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Il Tarantismo: dal rimorso alla rinascita, dalla crisi della presenza al mito

copertina sorgidi Orietta Sorgi

Salento 1959: Ernesto de Martino approda in quell’estremo lembo della penisola, la più esposta ad Oriente, e lì, nelle “Indie di quaggiù” avvia la grande inchiesta etnografica del secondo dopoguerra sul Meridione d’Italia. Proprio a San Paolo di Galatina, guidando una troupe di ricercatori di diverso orientamento disciplinare, antropologi, psichiatri ed etnomusicologi, fotografi e documentaristi, lo studioso “scoprirà” il tarantismo, segno inequivocabile di una crisi della presenza, di un senso di smarrimento esistenziale attribuito simbolicamente al morso del ragno. Da qui il malessere, lo stato di trance che ne consegue e la riabilitazione attraverso le tecniche coreutico-musicali alla presenza di San Paolo, protettore dei tarantolati. In coincidenza col periodo della mietitura di fine giugno e nel giorno della festa del santo, gli affetti dal veleno del morso del ragno si recano al santuario, dove avviene un processo rituale di sospensione e destorificazione mitica del negativo.

Erede della tradizione storicista gramsciana, de Martino recupera e fa suo quel rapporto organico fra politica e cultura che attribuisce all’intellettuale un ruolo di organismo vivente nel comprendere, attraverso le esperienze vissute, i reali rapporti di potere e sottomissione dei più deboli. Allo stesso modo l’antropologo vede nel fenomeno del tarantismo, non soltanto una battuta d’arresto da parte di coloro che il progresso occidentale ha lasciato indietro, ma la messa in discussione di tutto il sistema nel «quale siamo nati e cresciuti». Un processo che coinvolge dominanti e dominati, osservatori e osservati. Da qui il rimorso dell’etnografo che rivede nel proprio oggetto di studio, quelle stesse tare del suo essere espressione di una società avanzata dell’Occidente: basti pensare a quel senso di disagio che Lèvi-Strauss esprime consapevolmente nell’introduzione a Tristi tropici: «Cosa siamo venuti a fare qui?»

L’esame dei comportamenti religiosi attraverso le tecniche etnografiche è pertanto un modo non soltanto per conoscere ma per comprendere i reali rapporti sociali e le forme di potere che producono sottomissione e marginalità. Come l’intellettuale gramsciano, l’antropologo deve partecipare emotivamente ai comportamenti reali della gente, guidando le fasce marginali verso una maggiore consapevolezza.

A cinquant’anni dalla morte del Maestro, giunge quanto mai opportuno questo volume di Giovanni Pizza dal titolo evocativo Il tarantismo oggi, edito da Carocci nel 2015, che impone un ripensamento di tutta l’opera demartiniana, a partire proprio da quella rinnovata attenzione sull’argomento cui si assiste negli ultimi anni. Il tema è quello della trasformazione patrimoniale del tarantismo nel Salento contemporaneo, da espressione di un malessere e di una precarietà esistenziale a risorsa identitaria di promozione e valorizzazione di un luogo.

In effetti, in questi ultimi decenni, il Salento è divenuto il teatro d’azione di tutta una serie di produzioni, testuali, audiovisive e spettacolari che assumono il tarantismo come elemento identitario. Il problema principale su cui discutere non sta tanto nel recupero di un fenomeno di cui già lo stesso de Martino lamentava la scomparsa, ma di capire gli effetti che oggi si ripercuotono su un territorio e che promuovono nuove inversioni di tendenza. L’approccio critico dell’Autore si chiede in primo luogo in che modo un testo classico dell’antropologia italiana, considerato in qualche modo fondativo di identità culturale, possa avere avuto oggi questo forte impatto sul territorio, divenendo un fenomeno sociale ed economico. Pizza ripercorre tutta la genesi che ha accompagnato la ripresa degli studi demartiniani, dentro e fuori l’accademia, cominciando proprio da quel silenzio inquietante degli anni Settanta e Ottanta: una damnatio memoriae già peraltro lamentata da Clara Gallini, che ha finito col provocare una sorta di oblio collettivo degli antropologi, e la perdita del senso della prospettiva, a favore delle nuove correnti dell’antropologia europea e statunitense.

 Maria di Nardò in stato di trance, San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna

Maria di Nardò in stato di trance, San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna)

Di contro un improvviso risveglio, che coincide con una nuova edizione de La terra del rimorso e con altre pubblicazioni scientifiche  come quella  di George Sauders nel 1993 in una rivista straniera e le prime traduzioni del testo originale, considerato ormai come fondativo per la conoscenza del fenomeno stesso. Contestualmente nel 1995 un convegno promosso dall’allieva Clara Gallini riporta alla luce, in un fecondo dibattito, il concetto di “patria culturale”, come radicamento in un luogo, senso di appartenenza e coscienza emozionale che ci lega al nostro passato e che fa sì che il mondo appaia nel presente come significante e leggibile. Anche fuori dalle Università, i dibattiti e conferenze si sviluppano da parte da parte delle istituzioni locali, delle associazioni e delle forze politiche.

Su un altro fronte, così come era stato in passato col documentario La taranta di Gianfranco Mingozzi, il fenomeno diviene nuovamente oggetto di produzioni cinematografiche  e nel 1994 viene realizzato il primo lungometraggio di Edoardo Winspeare Pizzicata che riaccende l’attenzione sui contadini pugliesi. Da uno stato di sofferenza e di crisi individuale e collettiva, il tarantismo lentamente si trasforma e nel recuperarne la memoria sembrerebbe liberarsi di tutti quei tratti negativi che avevano connotato il passato, per accentuarne altri legati ad una maggiore spettacolarizzazione e partecipazione.

La danza e la musica, un tempo riabilitative di un equilibrio precario, diventano ora strumenti di riqualificazione del mito. La dimensione di trance si riconverte in estasi gioiosa in cui sprigionare tutte le energie vitali legate alla corporeità, si perde il senso della malattia e della sofferenza. Un’inversione della tradizione quindi che ne recupera la memoria attraverso la rilettura del testo demartiniano, ma che gradualmente si trasforma da stereotipo negativo, arcaico, legato alla sofferenza individuale a prodotto tipico del luogo, risorsa identitaria, merce patrimoniale da immettere nel mercato globale.

Tecniche coreutico-musicali. San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna)

Tecniche coreutico-musicali, San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna)

Dal rimorso alla rinascita: in realtà il filo di continuità che lega il passato al presente consiste proprio nell’interpretazione squisi- tamente simbolica del tarantismo. Se si guarda alla natura del fenomeno non come “oggettiva” e naturale manifestazione ma come dispositivo culturale, finalizzato alla creazione di sistemi di orientamento e riappropriazione dei luoghi, si arriverà a comprendere come, in rapporto alle mutate dinamiche sociali, alcuni elementi della tradizione vengono selezionati riadattandoli al presente, altri tralasciandone in quanto espressione di un contesto ormai tramontato. Ovviamente un simile approccio non potrà mai considerare la cultura locale come oggetto di osservazione ma, al contrario,dovrà porre uno sguardo critico sulle diverse produzioni culturali che si sono succedute e sulle diverse scritture e riscritture dei fenomeni. In questa direzione i concetti di tradizione e cultura non saranno mai visti come cose in sé, dati oggettivi, ma come rappresentazioni, invenzioni: l’identità stessa come essenza intima da cui partire per il recupero delle radici, è una concezione fuorviante e non può essere mai considerata una volta e per tutte, essendo un processo in divenire, definito sulla base delle differenze.

In questo percorso di recupero della memoria il fenomeno diviene altro, assume la connotazione di bene culturale, patrimonio pubblico da valorizzare: da segno di un cattivo passato a investimento presente e futuro.  La prova è data dal successo incontrastato del Festival della taranta che di anno in anno vede coinvolti i comuni del Salento con numerosi attori locali, musicisti e danzatori che si riappropriano della tradizione nel segno della modernità, con richiami che si riflettono anche fuori dai confini regionali.

Una tendenza, quella della patrimonializzazione, su cui oggi gli antropologi della contemporaneità sono chiamati a confrontarsi per indagare le nuove dinamiche dei processi folklorici, fra localismi e globalizzazione. Problematiche non certo esclusive della terra del Salento, ma che vanno coinvolgendo a macchia d’olio tutte le diverse aree della penisola italiana ad alta densità folklorica e non solo: Pizza richiama a questo proposito il festival dell’igname nelle isole trobriandesi, luogo mitico delle spedizioni malinowskiane presso gli Argonauti del Pacifico occidentale.

Violinista barbiere e altri suonatori, San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna)

Violinista barbiere e altri suonatori, San Paolo di Galatina,1959 (Foto Pinna)

Tutto questo si muove ovviamente in linea con le indicazioni dell’Unesco sull’intangible heritage e su una nuova sensibilità nel conservare il patrimonio immateriale quale risorsa locale e identitaria di riqualificazione dei territori. In queste nuove dinamiche sono tutti coinvolti e soprattutto gli antropologi sono chiamati a dialogare con gli attori locali, con i responsabili delle istituzioni, con le forze politiche, in un rapporto organico e di scambio dialettico fra la politica, la cultura locale e la ricerca scientifica. Per non cadere in facili stereotipi, la patrimonializzazione delle risorse locali e delle memorie collettive deve essere considerata come un fattore positivo di sviluppo a condizione che non si indaghi sulla cultura popolare come oggetto, ma sulle diverse rappresentazioni che di volta in volta sono state date, sulle diverse scritture antropologiche e sulle diverse produzioni culturali, come pratiche discorsive e interpretative in un dialogo e confronto fra noi e gli altri.

 Ballerina di taranta, oggi

Ballerina di taranta, oggi

La posta in gioco è alta e il pericolo è quello di una banalizzazione dei concetti di identità e memoria. Ovviamente il politico avrà una responsabilità enorme nella messa in opera di strategia per la creazione del consenso e della partecipazione popolare. Ma proprio per questo l’antropologo è chiamato a uscire dalle turris eburnee dell’accademia per vigilare correttamente su queste nuove dinamiche in atto, a decostruire stereotipi, a fornire un approccio critico verso la costruzione delle identità e nel processo di recupero delle memorie collettive.

In questa direzione l’esempio demartiniano e con esso l’influenza di Antonio Gramsci suonano ancora straordinariamente attuali.

Dialoghi Mediterranei, n.18, marzo 2016

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Orietta Sorgi, etnoantropologa, lavora presso il Centro Regionale per il catalogo e la documentazione dei beni culturali, dove è responsabile degli archivi sonori, audiovisivi, cartografici e fotogrammetrici. Dal 2003 al 2011 ha insegnato presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Palermo nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici. Tra le sue recenti pubblicazioni la cura dei volumi: Mercati storici siciliani (2006) e Sul filo del racconto. Gaspare Canino e Natale Meli nelle collezioni del Museo internazionale delle marionette Antonio Pasqualino (2011); Gibellina e il Museo delle trame mediterranee (2015).

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