CIP
di Viviana Massai
Collezionatore di esperienze
In una ricerca da me effettuata ho incontrato la figura di un viaggiatore appassionato, fotografo amatoriale e grande curioso: Eugenio Bruschi, detto “Geo”, un collezionatore delle esperienze che ha condotto nei numerosi viaggi intorno al mondo. Non era mosso da volontà scientifica, solo da grande curiosità e passione per la conoscenza, soprattutto spirituale. Il collezionatore è assimilato spesso al raccoglitore di oggetti di ogni dove; l’accaparramento è la sua nota descrittiva, l’interesse per qualsiasi cosa esista è rilevante. Geo Bruschi era, però, attirato dal fare fotografie, dal fermare persone e atti in questo occhio metallico. Una fotografia non scientifica. Questo era lo strumento per esprimere il suo desiderio di sapere e conoscere. Geo voleva, attraverso le sue opere e la trasmissione di queste ai suoi amici, conoscenti e persone in generale, rendere la nostra cultura un po’ più aperta alle novità.
E torniamo, come in un cerchio, al senso del viaggiare. Viaggio non solo spirituale, ma peregrinazione alla ricerca di sé stessi in relazione con l’altro:
«Se il viaggiatore entra nel luogo nella maniera giusta egli è una fonte di potenza, di bene, di rispetto, salute e accrescimento dell’essere sociale. Se entra in maniera impropria è un inquinatore, un pericolo, una fonte di contagio che scompiglia un ordine sacro di differenziazioni che si materializzano in mura, partizioni, corridoi» (LEED, 1992: 115).
Racconto di sé, memoria e trasmissione generazionale
La memoria e la trasmissione generazionale non sono scindibili dal rapporto che egli aveva con il mondo altro. Il Museo Geo Centro Studi, nato dalla sua volontà di lasciare il proprio patrimonio fotografico al Comune di Pontassieve, ha visto in questi anni il configurarsi di mostre fotografiche ed altre esposizioni che hanno aiutato la memoria degli anziani a ricordare e a mantenere viva la traccia di alcune pratiche in via di scomparsa, coadiuvando la trasmissione generazionale. Queste si trovano legate ad una caratteristica di Eugenio Bruschi: il racconto di sé.
Traspare l’esigenza di Geo di raccontare. A volte può essere la spiegazione ai bambini all’interno del museo; a volte può essere il racconto di aneddoti durante una cena amichevole tra amici. Leitmotiv è il racconto. Narrazione di sé, ma, soprattutto, esposizione dei suoi viaggi. Il racconto è legato alle sue esperienze di viaggio, ai suoi percorsi. Come ogni persona parlerà, ovviamente, anche di altro, secondo però più livelli: con la moglie si faranno certi discorsi, con gli amici altri; ma con tutti, a ogni livello, con ogni persona, che sia bambino o conoscente, si parla del viaggio. In questo modo si trasmette, anzi, si trasporta la conoscenza da un Paese ad un altro, da una persona ad un’altra. Racconto che è rappresentazione (il palco della vita) e che può trovare il proprio canale comunicativo non solo nella voce, ma anche nella fotografia o nella messa in mostra e funzionalità di un museo.
«Écrire crée des lieux; écrire la vie crée des lieux dans lesquels s’inscrivent les mondes vécus. Écrire est une manière de s’exposer à la lumière, lumière dans laquelle les regards se croisent. Écrire crée des formes du temps et de la langue. Écrire sur soi-même signifie se mettre en danger, se donner aux regards jaloux, au vol magique, mais signifie aussi se fier à autrui et en rencontrer la mémoire» (CLEMENTE, 2003: 203).
Alcuni antropologi si sono trovati nella situazione di rispondere loro stessi alle domande degli indigeni riguardo alle usanze del proprio popolo. Molto sintomatico il report riportato da Aime sugli anziani Tangba che si meravigliano del fatto che in Europa vengono utilizzati gli ospizi per le persone anziane (AIME, 2013: 97-98). Chissà, quindi, quante volte gli stessi indigeni avranno chiesto a Geo di raccontare qualcosa del mondo dal quale proveniva.
Eugenio Bruschi fa da tramite e mette in relazione più mondi, più significati. Facendo questo riattiva la memoria degli anziani e tramanda ai giovani, che a loro volta trasmettono e innovano. Non è un meccanismo da sottovalutare. Gli anziani hanno modo, di poter riportare alla mente cose del loro passato, far rivivere aspetti che avevano dimenticato. In questo modo, rinnovando il passato, sono in grado di trasmetterlo.
I giochi della memoria che invecchia non sono stati aiutati dai tumultuosi processi di industrializzazione: tanti mestieri si stanno perdendo, è un dato di fatto; ma con essi vanno perse tante conoscenze tecniche legate a quei mestieri. Siamo troppo abituati ai supermercati e a vedere le cose già fatte, perdendo il valore di produrle e con esso la consapevolezza del prezzo costato per costruirlo. Fare un oggetto è mettere e trasmettergli anche una parte di sé stessi. L’atto del fare è anche un atto di comunicare. Si mettono in relazione le cose con le persone, e le persone tra loro per mezzo delle cose. Vengono quindi riacquisite tante memorie connesse a quei determinati oggetti.
Ma riacquisizione della memoria e racconto di sé non varrebbero molto senza trasmissione generazionale. Senza passaggio tra una persona e l’altra, tra una generazione e l’altra, tutto sarebbe sterile e vano. Anche il senso della comunità si sta consumando. La comunità è fatta da più generazioni che si relazionano tra loro, mettendo a disposizione le loro conoscenze. Possono essere sia rimandi ad una tradizione, sia innovazioni e cambiamenti di essa. Selezioni della storia mnemonica oppure passaggio di ricorrenze. Fatto sta, che senza dialogo e confronto a più piani non può esistere comunità.
Geo Bruschi, attraverso il grande lavoro del museo, dà modo che questo dialogo si allarghi ad altri mondi e, attraverso esperienze tratte dal territorio, fa sì che possano essere messe a confronto più realtà.
Educazione, territorio e volontariato
In conclusione, il più grande valore che il museo può avere per i bambini, indipendentemente dal suo contenuto è quello di stimolare e, ciò che più conta, affascinare l’immaginazione; risvegliare la curiosità in modo tale da spingerli a penetrare sempre più a fondo il senso degli oggetti esposti; fornire l’occasione di ammirare, ciascuno con i suoi tempi e i suoi ritmi, cose che vanno oltre la loro portata; e, soprattutto, comunicare un senso di venerazione per le meraviglie del mondo. Perché, in un mondo che non fosse pieno di meraviglia, non varrebbe davvero la pena di crescere e abitare (BETTELHEIM, 1999: 50).
La scuola è un aspetto interessante di utilizzazione di questo museo. È emerso più volte l’interesse da parte di tutti gli attori coinvolti di inserirlo in attività laboratoriali destinate a bambini, veri agenti connettori del territorio. Il rapporto con la scuola si basa sulle storie, sulla loro rappresentazione e sulla trasmissione. Narrazioni che sono tramandate con la parola, ma anche con la fotografia e con gli oggetti. Oggetti, che in molti laboratori, possono essere toccati.
«[È] molto più immediato se possono anche toccarle con mano, come anche farsi trascinare dal linguaggio universale dei tamburi cubani, quando maestri cubani insegnano a suonarli a persone non vedenti, all’interno dei laboratori di Echo Art nel Museo delle Musiche dei Popoli, che ha al Castello uno spazio destinato alle musiche e alla didattica» (DE PALMA, 2004: 629).
Ancora: «J’ai toujours détesté les vitrines, ces ridicules boîtes de verre contenant des objets à regarder que l’on ne peut toucher» (GALLINI, in FABRE, 1996: 321-333). Il museo è presente fra le competenze da sfruttare nel PTOF dell’Istituto Comprensivo di Pontassieve. Questo sta a significare che può essere scelto come percorso all’interno di una formazione autorizzata, specifica e dettagliata. Non è una opzione data alla libera iniziativa dei volenterosi, ma istituzionalizzata.
In definitiva, sono esatte, per questo museo, le parole di Pietro Clemente: «quel “coso” è un’istituzione culturale capace di iniziativa e di svolgere un ruolo socialmente formativo, di educare la sensibilità, la conoscenza, di salvare il futuro del passato e il futuro del futuro» (CLEMENTE, 2013: 157).
«Troppo spesso i musei odierni cercano di trasmettere ai bambini un tipo di conoscenza dalla quale non nascerà alcun senso di meraviglia. Al contrario, io sono convinto che la miglior cosa che possiamo fare per i nostri figli e instillare in loro questo senso di venerazione e di meraviglia, dal quale soltanto si genera una conoscenza dotata di senso. Questo tipo di conoscenza arricchisce realmente la nostra vita, perché ci consente di trascendere i limiti del quotidiano: e questa è un’esperienza di cui abbiamo assoluto bisogno, se vogliamo realizzare appieno la nostra umanità. Non è la curiosità la sorgente del desiderio di apprendere e di conoscere; anzi, di solito la curiosità è presto soddisfatta. È la meraviglia, a mio avviso, che ci spinge verso una sempre più profonda penetrazione dei misteri dell’universo e verso un autentico apprezzamento delle conquiste dell’umanità» (BETTELHEIM, 1999: 48).
Il significato degli oggetti
«[S]ans doute le monde, avec ses différentes contrées, était-il mis en scéne dans la petite vitrine. Et nous en étions exclus, condamnés à le contempler à travers de parois de verre» (GALLINI, 1996: 322). Questo è vero per molti musei che ho visitato. Gli oggetti vengono esposti all’interno delle teche, senza nessuna storia che li contestualizzi veramente. Quello che si può leggere sulle bacheche, a volte affisse, che ne delineano la vicenda, non sono adeguate contestualizzazione. La loro narrazione fatta di date è necessaria in un libro di storia, mentre è assente il racconto della vita degli oggetti. La loro contestualizzazione è il loro calarsi in un racconto fatto di persone e delle loro relazioni con gli oggetti. Una macchia su un tappeto, un filo ordito male, una tazzina rotta.
Nel Museo Geo si è cercato di avvicinarsi a questo ordine di esposizione. È vero che si sono posti gli oggetti decontestualizzati affissi alle pareti e nelle vetrine, ma tramite le foto e, soprattutto, per mezzo del racconto, si è cercato di ricostruire la loro storia di vita, di metterli in relazione con i popoli a cui appartenevano. Ci si è sforzati di tenere viva questa relazione.
Le parole di Pietro Clemente possono essere lette in questo senso, come «storia di vita dal punto di vista dell’oggetto stesso» (CLEMENTE, ROSSI., 1999: 153): questo dargli la parola può essere fornita solo prestandogli la voce per i loro racconti. Si trovano ad essere strappati e lontani dalla loro casa usuale, ma possono ancora tener vivo il loro significato, dato dal riferire la loro presenza sulla scena del mondo.
«Se non ci ha mai riempiti di sacro timore il pensiero che noi tutti siamo parte di una catena infinita di generazioni che hanno tratto origine da un dio o da un animale totemico, se il nostro posto in quella catena non è fonte per noi di inesauribile meraviglia, se non facciamo risalire a questo il nostro posto nel mondo e nella società, se la procreazione non è più un miracolo, allora non potremo comprendere che cosa dicono gli oggetti esposti alla Smithsonian Institution, e il fatto di vederli con i nostri occhi non servirà a molto» (BETTELHEIM, 1999: 49).
Gli oggetti non sono i grandi protagonisti, ma trovano il loro spazio. Spazio risemantizzato all’interno del museo dove a volte riaffiora il loro precedente significato in relazione alle contestualizzazioni, ai racconti. Storie di vita degli oggetti. Beni che hanno un loro forte senso per le popolazioni di appartenenza. La natura di questa relazione va tenuta presente. Emmanuel Kasarhérou racconta che gli anziani appartenenti alla sua tribù di origine Misikoéo erano contrari al rientro di una testa di moneta donata a Maurice Leenhardt, poi conservata al Musée de Neuchâtel e considerata durante l’allestimento della mostra De jade et de nacre, nel 1990 (KASARHÉROU, 2015: 210-213). Questa testimonianza ci aiuta a capire come non devono essere date per scontate le cose, ma deve essere sempre tenuta presente la situazione nella quale un oggetto viene scambiato. I legami non devono essere spezzati [1]. Bisogna tener fede alla parola data perché non possiamo sapere perché è stata data. Queste le parole di un anziano appartenente ai Misikoéo. Ambasciatori di quel mondo in quanto sono tramite di passaggio per raccontare le loro storie, insieme ai racconti e alla fotografia.
La fotografia di Geo
La fotografia è il mezzo di espressione scelto da Geo per esporre il proprio pensiero. Inizialmente lasciava la capacità di espressione esclusivamente alla parola e al suo desiderio di raccontare; ha iniziato, poi, a manifestare le proprie riflessioni attraverso questo mezzo e a renderlo sempre più suo, un prolungamento del suo occhio e della sua memoria. Infatti, si tratta di rendere note le sue ispirazioni e le sue idee, in quanto rappresentano il modo attraverso il quale comunicava. Scarni sono gli appunti di viaggio che teneva, ma ricordava di ogni fotografia gli aneddoti e le occasioni e le motivazioni per cui l’aveva scattata.
Amava sicuramente la ritrattistica: donne, bambini, adulti vengono ripresi senza alcuna remora e si dimostrano ben tranquilli di posare. Sorridono il più delle volte. Questo perché non si ha l’impressione che venga realizzata una posa fotografica. I volti di queste persone non sono imbalsamati, riescono comunque ad esprimere il loro sentimento. Soprattutto, non hanno paura: si sentono a loro agio. Non sono turbati o costernati. La foto in posa può sembrare innaturale agli occhi dei più, ma traspare, invece, naturalezza. I bambini sono genuini. Spesso, le persone (compresi i bambini) sono riprese mentre svolgono attività quotidiane. Sono inserite, quindi, nel loro contesto. Vengono fermati dallo scatto fotografico, anche, atti cerimoniali o figure di spiritualità.
In queste fotografie trasuda un messaggio di ricerca interiore che va oltre la purezza della conoscenza. Lo sguardo è fermo e sicuro nei suoi soggetti, ma anche la sua mano è ferma, come ad indicare assenza di esitazione. Non sussiste in Eugenio il timore della conoscenza profonda, degli esseri umani, degli animali e, anche, dei paesaggi.
Le sue fotografie sono però abbinate alle sue parole, ai suoi racconti che le contestualizzano e ne fanno rivivere una storia. Storia di quelle persone, delle esperienze intensamente vissute, e presentificate grazie ai suoi racconti e ai suoi scatti.
La fotografia di Bruschi è per certi aspetti, anche un fare antropologia. È indubbio che i suoi scatti rappresentino una fase importante della propria mnemotecnica sulle esperienze. La fotografia in sé, però, può essere usata anche come modo per conoscere il mondo ‘altro’. Se non facciamo caso al valore espressivo e simbolico dei suoi scatti, sono essi comunque interessanti perché ci aiutano a fermare e ad analizzare posture, gesti e abitudini delle persone. Sono state fotografate feste, rituali, atti della vita quotidiana dei quali possiamo osservare prossemiche che non possono essere espresse dalla parola. Nella vita di Eugenio Bruschi la parola e il corpo sono inscindibili. Nelle sue mostre, quanto nella sua vita privata, la funzione dell’una è imprescindibile dalla funzionalità dell’altro: si completano a vicenda nell’esigenza di Geo di trasmettere e tramandare agli altri la sua esperienza.
Il Museo Geo Centro Studi come rappresentazione
Come ogni percorso è segnato da un cambiamento, così il museo è l’ultimo passo di un cammino che ha visto Eugenio Bruschi progredire ogni giorno di più nella sua vita, con il proposito, tipico dell’invecchiare, di affidare la propria memoria. Il museo è una sua rappresentazione che unisce la propria voglia di comunicare, sia attraverso le parole, sia con le fotografie e gli oggetti. Sempre tutto accompagnato dai suoi racconti. Il museo è infatti la costruzione della sua storia di vita, il modo in cui raccontare sé stesso, la sua serie di ricordi e perpetuare la propria memoria.
Abbiamo visto come l’ambiente museale sia inserito nel contesto territoriale in molti modi: come la sua presenza sia un attrattore di molti punti di vista. Esso, però, è anche una rappresentazione, e quindi “significa”. Eugenio Bruschi ha partecipato ai lavori di ristrutturazione: avendo potuto constatare il carattere forte e determinato, è molto difficile ritenere che non abbia deciso niente riguardo alla preparazione degli ambienti, alla disposizione degli oggetti e delle fotografie. Essendo una persona che amava raccontare con le parole, che amava raccontare con le fotografie, non poteva che considerare lo spazio museale una sua autobiografica espressione. Non mero contenitore, spazio effimero, ma spazio significativo. Deve far riflettere il fatto che all’interno del museo aveva posto una fotografia della moglie defunta prematuramente: perché? Perché legare un luogo ad uno spazio affettivo se esso non è, in qualche modo, rappresentazione anche di qualcosa di affettivo?
È da tenere presente che tutte le fotografie e gli oggetti radunati con cura in questi lunghi anni, sono stati raccolti per pura passione. Non era il suo lavoro. Non era un fotografo o un reporter professionista in cerca di uno scoop. Il suo lavoro era un altro. Quelle sono, invece, tutte espressioni della sua passione. Modi di esprimere sé stessi. Ci sono persone che si staccano dal loro lavoro andando a pescare, scrivendo poesie, facendo una partita a tennis, leggendo o scrivendo. Lui viaggiava, faceva filmati e fotografie e poi raccontava le proprie esperienze. Invecchiando, vedendo perdersi nel tempo che passa i propri ricordi, sente l’esigenza di trasmettere. Crea il museo per raccontare ad un pubblico più vasto.
Si scrivono memorie diaristiche, come quelle presenti a Pieve Santo Stefano. Ma se la scrittura non è il proprio modo espressivo, si possono trasmettere scritture attraverso le fotografie; in fondo, fotografia vuole dire “scrivere con la luce”. Oppure, si possono reperire oggetti, cercando di mantenere il loro significato raccontandolo. Si può anche costruire un museo. Il rischio di ogni memoria tramandata è quella della sua modificazione nel tempo. Ma questo è il modo in cui viaggiano incessantemente le culture.
Il museo è la storia delle esperienze di Geo. Come ogni storia che i nonni raccontano ai bambini, viene inserita all’interno di una comunità e in questa maniera raccolta, modificata se necessario, tramandata, raccontata. Il Comune di Pontassieve ha portato avanti questa operazione culturale, utilizzando questo museo all’interno del territorio, che è fatto dai membri di più collettività.
«La culture ne se montre pas comme une hypostase mais comme faite par les individus, par les groupes familiaux ou sociaux, avec toute sa variété interne» (CLEMENTE, 2003: 207).
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
Note
[1] «Al contrario hanno preferito reinterpretarli come oggetti ambasciatori della cultura kanak nel mondo che, come i doni maussiani, viaggiando creano e cementano i legami. Li hanno così ripensati come testimoni di un passato fatto non solo di sopraffazione e incomprensioni ma anche di scambi e connessioni» in ARIA M., PAINI A., “Oltre le politiche dell’identità e della repatriation. Gli «oggetti ambasciatori» per i Kanak della Nuova Caledonia”, in «Parolechiave», fascicolo 1, gennaio-giugno 2013, Rivistaweb, Il Mulino: 118.
Riferimenti bibliografici
AIME M., Cultura, Bollati Boringhieri, Torino, 2013.
ARIA M., PAINI A., “Oltre le politiche dell’identità e della repatriation. Gli «oggetti ambasciatori» per i Kanak della Nuova Caledonia”, in «Parolechiave», fascicolo 1, gennaio-giugno 2013, Rivistaweb, Il Mulino.
BETTELHEIM B., “I bambini e i musei” in «La ricerca Folklorica», n. 39 Antropologia museale, 1999.
CLEMENTE P., “Un fiore di pirite. Introduzione ai nostri oggetti d’affezione” in CLEMENTE P., ROSSI E., Il terzo principio della museografia. Antropologia, contadini, musei, Carocci editore, Roma 1999.
CLEMENTE P., “«L’écriture de la vie» ou l’autobiographie dans sa valeur anthropologique et historique” in Clinique méditerranéennes, n. 67, 2003.
CLEMENTE P., “Antropologi tra museo e patrimonio” in «Annuario di Antropologia – Il patrimonio culturale», n.7, Meltemi, Roma, 2013.
GALLINI C., “Exotisme de masse”, in FABRE D., L’Europe entre culture et nations, Édition de la Maison des sciences de l’homme, Paris, 1996.
DE PALMA M.C., “Bisogna bruciare i musei di etnografia?”, in «Economia della cultura», fascicolo 4, dicembre 2004, Rivistaweb Il Mulino.
KASARHÉROU E., “Un caso di patrimonializzazione condivisa: gli oggetti ambasciatori della cultura Kanak”, in La densità delle cose. Oggetti ambasciatori tra Oceania e Europa, Pacini Editore, Pisa, 2015.
LEED E.J., La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Il Mulino, Bologna, 1992.
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Viviana Massai, come specializzanda alla Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici dell’Università degli Studi di Perugia, collabora al progetto di ricerca “Tutela e salvaguardia dei saperi e pratiche tradizionali di testimoni viventi a rischio di scomparsa” attuato dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura insieme alla stessa SIBDEA; già laureata magistrale presso l’Università degli Studi di Firenze in Studi geografici e antropologici con una tesi sul Museo Geo Centro Studi, vi ha curato due interventi progettuali.
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