L’identità di una comunità ha bisogno di segni che la rendano visibile, comunicabile ed osservabile. È necessario che qualcuno noti le differenze perché quel limes invisibile tra Noi e l’Altro possa materializzarsi: c’è bisogno degli osservatori esterni. La particolarità è tale, dunque, se una comunità la mette in scena dinnanzi ad altri che ne possono fruire pur essendo esclusi dalla “communitas” di idee e di intenti. La festa è il luogo privilegiato per rappresentare la propria identità ma se un tempo il palcoscenico era ristretto, la globalizzazione e la rivisitazione in chiave turistica delle pratiche tradizionali hanno contribuito ad ampliare il pubblico, hanno costruito un nuovo teatro.
Anche un piccolo paese può così mostrarsi al mondo, mettersi in scena su un’ampia e articolata ribalta pubblica. Così è per il piccolo centro dei Nebrodi, Alcara Li Fusi, che attraverso la festa del Muzzuni ha potuto attrarre su di sé i riflettori puntando su un simbolo, un’icona tradizionalmente riconoscibile e condivisa.
Il volume La festa del Muzzuni di Alcara Li Fusi (Pungitopo ed., 2017), grazie ai diversi sguardi disciplinari degli autori, consente di osservare la festa da varie angolazioni e si inserisce in alcuni attualissimi dibattiti. Cos’è la festa oggi? Come possono riti millenari ancorarsi alla nuova società? Quali sono i motivi che spingono le comunità a salvaguardare le proprie tradizioni? Le tradizioni hanno ancora senso? In che rapporto si pongono festa e turismo? La salvaguardia del patrimonio immateriale è davvero possibile? Globale e locale possono dialogare?
Nelle pagine di questo volume Alcara si pone come un perno attorno cui far ruotare riflessioni più ampie. Non dunque un testo a carattere locale ma un prezioso esempio che esplica le dinamiche comunità-identità-turismo attraverso un caso di studio concreto. Fabrizio Passa- lacqua, curatore del volume, indagando le origini della festa si basa su due pilastri: lo spazio temporale in cui si inserisce, ossia quello del solstizio d’estate, e la materialità del Muzzuni che definisce come “idolo” e strana composizione. È chiaro che questo artefatto cerimoniale imprescindibile per lo svolgersi della festa è pensato anche da Passalacqua come fulcro di identità, come particolarità che offre la chiave d’accesso a riti aracaici connessi alla terra e al suo ciclo vitale. «Ma cos’è un Muzzuni? – si chiede – La simbologia rimanda chiaramente al culto di Demetra, incredibile ma tangibile testimonianza del permanere nella mentalità collettiva di usi e costumi provenienti in maniera ininterrotta dal mondo antico». Antico, ancestrale, sono concetti che rimandano all’importanza della festa come testimonianza di continuità. È ciò che la gente di Alcara ha imparato a raccontarsi: il Muzzuni, studiato e contestualizzato, non può più essere semplicemente un omaggio a San Giovanni e al suo martirio se, come fa notare il Passalacqua, è la cristianizzazione di riti propiziatori più antichi e, conferma Sergio Todesco, diffusi in tutta la Sicilia.
Il venir meno del significato cristianizzato che, per secoli, ha consentito al Muzzuni di ritornare ogni anno sugli altari di strada è egregiamente sostituito, nel sentire comune, da una storia ancora più complessa di simboli e segni derivanti dall’indeterminatezza di tempi lontani: è la sua antichità a renderlo unico, di valore, significante e di conseguenza a rendere l’alcarese il depositario di tale conoscenza.
È chiaro che un simbolo di questo genere non può che assurgere a totem della comunità che gli affida la propria identità dinnanzi agli altri anche attraverso il pubblico elogio e il concorso di nuovi attori quali amministrazioni e associazioni. Mario Geraci spiega la resa totemica familiare del Muzzuni: «Il pantheon del Muzzuni che ogni anno a San Giovanni viene prodotto è così un complessivo strumento di relazione che serve a scongiurare miserie, disgrazie, a ostentare la forza produttiva e riproduttiva della terra e delle famiglie, incorruttibile e lucente come l’oro dei loro fioielli antichi e lo splendore robusto dei loro tessuti», il Muzzuni è un dio domestico «fatto per transitare all’esterno in uno scenario al centro del quale esso risplende, infonde i principi vitali alle nuove relazioni». Ampliando questa visione, alla luce della comunità-paese, Alcara agli occhi del mondo può, in ultima analisi, diventare il Muzzuni.
Sergio Todesco, che nel suo intervento inserisce il Muzzuni di Alcara nel quadro dei riti propiziatori-divinatori che si svolgevano in Sicilia in occasione della festa di San Giovanni (non tralasciando gli usi diversi di muzzuni documentati dai folkloristi ottocenteschi), mostra come si basi sulla creazione di una comunità teatralizzata e sia momento di negoziazione dell’identità stessa e commenta che «rimane imprescindibile il riferimento a una speciale valenza posseduta dalla festa del Muzzuni per il paese e la comunità di Alcara Li Fusi, quello di essere soprattutto un istituto culturale in grado di assicurare potentemente il mantenimento di un’identità possibile, come tale in grado di trasportare il paese e le persone che lo abitano in una condizione di relativa integrità attraverso i territori desolati e privi di orizzonte che caratterizzano la nostra povera modernità».
Il Muzzuni è chiaramente percepito come un baluardo, un presidio, un argine, un punto fermo che consente di non disperdere le radici nell’immensità della globalizzazione e, appunto, della moder- nità. Tuttavia, essendo un prodotto culturale e culturalmente definito, anche il Muzzuni è costretto a rapportarsi con il mondo. Diremmo con Mario Bolognari che la festa del Muzzuni, benché «a lungo sottoposta ad erosione», dovuta anche all’emigrazione, alla penetrazione dei mezzi mediatici nonché alla globaliz- zazione, ha bisogno di dialogare con l’esterno e creare una visione su di essa che si basi sullo studio dell’evoluzione dei nuovi fenomeni che la interessano, su «una ricerca sugli interessi turistici, economici, politici, sulle dinamiche sociali reali e attuali che caratterizzano questa antica e straordinaria emergenza cerimoniale».
L’intervento di Bolognari è particolarmente interessante perché introduce al concetto di Patrimonio Immateriale universalmente inteso e si pone come importante momento di riflessione sugli scenari che il bisogno di salvaguardia e documentazione rende possibili. Il concetto di patrimonio immateriale consente infatti di identificare come emergenze culturali gli aspetti che esulano dal patrimonio artistico-monumentale. Diversamente rappresentato dagli stessi raccoglitori, il patrimonio immateriale costituisce quel filo rosso che, idealmente, collega le generazioni al di là della materialità. Tuttavia, un’eccessiva oggettualizzazione ha condotto, a volte, a idee di impermeabilità, di non influenza esterna e soprattutto di immutabilità nel tempo alla stregua di un’opera d’arte, così trasformando l’immateriale in un’icona identitaria che consente di tracciare confini invisibili ma molto marcati. Il volume a cura di Passalacqua mostra chiaramente quanto un’idea del genere possa essere lontana dalla realtà: è il Muzzuni stesso ad esserne la prova con il suo variegato corteo di significati messi in opera in tempi storici diversi, restando egualmente simbolo ma mutandone il senso.
L’idea del patrimonio immateriale come risorsa da tutelare nella sua complessità ed interezza (al di là del lavoro etnografico e delle ricerche di settore) alla fine del Novecento assume una prospettiva internazionale. In questa cornice va letta la Convenzione Unesco del 2003, che costituisce la base per la definizione del patrimonio immateriale e per la legislazione ad esso connessa. Al punto 2.3. della Convenzione si chiarisce il concetto di salvaguardia:
«Per “salvaguardia” s’intendono le misure volte a garantire la vitalità del patrimonio culturale immateriale, ivi compresa l’identificazione, la documentazione, la ricerca, la preservazione, la protezione, la promozione, la valorizzazione, la trasmissione, in particolare attraverso un’educazione formale e informale, come pure il ravvivamento dei vari aspetti di tale patrimonio culturale».
È questo il passaggio più controverso della Convenzione insieme alla sezione 3 che lo esplica. È davvero possibile e corretto che uno Stato garantisca la vitalità del patrimonio culturale immateriale? E in che misura può intervenire perché non si perda? Andare oltre la ricerca e la documentazione con incentivi per la continuità non è sicuramente un’azione neutrale e priva di conseguenze sul patrimonio stesso. Può un qualsiasi ente preservarli dal cambiamento o dal completo mutamento di idee?
Nel suo intervento Bolognari non si limita ad affermare la necessità della salvaguardia ma pone una riflessione precisa: «ora il punto della questione è se è possibile una mediazione, un compromesso tra le esigenze della tutela e le aspettative della valorizzazione. Non quando vanno d’accordo, ma quando entrano in conflitto. In altre parole, è possibile valorizzare senza stravolgere?». La soluzione sembra essere una mediazione operata dagli etnoantropologi capaci di rendere consapevoli gli attori sociali delle posizioni conflittuali createsi all’interno dei riti e dovuti, anche, al cambiamento di prospettive ideologiche.
Tutti gli interventi mostrano come la festa di Alcara non segua un percorso stabile e si muova tra il recupero di memorie arcaiche necessitato dalla conoscenza delle radici e l’opera consapevole o irriflessa di mitizzazione della festa. Sono tutti processi da non sottovalutare che se da un lato concorrono alla rifunzionalizzazione e risignificazione del rito all’interno della comunità, dall’altro non possono escludere l’apertura allo sguardo dell’altro, in particolare del turista, a cui la comunità, come dicevamo, mostra se stessa.
L’indagine musicologica, lo sguardo storico e quello antropologico consentono, tramite la pluralità delle voci, un interessante punto di vista sull’attuale situazione del rito del Muzzuni. Potremmo affermare che il volume la inquadra come una festa in transito, sicuramente diversa dalle origini ma non morta, proiettata verso nuovi ruoli. Non si spiegherebbe altrimenti la proposta caldeggiata nell’intervento di Mario Sarica della reintroduzione del canto polivocale con un’attenzione al passato che non vuole diventare mera e sterile riproduzione.
Sarica mostra con estrema cura l’importanza che i suoni e i canti rivestono nel panorama festivo alcarese e ne spiega le tecniche esecutive (avvalorando per altro l’idea di Mauro Geraci che pone il Muzzuni come una festa della fecondità umana e naturale), registra la crisi del gruppo polivocale e constata la scomparsa dei ritmi femminili al tamburo. Tuttavia non pensa affatto che sia una sparizione definitiva. Il lavoro degli studiosi, il prezioso patrimonio musicale raccolto grazie alle nuove tecnologie, consente agli alcaresi di ricucire lo strappo con il passato anche in assenza di un insegnamento diretto. Se Sarica ipotizza il ritorno degli antichi canti ri-sostituendo quelli di importazione, sicuramente riconosce la capacità di questa forma artistica di rafforzare l’identità creatasi attorno al Muzzuni. Proprio questo punto di vista ci invita a riflettere su quanto la tecnologia possa sostituirsi all’uomo e su come il passaggio di informazione non sia più necessariamente orale in senso stretto. Sarica su questo punto è abbastanza chiaro e difende il ruolo di mediazione, ma anche di salvaguardia e conservazione, che i mezzi tecnologici possono avere se correttamente utilizzati.
Il libro, in ultima analisi, non è solo una guida alla storicità e ai significati della festa ma è un punto di inizio per la riflessione sul futuro della stessa. Si è scritto tantissimo sul Muzzuni, ma il contributo che questo testo può dare è diverso: mostra ad Alcara l’idea che ha di sé e al contempo parla e interroga tante altre comunità che di un rito hanno fatto la propria bandiera. Il volume si inserisce dunque a pieno titolo nell’aperto dibattito sulla conservazione e sull’iscrizione in liste del Patrimonio Immateriale perché scardina quei tabù di immobilità e di ritualizzazione vuota mostrando nuove possibilità di elaborazioni, nuovi legami, nuovi originali modi di intendere un rito millenario che cerca la strada per valicare altri secoli, altre culture, nuovi orizzonti sociali: la festa del Muzzuni non ha paura di diventare un Non Luogo perché ha una comunità che lo significa e lo reinventa.
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
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Angelo Cucco, laureato in beni demoetnoantropologici e specializzato in Studi storici, antropologici. e geografici, collabora con diversi siti internet e con associazioni locali per diffondere la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano (www.isolainfesta.it, www.castelbuono.org, www.terradamare.org). Ha partecipato come relatore a diversi convegni sulla valorizzazione delle feste e delle tradizioni popolari.
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