È indubbiamente uscito in un periodo problematico, in Italia, il libretto di Catherine Wihtol de Wenden, Il diritto di migrare (Ediesse ed. 2015). Certo l’autrice, che lo aveva pubblicato in francese nel 2013 con il titolo Le droit d’émigrer, non poteva prevedere gli attentati terroristici di fine anno: a Beirut, il 12 e poi a Parigi il 13 novembre. Fatti che hanno sconvolto l’Europa, che hanno mutato gli orientamenti politici di vari capi di Stato, che hanno avuto pesanti riflessi anche sulla vita quotidiana degli abitanti di Parigi, di Bruxelles e di tante altre città. Da varie parti la reazione è stata: siamo in guerra! Già lo aveva detto, del resto, l’attuale pontefice.
È uscito quindi in Italia il libro Il diritto di migrare – si può dire – in un momento sfortunato. Oggi si è con ogni probabilità in generale contrari a contemplare la possibilità di ampliare i diritti degli emigranti o, meglio, dei migranti (il cambiamento nel titolo, una scelta felice, è dovuto a un intervento del prefatore, Enrico Pugliese) rispetto ai tempi precedenti. I profughi dalla Siria, le traversie del loro esodo, della accidentata rotta verso la Germania attraverso territori più o meno ostili, dove si erano da poco aperti fragili tratti di corridoi umanitari, i tentativi di qualche volonteroso di aiutare il passaggio dei fuggitivi attraverso sorde ostilità, innalzamenti di mura e di fili spinati, gli spari di gas lacrimogeni da parte della polizia macedone, le minacce ungheresi, l’esodo delle Ong, tutto questo è scomparso rapidamente dai media. C’erano state notizie, foto, resoconti sui difficili percorsi, sul freddo imminente, sui mezzi di fortuna utilizzati da alcuni, sulle marce defatiganti sostenute da bambini, da anziani, sulla dispersione di alcune famiglie che avevano perso di vista un qualche giovane parente, una donna: tutto questo è scomparso. Così come è scomparso il più oneroso, rischiosissimo percorso attraverso il Mediterraneo. Se vi sono stati ulteriori accenni ai migranti, questi hanno riguardato il rischio di infiltrazioni terroristiche: meglio chiudere le porte ai profughi siriani che rischiare di avere, di accogliere qualche jihadista, hanno proclamato vari politici. Qualcuno ha chiarito che andrebbero accolti solo cristiani!
Il terrorismo dell’Is (Stato Islamico) o meglio Daesh ha occupato le prime pagine dei quotidiani, i telegiornali. Con notizie in genere, comprensibilmente, emotive e allarmistiche. Con dichiarazioni di odio, di esecrazione. Impossibile avanzare ragionevoli distinguo, far comprendere che l’Isis non è l’Islam. Che l’Islam non è, per definizione, una religione che vuole lo scontro con le altre credenze, la loro sopraffazione. Dovranno passare mesi, prima che si affaccino più ragionevoli analisi. Prima che si comprenda che qui non si tratta, come è stato detto e dichiarato, di una guerra di religione, ma di una ricerca di potere che poco o nulla ha di religioso. Che si tratta di atti che in qualche modo rispondono agli interventi nord-americani in Medio Oriente, agli interessi della Francia, della Russia. A una complessa situazione geopolitica che riguarda in genere l’area del Caucaso. Che chiama in causa la Turchia e il popolo curdo, l’Egitto e Israele. Per non parlare dell’Iran sciita, che ha posizioni ben diverse da quelle della Turchia. O dell’Arabia Saudita, degli emirati arabi, alleati di vari Stati europei e probabili finanziatori dell’Isis. Si tratta di atti di terrorismo che si potrebbero far risalire allo stesso colonialismo europeo, per più versi.
Gli europei sono divisi e confusi, di fronte all’affastellarsi di notizie che sembrano però avere come effetto quello di occultare gli accadimenti. Cosa fa la Russia di Putin? Affianca i curdi, quei curdi che in effetti sembrano i soli a combattere l’Is? O evita invece di colpire l’obiettivo dichiarato, come altri sostengono? Certamente, se proprio deve schierarsi, l’Europa degli Stati preferisce prendere le parti della Turchia (la Nato è la Nato), nonostante il dissenso di molti. Sappiamo ormai che la vendita sottocosto del petrolio, il mercato della droga e di reperti archeologici finanziano il terrorismo dello Stato Islamico.
Quel che è certo è che il libro della Wihtol de Wenden è uscito in un momento difficile, in cui sui migranti gravano sospetti di terrorismo. Nel sentire medio, favorire i migranti (i profughi, i richiedenti asilo) vorrebbe dire favorire percorsi terroristici: chi potrebbe escludere – si scrive, viene detto anche da candidati presidenti degli USA – che non arrivino, mischiati con profughi e richiedenti asilo, dei terroristi? Un momento sbagliato, quindi, per far uscire un libro del genere, che propone ragionamenti articolati, cambiamenti di rotta con riguardo ai migranti, un ripensamento sulle frontiere.
Nello stesso tempo ritengo però si possa sostenere che un libro del genere sia uscito in un momento quanto mai opportuno. Si tratta di un libro che forse potrà essere di aiuto nel farci riflettere sui perché delle migrazioni, sulla loro globalizzazione, sui principali tipi di reazioni adottati nei Paesi occidentali. Sugli atteggiamenti che i Paesi occidentali hanno avuto e oggi hanno nei riguardi di un fenomeno che è presente nello scenario mondiale dai tempi della preistoria e che pure ancora suscita problemi, pulsioni e risposte negative. Chiusure. Respingimenti. Forse, questo libro ci può aiutare a comprendere come mai l’Europa abbia vissuto, stia vivendo, da tempo, un atteggiamento difensivo rispetto alle migrazioni. Perché l’Europa abbia sentito, senta il bisogno di erigere barriere. Perché abbia esportato le frontiere e si sia impegnata nell’impossibile compito di contenere i flussi migratori, pur sapendo che gli USA stessi non sono riusciti in un analogo tentativo; è noto infatti che nonostante il tristemente celebre ‘muro’ che per chilometri corre tra Messico e Stati Uniti, la California è oggi piena di persone di origine messicana, di piccole imprese gestite da messicani. A S. Francisco il quartiere messicano è ricco di botteghe e ristoranti che attraggono americani e turisti con offerte di cibo piccante tipico, con grandi, colorati murales che ripropongono la storia della patria di origine.
L’autrice ci ricorda già nelle prime pagine di questo suo lavoro come il Paese di nascita sia senza dubbio una delle prime ineguaglianze che uomini e donne si trovano a dover gestire. Un fatto ancora oggi vero, nonostante un sostanziale mutamento di scenario che vede l’emergere dei Paesi del Sud come luoghi di destinazione, ché oggi i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, con il Sudafrica), sembrano essere Paesi con prospettive molto più interessanti di certe nazioni europee dall’antica storia consolidata ma in grave crisi economica. Oggi molto turismo e anche migrazioni qualificate si dirigono verso queste nuove mete. Migrazioni vanno oggi da Sud a Sud, e persino da Nord a Sud, accanto a quelle più tradizionali da Sud a Nord. La studiosa risale al XIX secolo, quando da molti Paesi era difficile uscire: erano richiesti permessi speciali per partire, difficili da ottenere se non con autorizzazioni particolari per spostarsi all’interno del Paese stesso. Nel XXI secolo invece partire risulta più facile, ma molto difficile è invece entrare in certi Paesi ambiti: esistono muri, campi di contenimento o strutture analoghe con varie denominazioni, il cui compito è proprio quello di tenere fuori gli indesiderati. Non si contano, o meglio non sempre è possibile contare i morti alle frontiere.
Certamente nel 1922 si è avuto il cosiddetto passaporto Nansen (dal nome del politico norvegese che riuscì a far rimpatriare circa 450 mila ex prigionieri di guerra con un passaporto internazionale dato dalla Società delle Nazioni). Anche molti armeni in fuga, oltre a molti russi, utilizzeranno il passaporto Nansen, riconosciuto da 52 governi. Qualche armeno giungerà anche in Italia: fino ad oggi il passaporto Nansen, pur con tutti i suoi limiti, ha svolto un ruolo importante per tanti esodi. Nel 1948 si avrà la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che riconosce il diritto di emigrare. Poi, con il 1951, la Convenzione di Ginevra. Da allora molti passi sono stati compiuti, per la tutela dei migranti. Ma resta un divario notevole, sottolineato dalla de Wenden, tra l’acquisito diritto alla partenza e il diritto, ancora oggi troppo spesso negato, all’inserimento nel Paese di arrivo.
Ci sono stati, certamente, tentativi di accordi tra nord e sud del Mediterraneo: ma il tutto è stato frenato dalla paura di grandi flussi migratori che avrebbero potuto, che potrebbero mettere in difficoltà i Paesi occidentali. Per non parlare del terrorismo islamico. Si è tentata, certamente, una governance mondiale delle migrazioni. Ma resta vero che, mentre si ha in genere oggi un diritto di uscita, diritto che acquista visibilità e spazio con la caduta del muro di Berlino, non vi è un pari diritto di entrata. E a volte le vicende politico-economiche fanno sì che quelli che erano stati Paesi meta di immigrazione divengano a loro volta Paesi esportatori di mano d’opera: basti pensare a quanto occorso all’Argentina.
In vari casi i migranti sono riusciti ad ottenere, sia pure con difficoltà, la cittadinanza. Che però di per sé non risolve tutti i problemi: basti ricordare alcune difficoltà connesse con il diritto d’asilo per rendersene conto. Il minorenne ad esempio, ammesso che sia riuscito ad arrivare e non sia morto nel viaggio – al 20 novembre 2015 si parla di oltre 10 mila minorenni arrivati soli in Italia, di circa 700 minorenni morti nel viaggio verso l’Europa – al momento di diventare maggiorenne rischia l’espulsione. Verso un Paese che probabilmente neppure ricorda. Ancora incerto è lo status dei migranti ambientali, ad oggi sui 40 milioni di persone, mentre a fine secolo ne sono previsti circa 200 milioni. Insomma – denuncia la Whitol de Wenden – esiste oggi una doppia modalità con cui si affrontano le migrazioni: i poveri, la gente poco qualificata entra dalla porta di servizio, magari con permessi brevi. Tutt’altra accoglienza ricevono invece i migranti qualificati, gli strati alti.
Certamente, esistono oggi vari tentativi di mettere insieme Paesi di partenza e Paesi di accoglienza, oltre ad attori non governativi, per un utile confronto: tentativi di indubbia importanza, tanto che l’autrice li paragona per rilievo all’ abolizione della schiavitù. Frenati, però, questi tentativi – ma questo è un mio parere – in Italia anche dall’emersione di notizie circa una diffusa corruzione nell’ambito di enti e imprese dedite a migranti e rifugiati. È indubbio comunque che l’Occidente in genere, che l’Europa da decenni abbiano perseguito una politica difensiva. Ceuta e Melilla, lo stesso mar Mediterraneo, che continua ad essere tomba di corpi di migranti, insegnano. E poco importa che esista un’ovvia sproporzione tra i mezzi usati per fermare le migrazioni e i risultati ottenuti. Né che si cerchi con misure per definizione inadeguate di fermare un processo irreversibile.
In tutto questo – afferma la de Wenden – il grande sconfitto è lo Stato nazionale che perde, a volte, il controllo delle proprie frontiere: l’Italia, più volte in difficoltà nella gestione dei flussi migratori, è un tipico esempio in merito. Più in generale – lei scrive – «la tensione tra l’universalità dei diritti dell’uomo che caratterizza l’uscita, e la sovranità degli Stati, che definisce i criteri d’entrata, di soggiorno e di cittadinanza è evidente». Non si vuole comprendere, non si intende prendere atto del fatto che le politiche repressive anche le più sofisticate hanno in genere «un flebile effetto dissuasivo». Né l’Europa vuole affrontare il tema della marginalità sociale cui costringe larga parte dei migranti.
L’autrice aggiunge un’altra interessante notazione circa l’economia delle frontiere. Perché la frontiera può essere una risorsa, per coloro che ne traggono vantaggio: come ben sa chi ha frequentato la frontiera tra Tijuana e San Diego, ad esempio. O anche altre più o meno tristemente note frontiere più vicine a noi nello spazio. Fino ad ora l’indicazione di Etienne Balibar, secondo cui se le migrazioni sono un diritto andrebbero democraticizzate le frontiere, non ha trovato riscontro. Anche se è vero, secondo la studiosa, che a volte gli Stati si accontentano di una sorta di messa in scena.
A me sembra da sottolineare, al di là dei contenuti, anche la grande capacità sintetica dell’autrice, che ripercorre i principali accadimenti connessi con oltre due secoli di storia. Un lungo arco di tempo, quindi. E grandi spazi, dal momento che si parla della Russia e degli USA, dell’America Latina e dell’Africa, oltre che dell’Europa e di più lontani Paesi orientali. Ancora, in questo libro si evidenzia una indubbia qualità di scrittura da parte dell’autrice, per cui una frase può evocare da sola importanti linee di tendenza, ampi orizzonti. Interessante inoltre la parte in cui ci si sofferma sul grande mutamento sociale occorso, di cui fa parte il sorgere di città globali, cosmopolite, che fanno da filtro ad emigrazioni vissute in più fasi: il che rinvia alla pericolosità di certe situazioni oggi esistenti, ad esempio nel Caucaso, dove vi sono ormai, come risultato di annose guerre e contrapposizioni, Stati tendenzialmente monoetnici. Laddove altrove si amplia invece, si affermano realtà molteplici, doppie cittadinanze. Insomma, un libro piccolo come numero di pagine – 78 – ma che affronta tematiche assai importanti per l’oggi come per il nostro comune futuro. Che affronta fatti concreti quali migrazioni e respingimenti, senza dimenticare affatto le fondamentali teorizzazioni filosofiche che hanno affrontato temi quali la libertà dei mari (v. Hugo De Groot detto Grozio), il concetto di cittadino del mondo di Immanuel Kant, l’idea del diritto di emigrare di Hannah Arendt ecc..
La Prefazione di Enrico Pugliese entra nel merito della doppia politica dei Paesi del nord del mondo, pronti a denunciare l’assenza dei diritti nei regimi autoritari e totalitari, così come a negare una effettiva possibilità di ingresso a chi proviene da Paesi poveri. Di qui l’urgenza di definire un diritto internazionale dei migranti. Laddove invece l’Europa ha sostituito la missione Mare Nostrum (nata dopo la morte, occorsa il 3 ottobre del 2013, vicino a Lampedura, di oltre 360 persone, ne salverà oltre 160 mila) con Triton, intesa non più al soccorso ma al controllo e alla sicurezza (la nostra, naturalmente), in luogo del salvataggio dei migranti in difficoltà.
Dialoghi Mediterranei, n.17, gennaio 2016
Riferimenti bibliografici
Dalla Zuanna G., Farina P., Strozza S., Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese? Bologna, il Mulino 2009
Golini A., “Le migrazioni nella storia dell’Europa”, in AAVV., L’Europa dei popoli, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, Editalia 1997
Macioti M. I. e Pugliese E., L’esperienza migratoria: immigrati e rifugiati in Italia, Roma-Bari, Laterza 2010
Mezzadra S., Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, Ombre corte, 2001
Pugliese E., L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna, il Mulino 2006
Pugliese E., a cura di, Razzisti e solidali, Roma, Ediesse 1993
Wihtol de Wenden, C., L’Europe des migrations, Paris, ADRI/La documentation française, 2001
-Id., Atlas des migrations: un équilibre mondial à inventer, Paris, Autrement, 2012
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Maria Immacolata Macioti, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali, ha insegnato nella facoltà di Scienze politiche, sociologia, comunicazione della Sapienza di Roma. Ha diretto il master Immigrati e rifugiati e ha coordinato per vari anni il Dottorato in Teoria e ricerca sociale. È stata vicepresidente dell’Ateneo Federato delle Scienze Umane, delle Arti e dell’Ambiente. È coordinatrice scientifica della rivista “La critica sociologica” e autrice di numerosissime pubblicazioni. Tra le più recenti si segnalano: Il fascino del carisma. Alla ricerca di una spiritualità perduta (2009); L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia (con E. Pugliese, nuova edizione 2010); L’Armenia, gli Armeni cento anni dopo (2015).
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