraddittoria rispetto agli altri.  Il soggetto che si manifesta in quel volto appare disgregato, irriconoscibile agli altri e forse anche a se stesso.

L’io a questo punto diventa, come dice Dennett, una società per azioni a maggioranza variabile, il risultato di spinte contrastanti, destinate a prevalere l’una sull’altra a seconda delle circostanze, determinando scelte prive di qualsiasi coerenza. Così, la valorizzazione della ricchezza della personalità assume oggi la forma di una disgregazione che le rende impossibile, in molti casi, avere quel minimo di unità che potrebbe consentirle di sapere chi veramente è e che cosa vuole dalla vita. In realtà il problema riguarda già gli adulti. Anche se, ovviamente nei giovani – impegnati in un delicato processo di costruzione dell’identità – si fa ancora più acuto, anche per la mancanza di punti di riferimento convincenti.

9788807904011_0_424_0_75Il rapporto problematico con la comunità e con la realtà

Quando si parla di “morte delle ideologie” si rischia di nascondere il fatto che una di esse è sopravvissuta, vittoriosa su tutte le altre, e così potente da far dimenticare la sua natura ideologica. Mi riferisco a quello che uno studioso del liberalismo classico ha definito “individualismo possessivo” e la cui essenza sta nel considerare come già compiuto e autosufficiente l’individuo, liquidando sia la tradizione aristotelica, secondo cui l’essere umano è un “animale sociale”, sia quella cristiana, che evocava il vincolo di una fraternità originaria tra tutti gli esseri umani.

Nel mondo moderno dei tre termini presenti nello slogan della Rivoluzione francese – libertè, egalité, fraternité – solo i primi due hanno avuto fortuna, mentre il terzo è stato di fatto misconosciuto o apertamente contraddetto dall’enfasi unilaterale sui diritti e sul misconoscimento del senso di responsabilità reciproca.  È a questa enfasi che si ispira tuttora l’economia capitalista. Nella post-modernità si è sempre più affermata una variante dell’individualismo che lo modifica profondamente e che è il singolarismo. Davanti alla minaccia della massificazione, di cui l’individualismo è solo l’altra faccia – perché elimina le relazioni che caratterizzano la singolarità delle persone –, si è sentito il bisogno di tenere maggiormente in conto la concreta realtà delle persone.

Giù nell’ambito dei diritti, si è passati dalla tutela di quelli «dell’uomo», considerato astrattamente, a quelli «dell’anziano», «del malato», dei bambini», etc. La dimensione storica e comunitaria è entrata così a far parte della considerazione dei soggetti. Su questa strada si è proceduto fino a sostituire l’anonima e omogenea figura dell’individuo con quella, infinitamente variegata, delle persone in carne ed ossa. E quando oggi si parla del trionfo del single, è a questa variante singolarista che si fa riferimento [8]. Ormai l’economia – si vedano i messaggi della pubblicità –, la scuola, la sanità, prendono molto sul serio l’unicità di ogni persona, la valorizzano, si appellano ad essa.

La differenza è sostanziale. Mentre ciò che costituisce l’individuo, negativamente, è il suo essere un atomo irrelato agli altri atomi, perché definito solo dal possesso di se stesso, della sua attività e delle sue cose, ciò che caratterizza il singolo è, in positivo, la sua autenticità, l’essere quello che sente di essere e il poter vivere su questa base. Il guadagno è di una maggiore valorizzazione del carattere personale, unico e irripetibile.  Anche se la massificazione rimane, sia pure più subdolamente, dietro l’angolo. La pubblicità personalizzata non è meno rivolta a far acquistare a tutti lo stesso telefonino.

Resta una profonda continuità con l’individualismo. Solo che, mentre quest’ultimo ignora il ruolo degli altri, il singolarismo lo ritiene essenziale, ma in funzione autoreferenziale. Al singolarista non basta essere autonomo dalla comunità, vuole essere riconosciuto da essa nella sua identità. Questo lo rende più battagliero nella sua rivendicazione dei propri diritti, perché non vuole solo poter fare senza impedimenti le sue scelte, esige che la società esprima un pubblico apprezzamento di esse e le consacri nella sua legislazione. In entrambi i casi i legami, però, sono negati. Dall’individualista perché per lui sono dei potenziali ostacoli alla sua libertà, dal singolarista perché per lui sono importanti, ma in funzione della sua persona.

In questa logica anche la politica è sempre più vista come finalizzata a conciliare le diverse preferenze soggettive dei singoli, date già per valide, senza ulteriore confronto pubblico che valuti la loro corrispondenza alle esigenze del bene comune. Tutto questo implica un diverso rapporto con la realtà. L’individualismo non è di per sé soggettivista. Per esso il mondo c’è, anche se è solo il campo di battaglia in cui ognuno deve farsi valere nella competizione con gli altri. Per il singolarismo la realtà è come io la sento e la vivo. Essa in sé non conta, al limite non esiste. In questo quadro la prossimità, negata dall’individualismo, lo è ancora più profondamente dal singolarismo. In questo, infatti, viene meno anche lo spazio comune entro cui ci si potrebbe approssimare. Ognuno ha diritto di vivere nel suo e di esserne riconosciuto il centro.

Anche se in realtà l’individuo non esiste, come non esiste il singolo (o l’homo oeconomicus) Esistono persone individuali e singole. L’aggettivo non si può trasformare impunemente in sostantivo senza misconoscere tutta una serie di altri aspetti – primi fra tutti quelli relazionali – essenziali per la sua definizione quanto la individualità e la singolarità.

Questo è vero già per la nascita delle persone. L’essere umano, a differenza degli altri animali, non nasce compiuto e ha bisogno di moltissimi anni per crescere e diventare se stesso.  E non è vero che ci si fa da sé. L’esperienza dei cosiddetti “baby-lupo” ci insegna che, senza relazioni con altri esseri umani, non saremmo neppure capaci di postura eretta e di linguaggio articolato. Per non parlare di tutto il resto che è decisivo per dare a ognuno il suo volto

41slbvvzoll-_ac_uf10001000_ql80_Il ruolo della tecnica e della comunicazione

Il quadro entro cui queste profonde trasformazioni antropologiche si verificano e determinano l’identità dei nostri giovani è il vertiginoso progresso della tecnica. Ormai «la domanda non è più: “Che cosa possiamo fare noi con la tecnica?”, ma: “Che cosa la tecnica può fare di noi?”» [9]. Ancora una volta, bisogna evitare una facile e superficiale demonizzazione. Sperimentiamo tutti gli enormi vantaggi che per la vita umana rappresentano le innovazioni tecnologiche, in tutti campi. Nessuno vorrebbe vivere in un mondo passato dove erano assenti.

Eppure bisogna fare i conti con i risvolti inquietanti di questi sviluppi materiali, che non sono solo una cornice esteriore della nostra vita, ma ne modificano profondamente gli stili e gli stessi contenuti. Basti considerare il ruolo che hanno i nuovi strumenti della comunicazione nel potenziare, e in una certa misura determinare, i caratteri problematici della identità dei nostri giovani, evidenziati più sopra.

La comunicazione orale e poi quella scritta, su cui per millenni la civiltà umana si è basata, fondandosi su suoni e su simboli che rimandano a referenti esistenti nella realtà, esige, da parte di chi le usa, lo sforzo intellettuale di decifrare il senso sia delle singole parole, sia del discorso nel suo insieme, per operare questo collegamento. Quella virtuale no. Già il messaggio sostituisce la realtà, perché ne simula perfettamente le forme visive e sonore, anzi, nelle realizzazioni tecniche più avanzate, anche quelle tattili.

Il risultato è una immediatezza che coinvolge la sfera emotiva senza dover passare attraverso la fatica della comprensione razionale e che favorisce una crescita incontrollata della sfera emozionale. Nell’era degli smartphone i giovani crescono incapaci di una riflessione che sappia affrontare la distanza tra segni e realtà, come è richiesto nella logica del discorso parlato o scritto, e restano prigionieri di un fuoco d’artificio di stimoli che li sollecitano nell’«attimo fuggente», dando loro l’illusoria percezione di una autenticità che in realtà è solo superficialità.

Si collega a questo anche l’apertura illimitata che questi mezzi di comunicazione consentono e che è però sproporzionata alle capacità di valutazione e di discernimento di una persona che sta crescendo. Un tempo i bambini sapevano meno cose dei ragazzi e i ragazzi meno degli adulti. Oggi, in una società che mette lo smartphone in mano perfino ai più piccoli, tutte le sollecitazioni, tutte le esperienze, tutte le idee, sono a portata di mano e la loro massa è tale da impedire in realtà di dare a qualcuna un ruolo privilegiato. Nel dilagare dell’informazione, alla fine, tutto si equivale. Come nei buffet di matrimonio troppo abbondanti, diventa impossibile scegliere.

E tutto questo contribuisce a quella disgregazione del soggetto nella varietà delle sue esperienze di cui si parlava prima. L’immediatezza e l’invasività emotiva degli stimoli, dei messaggi, delle proposte, il loro succedersi caotico, incentivano la difficoltà del soggetto a realizzare una unità interiore. Il termine logos, in greco, può significare il discorso razionale, ma anche l’unione di elementi diversi che, senza fondersi, si articolano tra di loro. Il pensare unifica. Quando il moltiplicarsi delle informazioni e delle esperienze lo rende problematico, il soggetto si disperde in questa molteplicità, vivendone i singoli momenti come dei flashes di cui è difficile ricostruire il filo conduttore. Si vive “alla giornata”.

Anche l’ampiezza della comunicazione, senza paragoni maggiore di quella del passato, non è esente da una radicale ambiguità. Perché è vero che oggi col cellulare si è raggiungibili da chiunque in qualunque momento, che su facebook si possono moltiplicare indefinitamente gli “amici”, ma ciò ha un prezzo in termini di personalizzazione e di profondità dei rapporti umani. Estensione e intensità sono, spesso, inversamente proporzionali. La disponibilità a chiunque voglia inserirsi – implicita nel tenere il cellulare acceso durante un colloquio – è fatale a quel clima di intimità tra gli interlocutori che può nascere solo dal loro essere totalmente dediti l’uno all’altro. Allo stesso modo avere mille “amici” su facebook rende problematico esserlo davvero, fino in fondo, di qualcuno.

È la natura stessa del mezzo tecnico, del resto, che, mentre avvicina, al tempo stesso allontana. Il termine “schermo” in italiano indica sia una superficie su cui si delineano delle immagini, sia una barriera di difesa, che protegge dall’invasività di ciò che sta oltre. Stando davanti a quello del computer o dello smartphone abbiamo, secondo il primo significato, la possibilità di un accesso alla realtà immensamente più ampio di quella che la nostra condizione umana originaria consentirebbe, ma al tempo stesso (ed è il secondo significato) siamo difesi da questa realtà, dalle sue tragedie, dalla sua violenza. Lo schermo ci apre a tutto, ma – e forse è un bene, perché altrimenti rischieremmo di impazzire – ci rende spettatori, anestetizza la nostra sensibilità.

Anche il rapporto con la realtà creatosi con l’avvento del virtuale cambia radicalmente. Gli altri strumenti di comunicazione – soprattutto la scrittura – mantengono una evidente distanza da ciò che servono a comunicare. Nessuno può scambiare la descrizione scritta di un paesaggio con il paesaggio descritto, perché le parole sulla pagina, attraverso il loro significato concettuale, sono in grado di suggerire alla nostra fantasia ciò che vogliono esprimere, non di sostituirlo.

Una rappresentazione virtuale, invece, tende a identificarsi con ciò che comunica e nasconde la sua diversità da esso, favorendo l’illusione. Emblematico il diffondersi del giornalismo-spettacolo. In passato i due termini esprimevano esigenze molto diverse e inconciliabili: il giornalismo doveva essere fedele alla realtà, lo spettacolo era costruito dalla fantasia per comunicare immagini illusorie. Se oggi essi sono spesso uniti è perché, con l’avvento del virtuale, è possibile che la costruzione artificiale rappresenti la realtà naturale meglio di quanto non sia in grado di fare lo sguardo umano e possa, perciò, aspirare anch’essa al titolo di “realtà”, pur non avendo una effettiva esistenza in natura.

È in questo contesto che si è affermata l’idea di una “post-verità” che non è “vera”, nel senso tradizionale di “corrispondente alla realtà dei fatti”, ma neppure “falsa”, perché è essa stessa, in qualche modo una “realtà”, anche se solo “virtuale”, anzi è l’unica che si impone immediatamente, esonerando dalla fatica della ricerca. 

71qsw423chl-_ac_uf10001000_ql80_Che fare?

La nostra è la diagnosi di una crisi. Non è possibile in questa sede tentare di delineare una pars costruens di ampiezza corrispondente. Ma è giusto almeno indicare qualche pista. Una, in particolare, sembra costituire la sola vera alternativa a ciò che sta accadendo: l’educazione critica delle nuove generazioni.

Le agenzie educative tradizionali – la famiglia, la scuola, la Chiesa – sono state spiazzate dal dilagare incontrollabile dei nuovi mezzi di comunicazione, che ne sono diventati i veri “maestri”.  Però una loro “alleanza educativa” potrebbe metterle in condizione di operare concordemente per valorizzare l’apporto questi strumenti – di per sé preziosi – in un senso diverso da quello che purtroppo attualmente è predominante.

Per questo è necessario integrare l’uso con quello dei modi di comunicare tradizionali: il dialogo e la lettura. Attraverso di essi si può recuperare quella circolarità tra ragione ed emozioni che è necessaria per il nascere di autentici sentimenti e far maturare il desiderio.  «Ciò significa che la nostra emotività può essere educata e, se vogliamo una società migliore, deve essere educata» [10]. Così come, riattivando i canali del rapporto faccia a faccia e della calma lettura, si può sperare di aprire orizzonti di senso che restituiscano alla libertà la sua più profonda funzione.  E, in questo modo, di consentire al soggetto di ricostituire una sua unità profonda, pur nella molteplicità delle esperienze che vive, attraverso momenti di “raccoglimento” – nel senso letterale del termine – in cui ritrovare se stesso.

Si potrà così riaprire la via di rapporti meno autoreferenziali con gli altri e con la realtà. Il dialogo e la lettura possono essere le vie attraverso cui lo stesso virtuale, invece di sostituire la realtà, ne amplia gli orizzonti.

Certo, tutto questo richiede una ricoperta del significato dell’educazione e il ritorno dei “maestri” in una società dove essi sono stati ormai sostituiti dagli influencer [11]. È una sfida. Ma dovrebbe incoraggiarci a raccogliere la consapevolezza che da essa – molto più che da qualunque altro fattore –  dipende ciò che saranno gli esseri umani del futuro. 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Note
[1] U. Galimberti L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007: 41-42.
[2] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2011: 47 e 55.
[3] Un ampio sviluppo del tema delle passioni e del loro ruolo nella vita morale si trova nel mio Educare oggi alle virtù, Elledici, Torino (Leumann) 2011 (prima ristampa 2012).
[4] U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2000: 587. 
[5] Ivi:.588.
[6] Ivi: 590.
[7] F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. it. F. Masini, a cura di G. Colli e M. Montinari, Mondadori, Milano 1975: 72.
[8] Cfr. D. Martuccelli, La société singulariste, Armand Colin, Paris 2010.
[9] U. Galimberti, Psiche e techne, cit.:715.
[10] U. Galimberti, L’ospite inquietante, cit.:.44.
[11] Sul ruolo decisivo dell’educatore e sulle condizioni per la sua rivalutazione cfr. G. Savagnone – A. Briguglia, Il coraggio di educare. Costruire il dialogo educativo con le nuove generazioni, Elledici, Torino (Leumann) 2009 (terza ristampa 2010). 
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Giuseppe Savagnone dal 1990 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale della cultura di Palermo, di cui oggi cura il sito «www.tuttavia.eu, pubblicandovi settimanalmente un editoriale nella rubrica “Chiaroscuri”.  Scrive per quotidiani e periodici e collabora con «Tv2000», «Radio in Blu», «Radio Vaticana» e «Radiospazionoi». Nel 2010 ha ricevuto il premio «Rocco Chinnici» per l’impegno nella lotta contro la mafia. Tra le sue pubblicazioni, Quel che resta dell’uomo. È davvero possibile un nuovo umanesimo?, Cittadella Editrice, Assisi 2015; Il gender spiegato a un marziano, Edizioni Dehoniane,  Bologna 2016; Cercatori di senso. I giovani e la fede in un percorso di libertà, Edizioni Dehoniane, Bologna 2018, Il miracolo e il disincanto. La provvidenza alla prova, Edizioni Dehoniane, Bologna 2021.

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