di Marcello Vigli
Con la pubblicazione il 4 giugno della lettera apostolica Motu Proprio, Come una madre amorevole, Papa Francesco ha segnato un punto di non ritorno del suo pontificato. In essa non esita a definire motivo sufficiente per rimozione dei vescovi l’omissione di intervento nei confronti di sacerdoti colpevoli di abusi sessuali su minori. Infatti, mentre il Vescovo «può essere rimosso solamente se egli abbia oggettivamente mancato in maniera molto grave alla diligenza che gli è richiesta dal suo ufficio pastorale, anche senza grave colpa morale da parte sua. Nel caso si tratti di abusi su minori o su adulti vulnerabili è sufficiente che la mancanza di diligenza sia grave».
Ovviamente la competente Congregazione della Curia romana procederà solo in caso appaiano seri indizi per iniziare un’indagine in merito e al vescovo incriminato è concessa ampia facoltà di difendersi producendo documenti e testimonianze. Ma se riconosciuto colpevole sarà esortato «a presentare la sua rinuncia in un termine di 15 giorni. Se il Vescovo non dà la sua risposta nel termine previsto, la Congregazione potrà emettere il decreto di rimozione».
La tematica delle chiese locali come sede primaria della comunità ecclesiale riceve un brutto colpo! Il Papa dai “confini del mondo” così attento a riconoscere il loro valore, non esita a considerare indispensabile conservare la centralità della funzione disciplinare alla Santa Sede quasi ancor più che al tempo di Giovani Paolo II. In questa prospettiva bisogna leggere le difficoltà incontrate nell’opera di semplificazione, armonizzazione, decentralizzazione svolta dal C9, il Consiglio di nove porporati da lui istituito per riformare la Curia romana, che nella sua difficile azione procede per tappe. Nella sua 15esima sessione, svolta all’inizio di giugno, dopo aver fatto il bilancio del lavoro svolto in vista della ristrutturazione dei suoi diversi dicasteri, si è proceduto solo ad approvare la sperimentazione di uno Statuto del nuovo Dicastero per i Laici, la famiglia e la vita nel quale dovrebbero confluire gli attuali Pontifici Consigli per i laici e per la Famiglia. La soluzione proposta assume un particolare significato perché prevede che il prefetto del nuovo dicastero sarà coadiuvato da un segretario, che potrebbe essere laico, e da tre sotto-segretari laici, ma anche, e soprattutto, per il significato che il papa ha inteso dargli per il riconoscimento del valore dei laici con queste parole: «Alla Chiesa si entra per il Battesimo, non per l’ordinazione sacerdotale o episcopale: si entra per il Battesimo tutti siamo entrati attraverso la stessa porta (…). Abbiamo bisogno di laici che rischino, che si sporchino le mani, che non abbiano paura di sbagliare, che vadano avanti. Abbiamo bisogno di laici con visione del futuro, non chiusi nelle piccolezze della vita».
Meno impegnativa, pur se molto enfatizzata, la risposta di papa Francesco alla domanda, postagli in un recente incontro con le religiose dell’Unione delle Superiore maggiori, sulla possibilità di aprire il diaconato permanente alle donne consacrate, che già svolgono molto lavoro nelle chiese. Il papa è stato molto prudente. Dopo avere chiarito che, pur se non sono più richieste certe mansioni proprie delle donne nella Chiesa dei primi secoli, altre sono diventate oggi di grande importanza, rileva che non se ne può ricavare necessariamente l’attribuzione del diaconato. Al tempo stesso però riconosce che il problema esiste e che, perciò, «vorrei costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione: credo che farà bene alla Chiesa chiarire questo punto; sono d’accordo, e parlerò per fare una cosa di questo genere».
Queste parole del papa, spesso, sono state interpretate dai cattolici progressisti con entusiasmo, quasi si fosse alla vigilia dell’inizio del cammino per arrivare alla donna prete. In verità, questa innovazione, finché resta una rivendicazione dal basso esecrata dalla gerarchia, è una bandiera eversiva, ma se dovesse significare il moltiplicarsi dei membri del clero si tradurrebbe in strumento per rafforzare l’attuale struttura gerarchizzata dell’Istituzione ecclesiastica con tutte le sue contraddizioni.
Una di queste è emersa recentemente in occasione della sessione plenaria dell’Assemblea della Cei di quest’anno, che ha offerto l’occasione per riflettere sulla dissonanza dell’episcopato italiano dall’impegno di papa Francesco a rendere la Chiesa al passo dei tempi: non sono ancora sufficienti a ridisegnare la “mappa” della Chiesa italiana gli 85 nuovi vescovi da lui scelti in questi primi tre anni di pontificato, vescovi giovani, con un’età media intorno ai 50 anni, e in gran parte provenienti dalle “periferie”. Introducendone i lavori aveva cominciato col dire: «Questa sera non voglio offrirvi una riflessione sistematica sulla figura del sacerdote. Avviciniamoci, quasi in punta di piedi, a qualcuno dei tanti parroci che si spendono nelle nostre comunità; lasciamo che il volto di uno di loro passi davanti agli occhi del nostro cuore e chiediamoci con semplicità: che cosa ne rende saporita la vita? Per chi e per che cosa impegna il suo servizio? Qual è la ragione ultima del suo donarsi?» Nel rispondere a questi interrogativi dopo aver presentato l’immagine di quale è/dovrebbe essere il prete, che affronta oggi una società così diversa da quella per la quale è stato preparato, passa a designare la funzione dei vescovi. «Nella vostra riflessione sul rinnovamento del clero rientra anche il capitolo che riguarda la gestione delle strutture e dei beni: in una visione evangelica, evitate di appesantirvi in una pastorale di conservazione, che ostacola l’apertura alla perenne novità dello Spirito. Mantenete soltanto ciò che può servire per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio».
Non c’è traccia di una risposta a tale invito nella successiva relazione introduttiva alla stessa Assemblea del cardinale Bagnasco incentrata sulla nuova normativa concernente le Unioni civili che, a suo dire, «sancisce di fatto una equiparazione al matrimonio e alla famiglia e le differenze sono solo dei piccoli espedienti nominalisti, o degli artifici giuridici facilmente aggirabili, in attesa del colpo finale, così già si dice pubblicamente, compresa anche la pratica dell’utero in affitto, che sfrutta il corpo femminile profittando di condizioni di povertà».
Meglio dettare il loro mestiere ai politici che affrontare problemi di chiesa! A dire il vero anche il papa unisce all’attenzione al governo della chiesa ai diversi livelli, quella al mondo e ai suoi problemi intervenendo in politica, non però per sollecitarla a seguire gli insegnamenti della Chiesa, ma perché sia coerente con la sua funzione di perseguire il bene comune. Nella stessa all’Assemblea dei vescovi ha rilevato, infatti: «Sempre più poveri in Italia e una ricchezza sempre più concentrata nelle mani di pochi, spesso anche corrotti. (…) La povertà assoluta investe 1,5 milioni di famiglie, per un totale di 4 milioni di persone, il 6,8% della popolazione italiana! Mentre la platea dei poveri si allarga inglobando il ceto medio di ieri, la porzione della ricchezza cresce e si concentra sempre più nelle mani di pochi, purtroppo a volte anche attraverso la via della corruzione personale o di gruppo».
Intervenendo, poi ai primi di giugno, al convegno sulla criminalità organizzata e sulla tratta di esseri umani promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ha confermato quale tipo di intervento le compete: «La Chiesa è chiamata a compromettersi. Si dice che la Chiesa non debba mettersi nella politica, la chiesa deve mettersi nella politica alta». Ha citato anche Paolo VI per il quale «la politica è una delle più alte forme dell’amore, della carità», ed ha invocato l’impegno di tutti per «sradicare la tratta e il traffico delle persone e tutte le nuove forme di schiavitù come la prostituzione, la criminalità organizzata, il traffico di droga», ricordando che Benedetto XVI definiva questi crimini di lesa umanità che «debbono essere riconosciuti come tali da tutti i leader religiosi, politici, sociali». Se questo è il rigore da lui richiesto nei confronti della politica, per i singoli colpevoli chiede, invece, misericordia. Per loro, nel confermare il suo rifiuto della pena di morte e la sua contrarietà all’ergastolo, ha chiesto di «comminare pene che siano per la rieducazione dei responsabili e cercare il loro reinserimento nella società sottolineando che fare giustizia non è la pena in se stessa. Non c’è pena valida, senza la speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà possibilità alla speranza, è una tortura non è una pena!» Non si è però limitato a ribadire l’orientamento della chiesa, ma ha anche firmato il documento finale lanciato al termine dei loro lavori dai giudici e magistrati intervenuti all’incontro.
Ugualmente impegnato sul problema della fame nel mondo, ha visitato per la prima volta la sede del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM), nel quartier generale dell’agenzia a Roma, per condividerne gli obiettivi, sui quali concordano tutti gli stati membri delle Nazioni Unite, in particolare sull’obiettivo Fame Zero entro il 2030. Anche in sedi più modeste non manca di essere maestro di vita per i cristiani. Una di queste è l‘omelia pronunciata nella messa quotidiana celebrata a Santa Marta della quale la Radio vaticana fornisce stralci. Un esempio si può ricavare dal suo commento all’episodio del Vangelo in cui gli apostoli s’interrogano su chi sia il più grande: «quello che è accaduto qui con gli apostoli, anche con la mamma di Giovanni e Giacomo, è una storia che accade ogni giorno nella Chiesa, in ogni comunità. “Ma da noi, chi è il più grande? Chi comanda?” Le ambizioni. In ogni comunità, nelle parrocchie o nelle istituzioni, sempre questa voglia di arrampicarsi, di avere il potere ( …), non di servire, ma di essere servito, non si risparmia mai nelle parrocchie, collegi, altre istituzioni, anche nei vescovadi (…). Nessuno di noi può dire: no, io sono una persona santa, pulita».
Questo modo di Francesco di fare il papa sta incontrando un’opposizione sempre più aperta in Curia e nell’opinione pubblica tradizionalista. Oltre alle comprensibili resistenze agli interventi di riforma degli assetti nella Curia, sono in aumento le reazioni ai suoi frequenti sconfinamenti fra pastorale e dottrina specialmente nell’ambito delle questioni concernenti la famiglia e il rapporto di coppia. Gli si rimprovera la mancanza di esplicite condanne verso le convivenze omosessuali e l’indulgenza per le inadempienze ai propri obblighi di quelle eterosessuali. Anche il testo dell’enciclica Amoris laetitia, insieme alle conclusioni del Sinodo sono oggetto di commenti non sempre favorevoli, se non apertamente critici, in particolare sulla mancanza di chiarezza circa lo spazio di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. La liberalità di Francesco favorirebbe il proliferare di esperienze pastorali diverse, aumentando il peso delle differenze geografiche, portando la dottrina cattolica ufficiale a variare effettivamente da Paese a Paese. Alle altre voci critiche si è aggiunto il cardinale Caffarra recentemente dimissionario dalla diocesi di Bologna e noto per essere uno dei porporati che celebrano la messa tridentina marginalizzata dalla riforma liturgica.
In verità anche fra i cattolici innovatori si pensa che papa Francesco non stia traendo frutti dalla sua azione riformatrice. Lo rileva Noi Siamo Chiesa che, in un suo recente documento sulla riforma della Curia, scrive: «dopo tre anni e quindici lunghi incontri, infatti, i risultati sarebbero del tutto inferiori alle attese, non solo per la lentezza delle decisioni, ma anche per le caratteristiche di quelle fino ad ora adottate. Non è ancora chiaro se la Curia debba essere un servizio evangelico alle Chiese locali e ai vescovi oppure una struttura burocratica dove i vescovi si sentono spesso non capiti da supponenti monsignori di curia. (…). La linea che si sta tacitamente affermando è invece quella della riorganizzazione, degli accorpamenti, delle semplificazioni. Tutto qui!». A questa linea NSC oppone la sua alternativa: « Secondo noi, la riforma della Curia dovrebbe fondarsi su due pilastri: ridurre le strutture del Vaticano e decentrare le competenze alla periferia della Chiesa». Questa proposta, apparentemente ingenua nella sua semplicità, s’inserisce nella linea della sua storia. Di essa NSC ha fatto memoria il 28 maggio con un convegno a Milano in cui, ricordando le tappe del cammino, percorso nell’assoluta indifferenza della Chiesa istituzionale, ha prospettato il lavoro futuro confermandone le caratteristiche per bocca del coordinatore nazionale Vittorio Bellavite: «Abbiamo sempre cercato di tenere nella mano destra il Vangelo e nella sinistra il giornale per fare attenzione allo scorrere dei fatti, piccoli e grandi, nei quali la nostra vita di fede è stata immersa».
La stessa intraprendenza del cattolicesimo di base si sta verificando nei confronti del prossimo Referendum confermativo sulla legge di revisione costituzionale con interventi che, nel dibattito sulla riforma della Costituzione, non sempre seguono quello sostanzialmente favorevole di Civiltà Cattolica. I Cattolici sono, infatti, divisi sull’argomento fra favorevoli e contrari alla proposta governativa. Non si è realizzata la convergenza che si era verificata nel referendum del 2006, contro la revisione proposta da Berlusconi e Calderoli. Si è anzi creata una contrapposizione, che talvolta ha superato i limiti del dissenso politico, fra favorevoli e contrari allo stesso diritto di presentarsi all’opinione pubblica sull’argomento con una qualificazione confessionale, come hanno fatto quelli che si sono dichiarati “Cattolici del No” sulla base di un documento elaborato da Raniero La Valle.
Altro segno di divisioni non risolte, più immediatamente ecclesiali ma con risvolti socio politici, si è verificato in Sicilia dove una processione, attraversando le strade di Corleone, si è fermata per un “inchino” davanti alla casa dove abita la moglie del capo di Cosa Nostra Totò Riina. Dissociati il commissario di polizia e il maresciallo dei carabinieri, che erano presenti, imbarazzato il parroco che non ha saputo prevenire l’episodio, duro nel suo commento il vescovo di Monreale partecipe insieme agli altri vescovi siciliani della campagna per eliminare queste collusioni fra religiosità popolare e mafia.
Ben più grave e di ben diversa natura lo scontro che si è verificato fra le chiese dell’ortodossia. Dopo un lungo lavoro preparatorio, durato oltre cinquanta anni, nel gennaio scorso era stato possibile di comune accordo convocare per il 19 giugno, prima in Turchia poi a Creta, un Concilio panortodosso delle quattordici chiese ortodosse, il primo dopo oltre un millennio. Nei mesi successivi sono insorti ripensamenti e richieste di rinvio che il Patriarca ecumenico di Costantinopoli non ha inteso accettare. Così che alla data stabilita il Concilio ha iniziato i suoi lavori in assenza dei primati delle Chiese di Antiochia, Bulgaria, Georgia e Russia, che da sola ha giurisdizione su più della metà dei cristiani ortodossi. Il primate della Chiesa ortodossa di Serbia ha aderito con riserva affermando che il punto di vista delle Chiese assenti dovrà essere preso in considerazione, altrimenti la delegazione serba abbandonerà la riunione. Queste assenze e condizionamenti, mentre esprimono la frammentazione del mondo ortodosso diviso dai confini nazionali, privano i suoi attuali problemi della premessa per la loro soluzione. Fra questi molto importante quello espresso nel documento sui rapporti con il mondo contemporaneo. In tali condizioni il Concilio pan ortodosso di Creta è destinato solo a trasformarsi nella prima tappa di un processo più lungo e difficile
Due lutti significativi si sono verificati in questo tempo e sono da ricordare in questa sede: la morte di Marco Pannella e di mons. Loris Capovilla, entrambi testimoni di una stagione che li ha visti fra i protagonisti, ben diversi fra loro, della radicale trasformazione del modo d’intendere il rapporto fra Chiesa e società civile, fra istituzione ecclesiastica e statale. Don Loris aveva 100 anni ed era il custode della memoria di papa Giovanni XXIII e della sua indimenticabile Pacem in terris. Pannella, che prima di morire in una lettera a papa Francesco ha scritto: «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene»; il 22 aprile scorso gli aveva inviato una lettera nella quale si legge: «Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano».
Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).
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