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Absolutely Nothing : spazi e immaginari nel tempo della permanenza

copertina2di  Clarissa Arvizzigno

Percorrere il deserto, attraversare il deserto, annotare sotto forma di reportage il trascorrere del suo tempo per poi fagocitarlo, ed essere al tempo stesso divorati da tutto ciò che lo contiene e che lo abita. Poi far sì che esso discorra dentro di noi e con noi: tutto ciò è ed avviene in Absolutely Nothing, storie e sparizioni nei deserti americani, ultima pubblicazione dello scrittore palermitano Giorgio Vasta, uscita nel 2016 per le edizioni Quodlibet Humboldt.

È alquanto complesso definire cosa sia l’opera di Vasta: scorrendo le prime pagine sembra di essere di fronte ad una narrazione diaristica. L’intento iniziale era, appunto, quello di raccontare sotto forma di reportage il suo viaggio per i deserti americani attraversando California, Arizona, Nevada, New Messico, Texas e Louisiana in compagnia del fotografo di origini iraniane Ramak Fazel e di Giovanna Silva, direttrice della casa editrice Humboldt e organizzatrice del viaggio. Entrambi gli accompagnatori fotografano. Tuttavia, gli obiettivi delle loro macchine colgono particolari abbastanza dissimili e diversi tra loro. Silva fotografa “il tempo della percorrenza”: la loro roulotte, le macerie del deserto, ogni minimo spostamento e le tracce che questo lascia. È una fotografa dei luoghi e di ciò che avviene nei luoghi o di ciò che rimane dei luoghi e sui luoghi; la sua la si potrebbe pensare come una fotografia sulle narrazioni degli spostamenti, delle tappe; un lavoro è essenzialmente di natura documentaria. La coprotagonista si configura, per certi versi, come la memoria enciclopedica del viaggio: descrive, definisce tutto, ancor prima di averlo visto. Silva è , in un certo qual modo, colei che pre-vede e le sue fotografie in bianco e nero – intervalli di riflessione nel testo – rendono questo stesso “immagine”.

-Foto-di-Silva

Foto di Silva

Specularmente opposta è invece la fotografia di Ramak: essa compare in appendice al libro, come se, pur essendo parte dell’opera, se ne distacchi prendendo forma quando tutto è già stato raccontato, quando tutto è già accaduto. Per di più i suoi scatti si configurano come parte autonoma rispetto al testo, sono immagini, per lo più di particolari che obbediscono a una loro logica. Ramak non vuole descrivere né definire, le sue foto si potrebbero pensare come delle narrazioni parallele che si muovono all’interno di circuiti di senso propri. Disposte a coppie di tre per pagina, le immagini apparentemente non correlate tra di loro, non fanno invece altro che richiamarsi vicendevolmente attraverso dei dettagli.

In queste sequenze fotografiche troviamo pieni che si alternano a vuoti, oggetti che ritornano o che sono conseguenza ultima dell’azione in sospeso della prima fotografia. Immagini che raccontano, attraverso un colore vivido e sempre presente, il particolare di una maceria, la permanenza di un oggetto nel tempo e la sua trasformazione. Nelle fotografie sopra riportate, abbiamo un’azione in potenza: non un uomo, ma un braccio teso che impugna un arco in procinto di scoccare una freccia. Ma dove è finita?

foto-di-Ramak-Fazel

foto di Ramak Fazel

Le foto che seguono sembrano non avere alcun legame con la prima. Osserviamo l’ultima foto della sequenza: la freccia è conficcata in una scultura di cavallo acefala e usurata dal tempo. Ramak ha colto il prima e il dopo dell’azione e ha lasciato una certa suspense sul suo compiersi inserendo due immagini che distraggono momentaneamente la nostra attenzione. Ramak Fazel ci viene presentato come lo sconfinatore, colui che vuole stare dappertutto, che fa accadere ciò che lo scrittore immagina. Ramak è colui che non riconosce alcun valore alla frontiera, nemmeno quella che gli si presenta al confine tra Texas e Messico. Il fatto che egli non accetti limiti, fa sì che lo spazio gli si distenda davanti nel suo orizzonte ininterrotto:

« Certo, interviene lui, ma io non avevo capito che – Cosa, Ramak, cosa? Che adesso siamo in Messico? – Che quella, dice indicando la galleria bianca alle nostre spalle, fosse la frontiera. Mi sembrava una stazione di servizio, pensavo che ci saremmo – Hai detto passiamo […]  Non l’ ho fatto apposta; volevo solo avvicinarmi, rallentare e riflettere, ragionare frenando, senza superare nessun limite».

Altra indicazione: Absolutely Nothing non è solo un diario, è anche un fototesto. Ora spostiamoci dove tutto comincia il 30 settembre 2013:

«La notte prima di partire per Milano sogno di venire derubato, voglio denunciare il furto ma  non  ho idea di che cosa mi sia stato rubato, so che mi manca qualcosa, non sono in grado di dire cosa,  la denuncia è impossibile […] Lungo tutto il viaggio in treno cerco di ricordare, non ricordo, insisto, non ricordo. Arrivo a Milano Centrale in preda a un prurito del pensiero, la percezione del minuscolo spazio vuoto dentro il cranio che non riesco a colmare. Nel tardo pomeriggio incontro Silva, fotografa ed editore; è lei che si farà carico del nostro viaggio negli Stani Uniti».

Il libro inizia così: nella mente di Vasta l’immagine di un furto senza oggetto e un viaggio che sta per cominciare, forse proprio alla ricerca di quell’oggetto non identificabile. Inizia il viaggio, inizia il reportage: prima tappa è Los Angeles, città rizomatica ed orizzontale:

«Attraversandone le strade a piedi o in macchina, Los Angeles si distende nella sua composizione orizzontale consentendo uno sguardo insieme terrestre e celeste […] Los Angeles è planimetria di se stessa. Inoltre qui siamo lontani dal principio urbanistico europeo al quale sono così abituato da considerarlo inevitabile. Il principio per cui lo spazio si organizza concentricamente a partire da un nucleo. L’ esistenza di un centro- la possibilità di abitarlo prima ancora di pensarlo- è per me un presupposto non solo topografico ma, direi, logico: senza centro il disorientamento è prima di tutto culturale. E Los Angeles è una città senza centro […] E nonostante questo Los Angeles non è una città dissennata. Al contrario: l’assenza di un centro assoluto sembra essere liberatoria perché consente di leggere come centro momentaneo il pezzetto di spazio specifico in cui si trova».

Los Angeles spiazza, è una città da leggere, pezzetto per pezzetto, qua si perdono le coordinate spaziali e chi la percorre si riempie di spazio in quei marciapiedi larghi che gli danno il senso della pienezza…Accade, tuttavia, che durante il viaggio questa orizzontalità lasci il posto alla verticalità: Salton Sea, California meridionale, un lago a sud del Joschua Tree National Park:

«Ancora qualche secondo e ho visto la jeep procedere verso di me, ho sollevato il braccio e  ho  fatto segno di no. Ramak mi ha risposto con un cenno di saluto e un istante dopo la jeep ha smesso di scorrere orizzontale, gli pneumatici sono affondati per tre quarti nella mota e lentamente, tragicomicamente, io e Silva che fissiamo Ramak che a sua volta ci fissa immobile nell’abitacolo,  ci siamo inabissati nella preistoria».

Siamo di fronte alla prima sfasatura temporale: si scende nel tempo e Vasta intravede l’impronta di un pesce, traccia di ciò che non è più presente, ma che è stato e che allo stesso tempo si rivela persistenza di un tempo in un solco. Falsa indicazione: l’impronta – precisa Silva – in realtà non è, esiste, al contrario essa è solo un’ombra. «Sembra un fossile ma nemmeno, è qualcosa che del fossile svolge la funzione», dice Silva. Siamo di fronte ad un’illusione ottica: dove c’era un vuoto, là Vasta ha cercato di colmare l’assenza, quel sentimento della perdita che lo ha accompagnato fin dall’inizio del viaggio.

L’impronta vuota, nella mente dello scrittore, è il segno di un mondo che non è interamente sincronizzato con il presente, la  prova del fatto che vi sono luoghi esterni ed interni dove il tempo trascorre in altro modo o non trascorre: resta là, fermo, in un’impronta che permane. «Respiriamo piano, recuperiamo le forze, magliette e pantaloni imbrattati, la sabbia che si è asciugata sul sudore, le calcinazioni della pelle: ci guardiamo: siamo fossili». Il tempo del deserto ha metamorfizzato anche gli uomini che lo attraversano. Ad un certo punto accade che accanto alla narrazione diaristica compaiono delle metanarrazioni parallele: sono metariflessioni che lo scrittore fa in un altro tempo, non quello del viaggio, piuttosto quello del qui e ora di chi scrive:

«Da quando ho cominciato a lavorare su questo libro immagino una manciata di sferette  bianche che rovesciate da un contenitore si allontanano rimbalzando in ogni direzione.[…] Il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si mescola all’oblio, la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno relativi e davanti agli occhi e alle orecchie c’è solo il picchiettìo sottile delle palline sul pavimento, la vitalità selvatica di ciò che si sparpaglia».

Si rompe il tempo lineare, il tempo del reportage. Da ora in avanti la narrazione del diario di viaggio non sarà più sequenziale, si entrerà in un’altra prospettiva del tutto interiorizzata dove le persone si faranno personaggi, dove prenderanno vita nuovi personaggi e nuovi spazi. I giorni scorreranno ora in avanti, ora indietro, ora resteranno sospesi nelle sferette bianche che rimbalzeranno in ogni direzione… risultato: si creerà un diario scompaginato.

3Disorientato, alla ricerca di indicazioni, Vasta osserva le mappe cartacee di California, Arizona, New Messico e Texas, i paesaggi fotografati nelle riviste di viaggi: ad un certo punto gli si presenta dinanzi un cartello giallo a forma di rombo sopra il quale sta scritto, a grandi caratteri neri “ABSOLUTELY NOTHING ”.

«Ad affascinarmi, prima di tutto, è la perentorietà dell’avverbio, piglio radicale di un termine che da solo vuole polverizzare ogni dubbio nonché l’eventuale residua speranza che qualcosa,  lungo  quelle ventidue miglia, sia ancora percepibile. E poi c’è nothing – elementare, disadorno –, un enigma epistemologico che mi spinge a domandarmi cosa comprenda e dunque a cosa si opponga. Accostato ad absolutely, quel nothing sembra non abbia proprio nulla da spiegare o da giustificare».

Siamo nel tempo del deserto, dove il nulla paradossalmente si fa un tutto pieno che avvolge ogni cosa, comprese le rovine che si riempiono di deserto, che sono appunto deserte, abbandonate. Vasta è sempre alla ricerca di una mancanza, e la cerca nei casinò abbandonati di Las Vegas, nelle ghost towns sparse in questo spazio smisuratamente orizzontale, che non ha nulla a che vedere con la vertigine dei grattacieli di New York, ma che appare sempre uguale a se stesso, permanente. Allo stesso tempo, accanto alle rovine dei deserti americani, scorre parallelo nella mente dello scrittore il ricordo delle macerie palermitane della seconda guerra mondiale. Le rovine lasciate là, secondo Vasta, non hanno soltanto lo scopo di ricordare i bombardamenti, ma di  riflettere su tutto ciò che non è accaduto, di ragionare su un flusso di tempo che si è interrotto e che gli uomini non hanno rimesso in moto lasciando le macerie immobili lì: in un tempo anch’esso immobile.

Vasta sente  tuttavia il bisogno di trovare presenze, segni  umani tra la stasi delle rovine. Ciò accade quando visita le ex-miniere americane: avverte allora le tracce di un’umanità da lì passata e ormai trascorsa. Siamo a Shafter, California, qua si scende nel sotterraneo, qui si accede all’umano: Vasta riflette su quando gli uomini lavoravano sottoterra, allora là alla logica dell’ “io” si sostituiva quella del “noi” , della comunità. Ed è proprio nel buio della miniera che si uniformavano le differenze, tanto da avvertire un bisogno assoluto di un sottosuolo comune come risoluzione dei conflitti di superficie. Silva, dal canto suo, sottolinea come il deserto sia specularmente opposto alla civiltà e di come loro, pur muovendosi nel deserto, siano sempre all’ interno dell’abitabile, della comunità umana. Oltre tale spazio c’è appunto l’absolutely nothing, il nulla che è allo stesso tempo l’indicibile. Ora il rapporto tra realtà e linguaggio entra in crisi, forse proprio perché là dove non esiste più civiltà umana, in un luogo del nulla e della maceria, nessuno ha da definire niente:

«Del resto individuare parole per dire un posto come Daggett non è semplice, le sfumature sono minime ma fondamentali. Per esempio, se anche mi piacerebbe descriverlo come smantellato, so  di non poterlo fare. Perché smantellato presume un ordine logico, una procedura che qui è mancata; sfasciato oppure scassato sarebbero più adatti proprio perché più grossolani, così come il palermitano scafazzato, che vuol dire schiacciato, ma in una forma triviale […] Il disabitato, mi dico, è un punto limite. Ciò oltre cui la percezione non può spingersi; perché oltre – penso avvicinandomi a Silva e Ramak fermi dietro la rete metallica – c’è l’indicibile».

Proprio all’interno dello spazio dell’indicile, trova espressione in Vasta la dimensione dell’immaginabile. Gli si apre di fronte una prospettiva “altra”: il timore ed insieme il desiderio di incontrare nel deserto una famiglia antropofaga che lo divori. In tal senso, nel vuoto del deserto, c’è  sempre la speranza di una presenza umana, anche se questa  rappresenta un’alterità rispetto alla norma. In quest’ottica la famiglia antropofaga è vista come emblema del viaggio che divora:

«si viaggia per aumentare, per incrementare: per arricchirsi, come si dice. Si vuole portare dentro di sé, inglobare, o meglio ancora incorporare […] dissolversi, diventare oggetto, cibo, nutrimento. Passare da consumatori a consumati. Essere divorati dal viaggio».

Nell’immaginario di Vasta, tale famiglia esiste, anzi deve esistere affinché dia senso al suo viaggio, affinché lo riempia. Nel libro, oltre alle digressioni narrative, postume all’esperienza del viaggio, figurano delle vignette di fumetti contenenti Spike, fratello di Snoopy che ha scelto di vivere nel deserto, di sposare il deserto. Le immagini del malinconico personaggio sono disseminate per il testo e, inizialmente, sembrano non avere una relazione specifica con esso, se non quella di fare da supporto figurativo  alla narrazione. Comunque Spike resta una vignetta, una frase, una figura fino a quando il viaggio, verso la metà del libro, finisce:

« Così scrivevo, è finito il viaggio. Ma non finisce il suo racconto. Considerando che, per dirla con Macbeth e con Ramak, nothing is but what is not, c’è ancora altro da far accadere, ancora altra esistenza da dare a ciò che non è mai accaduto».

Si apre un’altra dimensione del tempo quando Vasta sembra intravedere un sacchetto di plastica bianco muoversi per il deserto: in realtà si tratta di Spike, che ora divenuto personaggio reale nel testo, inizia a dialogare con lo scrittore-personaggio. «Non mi sono offeso, dice. Con il sacchetto ho qualcosa in comune […] Il sacchetto non è biodegradabile dice [..] Io non mi estinguo, conferma scuotendo il capo. Io resto»[12]. Ancora una volta, emerge l’idea del tempo della permanenza. Inoltre cosa fa Spike solo nel deserto? Vasta l’osserva mentre disegna sulla sabbia orologi dicendo

 «Io raccolgo raffiche di tempo […] Quello che soffia nel deserto. Scuote gli arbusti, invade i cespugli, rimescola la sabbia. Si sparpaglia dappertutto, quindi bisogna andare a raccoglierlo. Così non si perde […] Non lo uso, dice. Lo raccolgo e lui mi si ripiega dentro […] Deserto vuol dire non più legato, mi spiega. Vuol dire sciolto, separato […] Nel deserto è importante…, comincia lui…conoscere i nomi delle cose, finisco io. Devi conoscere le parole in cui ti trovi; soprattutto se  ti trovi nel deserto. Dove la lingua a volte tace dico».

4Spike che disegna sulla sabbia un orologio richiama l’idea di una “manipolazione”, “creazione” del tempo, in un luogo dove l’uniformità costante dello spazio scombussola, disorienta: tutto è annullato nella consunzione, in un immobile presente sempre uguale a se stesso, ancora una volta permanente. Bisogna, allora, formare, informare il tempo e conoscere le parole nello spazio dell’indicibile: è una vera e propria sfida al linguaggio quella di Spike. Il buffo personaggio incarna, in un certo modo, l’idea del tempo materiale (titolo del primo romanzo di Vasta): assorbe il tempo che gli si ripiega dentro, un po’ come farà l’autore alla fine del viaggio:

«Mentre Ramak cerca di individuare il varco giusto per accedere al parcheggio raccolgo una mandorla, la rondella annerita di una banana, la mezzaluna di un ananas, ma poi le lascio  ricadere sul tappetino, non ha senso rimuovere ciò che nei giorni si è accumulato perché questa frutta secca non è altro che tempo solido, secondi minuti ore condivise perdute radunate, e se è vero che  il  tempo passa, scorre e sorge, il nostro tempo vegetale è caduto depositandosi in una lunga lenta disordinata incastonatura di frutta nelle cose e nei vestiti […] e dunque infilo il chicco in bocca, percepisco il secco cupo della polvere, le miglia e i minuti, il tempo che ancora si incarna in parole, deglutisco e così è finito il viaggio».

Le piccole sferette bianche che rimbalzavano segnalando la rottura del tempo sequenziale, sono ora riapparse concretizzandosi nella frutta secca che Vasta ingoia rendendola tempo materiale. Si può dunque leggere Absolutely Nothing come un’opera sul tempo della permanenza, come abbiamo avuto più volte avuto modo di vedere in questa breve analisi. Inoltre, scavando ancora più in profondità, si può supporre che oltre ad essere un libro sul tempo della permanenza è ancor prima il desiderio di stare lì,  di esistere lì, di abitarlo.

Quando, ad un certo punto, nel deserto dell’Arizona emerge un antico ippodromo abbandonato, Trotter Park, Vasta ne è subito attratto. Pensa a quella costruzione messa in piedi negli anni ’60 e poi abbandonata, oggetto materiale che testimonia come gli americani avrebbero immaginato il futuro. Quello che lo scrittore definisce un grattacielo orizzontale, una specola dello sguardo da cui osservare il deserto è «una particolare percezione del futuro inseparabile da un sentimento archeologico». Passato e futuro sussistono insieme in quello che ormai resta di una rovina con le sue scale mobili  fermate dal tempo e nel tempo, il cui flusso si è interrotto per sempre in un attimo, in un eterno presente.

Foto di Ramak Fazel

Foto di Ramak Fazel

L’immagine delle scale mobili di Trotter Park fanno riemergere un ricordo in Vasta: le scale mobili della Standa di via Sciuti a Palermo a forma di infinito, che un Giorgio bambino osservava e percorreva in senso inverso rispetto al loro salire o scendere per fermare il tempo:

«Restare fermo nonostante il movimento mi rassicurava. Le scale mobili –  il mistero infero e magnetico del loro meccanismo – erano la raffigurazione fisica del tempo in cui volevo  stare […] . Le scale mobili del Trotter Park, penso, sono la raffigurazione fisica di un tempo che cinquant’anni fa si era immaginato che potesse scaturire veloce e fertile –trottante – e che invece nel giro di pochissimo tempo si è fermato ed è morto».

Le scale mobili erano il tempo in cui voleva stare, il tempo che fagocita alla fine del viaggio ingoiando il chicco di frutta secca, e che continua a cercare nel vuoto delle rovine degli aeroplani abbandonati nel deserto Mojave in California. Vasta entra dentro quelle rovine, le riempie di sé perdendo, a sua volta, la percezione di sé come se in uno spazio già abbastanza spaesante, quale quello del deserto, si entrasse in un metaspazio altrettanto dispersivo: ancora una volta, ciò da cui egli è attratto è la loro costruzione megalitica, la loro preistoria tecnologica, la persistenza dei materiali. Persistenza che si oppone dialetticamente sempre a quel senso di mancanza, al sogno del furto con cui era iniziato il viaggio. Ad un certo punto l’autore fa un tentativo di comprensione di cosa effettivamente gli sia stato rubato in sogno, e si rende conto che dietro l’absolutely nothing in realtà vi era l’absolutely nobody, il suo desiderio di sparire, di essere nessuno. E ancora, dietro a questo suo nessuno, la sua perduta metà, un’altra persona, il vero absolutely nobody che si scopre muovere tutto il libro: Lucia.

«Come chi, con il proprio piccolo immenso peso, fa inclinare il piano del testo rivelando che l’absolutely nothing è in realtà l’absolutely nobody, e che dunque il nulla radicale del titolo è un modo per dire, evitando di dirlo in modo esplicito, che l’oggetto di queste pagine è la sparizione di una persona – e che il sogno in questione del 30 settembre 2013 e il viaggio nei deserti americani nient’altro sono stati che il presentimento di quello che sarebbe accaduto nei due anni successivi.  A farmi sparire, tanto da non riuscire più a vedermi riflesso allo specchio, non è  l’alienazione  dei  miei cosiddetti beni materiali: non sono quelle cinque tonnellate ma quei quarantadue chili: è la progressiva separazione della sua vita dalla mia vita: è la sua scomparsa, e il continuare a sentire la sua mancanza. Se non mi vedo più nello specchio, è perché lì, nel riflesso, lei non c’è».

6La mancanza è ora spiegata: è Lucia che manca nello specchio insieme a lui, come sua parte ormai sparita, ma al tempo stesso  tanto presente da fungere da input a tutta la narrazione. Il viaggio, tuttavia, non è ancora terminato: «adesso si fermano, ci fissano laconici: ci hanno aspettato, sanno che li abbiamo aspettati. Fanno ancora un passo, si dirigono verso la nostra carne immatura».  Sparita Lucia, c’è ancora un tempo: quello dell’ incontro con l’alterità, la famiglia antropofaga che li aspetta ancora, ora per davvero.

Capitolo ventitré: non ci sono più parole, è prevalso l’indicibile. Non si sa che fine abbiano fatto i personaggi dell’immaginario di Vasta, compare solo un’immagine: ancora lui, Spike, nel deserto che ha sposato. Solleva le braccia, e tra le nuvole dei suoi pensieri emerge un ANOTHER DAY, un altro giorno sempre uguale a se stesso, là nel tempo della permanenza, nel suo amore che è mancanza, che è deserto.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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Clarissa Arvizzigno, si è laureata in Lettere  presso l’Università di Palermo. Studiando il ruolo della vista, intesa come strumento fondamentale per la conoscenza del reale, si è occupata di due grandi autori del Novecento: Italo Calvino e Valerio Magrelli, esaminandone analogie e differenze. È impegnata in ricerche su temi di letteratura comparata. Collabora con alcuni portali antimafia online: Liberainformazione, Antimafia2000, CorleoneDialogos.
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