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Ambiguità dell’identità e mimetismo antropologico

copertinadi Marcello Carlotti

A seguito del sempre più attivo processo migratorio mediterraneo, anche nel dibattito pubblico-politico italiano, è in auge il tema dell’identità che, normalmente, viene presentato come chiara e aproblematica giustapposizione noi/loro; italiani/migranti; cittadini/ clandestini. Ma è davvero una questione così chiara come emerge dai titoli dei giornali, dai post sui social o dalle chiacchiere da bar? In questo senso, vorrei condividere una esperienza di mimetismo identitario che feci tanti anni.

Ogni volta che sento reificare dei termini convenzionali, mi torna in mente un passaggio de Lo Spirito come comportamento. In quel fondamentale testo di filosofia della mente, Gilbert Ryle (1949), quale monito sugli inganni estensionali del linguaggio e sulla concretezza illusoria, raccontava la storia d’un tale invitato a vedere l’Università di Oxford. Dopo avergli mostrato edifici, aule, biblioteche, corridoi, mense, allievi, corpo docente, personale questi rimase deluso: “Son venuto per vedere l’Università di Oxford e, invece, m’hanno mostrato edifici, persone, libri, lezioni. Tutto molto bello per carità, ma nessuno m’ha fatto vedere l’Università!”

Secondo il mio dizionario il termine identità [dal latino dotto idem, ‘(proprio quello) stesso’] significa uguaglianza completa e assoluta, nell’accezione logico-matematica. Nel linguaggio amministrativo e vagamente ordinario il termine sta per qualificazione di persona, ecc. che indica che sono quel che sono e non altro. Nel linguaggio psicologico il termine indica la consapevolezza di sé in quanto individuo stabile nel tempo e differenziato dagli altri. Dice anche altro, ma sono concetti «lontani dall’esperienza». Mi sembra, invece, che le accezioni amministrativa e psicologica diano ottimi spunti.

Ogni volta che apro il dizionario, mi soffermo su un consistente numero di altre parole che ignoravo o non conoscevo bene. Il processo, casuale prima, diviene circostanziato dopo aver trovato il lemma cercato e letta la definizione. Circostanziato perché guardo sempre i termini che lo circondano. Prima di chiudere, l’occhio si ferma stavolta su un termine affine: identikit. Oltre al significato poliziesco, ne esiste uno figurato: «complesso dei requisiti necessari a delineare l’immagine ideale dell’esponente tipico di una data categoria».

Partiamo da questa definizione: complesso dei requisiti necessari a delineare l’immagine ideale dell’esponente tipico di una data categoria. Complesso dei requisiti necessari a chi? E chi delinea l’immagine ideale di chi e per chi? A che pro? In che modo? E, soprattutto, cosa accade e come comportarsi se l’individuo (gruppo o categoria) non è d’accordo con l’immagine che si dà di lui, non conformandosi o non condividendola? Che tipo di riflessioni e problematiche solleva il caso in cui “consapevolezza di sé” (ma anche “qualificazione di persona… che indica che sono quel che sono e non altro”) e “requisiti necessari a delineare l’immagine ideale” non coincidono? È una questione di autorità da discutersi entro un quadro di riferimento politico ed asimmetrico. Con termini, forse, più tecnici la potremmo dire questione di dominio e d’autorizzazione connessa a modalità e strategie discorsive e rappresentative.

Nell’introduzione a I frutti puri impazziscono (1999: 20-21), J. Clifford scrive:

«è ormai passato il tempo in cui autorità privilegiate potevano normalmente e senza tema di smentita “dar voce agli altri” […] Chi ha l’autorità di parlare in nome di una identità o un’autenticità di gruppo? Quali sono gli elementi essenziali e i confini di una cultura? Come si scontrano ed entrano in rapporto l’io e l’altro negli incontri etnografici, in viaggio, nelle moderne relazioni interetniche? Quali narrazioni di sviluppo, perdita e innovazione possono dar conto della gamma di movimenti locali di opposizione oggi esistente?».

Questi dubbi gli sono sorti quando, in un’aula di tribunale presso la Corte federale di Boston, assistette ad un processo nel corso del quale fu chiesto agli indiani wampanoag – residenti a Mashpee, «la città indiana di Cape Cod» – di «provare la loro identità».

«Perché fosse loro riconosciuto il diritto d’intentare causa per il recupero delle terre perdute, questi cittadini del moderno Massachusetts furono invitati a dimostrare la loro continuativa esistenza tribale a partire dal secolo XVIII. La vita a Mashpee aveva subìto profondi cambiamenti dai primi contatti tra i Padri pellegrini inglesi a Plymouth e le popolazioni d’idioma massachusett della regione. I querelanti del 1977 erano i “medesimi” indiani? Erano qualcosa di più di un’accozzaglia d’individui con vario grado di ascendenza indiana? Se erano diversi dai loro vicini, come si manifestava la loro differenza “tribale”? […] Cominciai a vedere tali questioni come sintomi di una diffusa crisi postcoloniale dell’autorità etnografica» (Clifford, 1999: 19-20).

1Ho scelto questo caso perché, nel contempo, più stravagante e meno cruento di tanti altri in cui un popolo ha tentato di autodeterminarsi. Nella introduzione a Logiche meticce di J.-L. Amselle, M. Aime apre, ad esempio, ricordando che a poche centinaia di chilometri due popoli, serbi e albanesi, si stanno scontrando in una sanguinosa guerra etnica. I problemi che le guerre sempre comportano, mi hanno indotto a preferire un caso che ha seguito, fortunatamente, vie più istituzionali, sebbene meno tradizionali (sigh!).

In seconda istanza, se avessi scelto altri casi mi sarei dovuto misurare più da presso con un concetto che vorrei tenere sullo sfondo, “come tigre al sole”: il concetto d’etnia. La mia è scelta arbitraria. Soltanto, mi pare che la storia del concetto di identità, sia approcciabile in forma più ‘tecnica’ (meno sporca di sangue e colonialisticamente connotata) e, per questo, permetta di dire cose in apparenza più frivole, ma essenzialmente dure e valide anche per quanti usano parlare principalmente di ethnos.

«Nell’agosto 1976 il Mashpee Wampanoag Tribal Council, Inc [Consiglio tribale dei wampanoag di Mashpee], intentò una causa presso la Corte federale per il riconoscimento del titolo di proprietà su circa 16000 acri di terra, che costituivano i tre quarti di Mashpee, Cape Cod’s Indian Town [Città indiana di Cape Cod] […] Ne seguì un processo senza precedenti, il cui scopo non era quello di comporre la questione della proprietà della terra, ma piuttosto di stabilire se il gruppo che si attribuiva il nome di Mashpee Tribe (Tribù di Mashpee) fosse di fatto una tribù indiana e se fosse la medesima tribù che a metà Ottocento aveva perso le sue terre in forza di una serie di atti legislativi contestati» (Clifford, 1999: 317).

L’azione, non isolata in quegli anni, si fondava su una legge del 1790 mai abrogata: il Non-Intercourse Act, in base a cui si cercava (paternalisticamente) di proteggere i gruppi tribali da spoliazioni e imbrogli di quanti avessero cercato d’alienargli le terre. Le terre tribali avrebbero potuto essere alienate solo previo consenso del Congresso. Quantunque mai abrogata, questa legge è stata spesso violata lungo tutto l’Ottocento.

La Corte federale vincolò l’apertura del processo (con sentenza favorevole alle istanze di risarcimento, dati i precedenti degli indiani passamaquoddy e penobscot) ad un unico punto: la dimostrazione di identità, o meglio, di non cessata identità da parte degli indiani. Al Consiglio tribale wampanoag fu chiesto di dimostrare l’identità diasincronica del gruppo.

«I querelanti di Mashpee rappresentavano la stragrande maggioranza degli abitanti non bianchi di quella che era nota, da oltre tre secoli, come una “città indiana” a Cape Cod; ma le loro istituzioni di governo di governo tribale erano state a lungo sfuggenti, specie nel secolo e mezzo precedente il processo. Inoltre, sin dal 1800 circa la lingua massachusett aveva cessato di essere comunemente parlata a Mashpee. Dal punto di vista della confessione religiosa, la città era stata dapprima in maggioranza presbiteriana, poi battista. Nel corso dei secoli gli abitanti si erano mescolati con altri gruppi indiani, con bianchi, con neri, con mercenari dell’esercito britannico durante la guerra d’indipendenza, con capoverdiani. Gli abitanti di Mashpee erano attivi nell’economia e nella società del Massachusetts moderno. Erano uomini d’affari, insegnanti, pescatori, lavoratori domestici, piccoli imprenditori. Poteva, questa gente di ascendenza indiana, intentare causa come quella tribù di Mashpee che, a loro dire, verso la metà dell’Ottocento era stata spogliata delle terre possedute collettivamente? Fu questa la domanda posta da un giudice federale a una giuria di Boston. Solo qualora la risposta fosse stata affermativa, si sarebbe potuti andare a un processo che stabilisse la legittimità dei titoli sulla terra» (Clifford, 1999: 318-9).

Questo saggio è istruttivo per riflettere su un punto: l’identità è un processo relazionale che si realizza attraverso forme asimmetriche di riconoscimento. Non basta che un soggetto sociale si definisca e si senta entità culturale a parte e portatrice di una specifica identità, ci deve essere una validazione istituzionale. Dal che due problemi: (i) cosa vuol dire veramente riconoscimento dall’alto; (ii) come avviene la validazione istituzionale.

Molto banalmente “alto” significa maggior potere, sufficiente a coercire, “riportare all’ordine” o poter giungere all’extrema ratio; talvolta “alto” significa addirittura qualcosa di più: potere d’influire sugli organismi istituzionali (dalle corti federali ai tribunali internazionali) giudicanti e sull’esercizio del libero potere di giudizio – per chi volesse approfondire Chomsky et al. (1998), o Said (2001) e tutta la fiorente saggistica postcoloniale, almeno, da Cesaire (2004) e Fanon (1966, 1996) in poi. La forma di validazione è altrettanto problematica: si va dal nostro caso (una sentenza di una Corte) all’autodeterminazione attraverso guerre, conquiste del territorio e riconoscimento internazionale – sebbene nella realtà la possibilità di autodeterminarsi è fortemente vincolata all’appoggio preventivo (un pre-riconoscimento) da parte delle potenze internazionali, a forte trazione occidentale.

Cosa serve, dunque, per essere legalmente riconosciuti come gruppo avente un’identità? Il passo più denso sta nell’affermazione dell’antropologo J. Campisi, chiamato come perito dai querelanti. «Qui, come altrove, viene a galla la più vistosa antinomia del processo. Per poter rivendicare legalmente la terra i mashpee devono essere una tribù; per essere una tribù debbono avere la terra» (Clifford, 1999: 367). I mashpee non rivendicavano il diritto all’autodeterminazione e alla sovranità su una data porzione di terra. Rivendicavano solo il diritto a riaffermare le loro identità, storia e continuità. Non rinnegavano il loro essere anche statunitensi, semplicemente non volevano dirsi o essere detti solo statunitensi.

Ho parlato di  «questione di autorità che si deve discutere entro un quadro di riferimento politico ed asimmetrico», voglio, ora, motivare quest’affermazione riferendomi ad un’altra esperienza di vissuto, che, in termini pratici, è comune alla maggioranza di quanti passeggiano. Attraversando l’Atlantico per tornare nel Mediterraneo, non possiamo ora non chiederci cosa accada quando ci si rivolge ad un ragazzo senegalese d’età oscillante tra i quaranta bassi e alti, magari laureato in scienze politiche ed ex dipendente ministeriale di Zanzibar, che cerca di guadagnarsi la vita in strada per aver seguito la moglie italiana che, poi, l’ha lasciato? Non mi riferisco solo a cosa accade a voi, ma anche al cosa accade a e in lui? Se non ci trovassimo innanzi ad “una questione di autorità ed asimmetria politica”, gli stessi che chiamano “ragazzo…” il dott. X di Zanzibar, dovrebbero rivolgersi con sintagmi equivalenti anche verso quanti, aventi la pelle giusta, chiamano dottò. Perché ciò non succede? La questione è vincolata a ciò che in retorica è detto diritto e rispetto della replica. Contrariamente a quanto si crede e dovrebbe essere, non è un diritto universale. È un diritto che si correla all’occupazione di certe posizioni socio-geo-politiche e storiche. 

31Storia autobiografica di mimetismo antropologico

Figlio di madre sarda e padre sardo-toscano. Vissuto quasi sempre sull’isola. Non sono alto, anzi. Sono tozzo e ispidamente barbuto. Capelli nero notte, carnagione scura. Riccio. Occhi color caffè. Parlo italiano e spagnolo. Qualche difficoltà col sardo. Me la cavo meglio con l’inglese.

Anno 2001, in Tunisia per un convegno, sono arrivato prima per curiosare un po’. Più d’uno m’aveva ammonito di furti e molestie. Di conseguenza ho preso una precauzione: un vestito pakistano di cotone bianco comprato fra le viuzze prossime al porto di Cagliari. Mi sembrava a tono coll’estetica del luogo africano. Ho migliorato la mimesi con una papalina bianca ricamata, comprata in pieno suq (mercato) tunisino, che ho scoperto, poi, avere valenza semiotico-religiosa: la portano i musulmani di ritorno dal pellegrinaggio a La Mecca.

Così bardato, mi son avventurato per ogni dove sfuggendo l’invadenza dei mercanti sugli usci e il temuto vaticinio di furti e molestie. Mi sono aggirato per il Suq di Tunisi. Tranquillo, osservando molto e rispondendo con cenni a frasi inaccessibili. Il Suq si biforca in due sezioni: turisti e aborigeni. Le ho percorse su e giù affascinato da una strana differenza. Nella sezione turisti c’è tutto ciò che un occidentale s’aspetta: odori, stoffe colorate, drappi e, soprattutto, indigeni vestiti da indigeni. Si infervorano, gridano, si disperano teatralmente in estenuanti tira e molla coi turisti. Un vero tourbillon di rumori, mani, incensi: un’agitazione frammentata di dinamismo affannato. Tutti corrono. Le guide in una babele di lingue e persone. I turisti dietro piedi, occhi e colori. I mercanti a coprirsi l’un l’altro. È un moto continuo, un inno all’entropia. Un occidentale sente l’Africa. Messa in piazza per lui: recitata. Un vero e proprio locus africanus, insomma. La sezione aborigeni è altra questione. S’attraversa un cronotopo: fuori dalla nostra immagine d’Africa, oltre i miei loci africani, almeno. Il movimento non rallenta: sparisce. Nessun affannarsi sull’uscio. Nessuna babele a magnificare i prodotti del luogo. Nessun colore. Molte sigarette. Poche parole. Volti stanchi ma non spiritati. E, soprattutto, non ci sono turisti. Lenti scorrono tempo e clienti del luogo. Con loro nessun tira e molla. Eppure non è questo l’aspetto più sorprendente del cambio. Di là gente in maschera: turisti in bermuda e mercanti in ampli vestiti tipici. Di qua… Già, e di qua? Sembra di essere finiti per sbaglio e magia nel quartiere negozi di un qualunque centro europeo. Non solo per mancanza di rumoroso affanno. È la gente che mi crea questo straniamento. Jeans, giacche, cravatte, mocassini, felpe, cappellini, scarpe NBA. Non cambia solo la merce, ma anche la fisionomia della gente. Eppure neanche questo pensiero, neppure quest’accostamento immaginifico mi bastano. Penso e così mi sembra di intuire qualcosa.

Vestirsi occidentale è pure un modo di portarli, i vestiti. E qui il modo è un modus non europeo, ma neppure più o soltanto nord-africano. È un modus diverso. Semplicemente diverso. Sei ore di passeggio, eppure c’è ancora qualcosa che mi ronza attorno e mi sfugge. Passo e ripasso cercando di non dare nell’occhio. Attraverso la frontiera turisti-aborigeni. Eppure. Mi fermo. Prendo fiato e provo ancora a pensare. Penso. Di fronte la biforcazione. Poco più indietro un arco romano. Mi diverte scivolare camuffato tra strade che hanno vissuto secoli, colonizzazioni e infinite storie. Da Cartagine a Roma. Dai Vandali agli Arabi. Dai Francesi fino all’attuale sciamar di flussi economici, più che altro in uscita, e turisti, più che altro in entrata, e ciascuno soggetto-oggetto della propria piccola grande ed unica storia. Anche la mia, ora, qui lascia e prende qualcosa di nuovo e qualcosa di sé. Continuo a pensare e infine mi chiedo: Come sarebbe stato se, invece che “travestito”, avessi optato per le “più tradizionali” giacca e cravatta. Quante tirate di braccio? Quanti approcci commerciali? Come mi avrebbero guardato? Cosa avrebbero pensato? Tombola! Ecco cosa mi sfuggiva: il come vengo osservato!

Scivolo da ore non percepito per i vicoli del settore turisti, ma nell’altro settore la sensazione è diversa: sono scrutato da occhi in ascolto. Provo la mia teoria: altro giro. Settore turisti: nessuno mi nota. Settore aborigeni: gli sguardi mi s’appiccicano alle spalle. Qualcuno accenna addirittura un saluto, ed io gli rispondo con gesti che vorrebbero essere una benedizione. Ottengo di rimando un cenno del capo, un rapido gesto di mani e alcune frasi veloci, quasi rituali. Interpreto e mi sento come fossi stato appena riverito. Divertente, divertente rispondere con una benedizione ad un saluto estraneo. È giunto il momento, però. Così rompo gli indugi: ho promesso di tornare con qualcosa del luogo. Mi ficco dentro un negozio aborigeni. Il proprietario mi guarda con un misto di stupore e disgusto. Indossa un buon completo grigio su cravatta scura, camicia bianca. Sigaretta americana, fine e lunga. Non chiede nulla. Aspetta. Mi guardo in giro, sono a casa: un atelier per giovani europei rampanti. Un “bianco” vestito da “nero” non “riconosciuto” da un “nero” vestito da “bianco”. Un vero gioco di ruoli… confusi. Gliela leggo nello sguardo la sorpresa infastidita di chi si chiede cosa possa mai volere da uno come lui un musulmano fanatico. Azione. Gli chiedo in inglese se abbia qualcosa di tipico in vendita. Rinnova la sospettosa sorpresa. Da quale parte dell’Asia vengo. Non vengo da nessuna zona asiatica. Centr’Africa? No, Sardegna, Italia. In buon italiano: cosa diavolo ci faccio lì vestito da tunisino musulmano fanatico. È quasi scioccato. Un italiano, un “bianco” che fa di questi scherzi. Vestirsi da musulmano. Attimo di dubbio. No, non sono musulmano. Sono ateo. La sorpresa cresce con rinnovato fastidio. Un italiano ateo vestito da musulmano. Ma non volevo ferire nessuno. Senza offesa, dico. Spiego che quando ho comprato la papalina non ne conoscevo il simbolismo, soltanto mi piaceva, insomma l’ho comprata perché bella, ai miei occhi. Non si capacita del perché vestirmi a quel modo non mio. Le mie spiegazioni non lo soddisfano. Contrattacco. Cosa ci fa lui, musulmano, tunisino di Tunisi, vestito come un broker londinese o uno yuppie di Manhattan? Che se ne fa di mocassini rifinitissimi in luogo di sandali ariosi. Non accusa il colpo, non ci vede nulla di strano, lui. Così insisto. Ti stupisci di me vestito come la tua gente, perché non stupirti di te vestito come la mia, di gente? Siamo in una condizione simmetrica. Devo spiegargli cosa vuol dire simmetrico. Come allo specchio, dico. E lui ci si guarda, nello specchio. Nel riflesso appariamo io, vestito da lui, e lui, vestito forse da me.

Cominciamo a riflettere sull’attribuzione d’identità e intenzioni e concludiamo che le cose “tipiche” devo cercarle nell’altra metà. Qui trovo solo moda euro-nippo-americana. Occidentale ma non proprio o non solo. Insomma, diversa. Arrivo a Monastir, sud Tunisia. Albergo, vestito bianco e papalina. Giro il centro della città. Che cambio rispetto al mattino. Tutti i taxi liberi mi puntavano, me in giacca e cravatta a sudare nel caldo. Ormai conscio della religiosità conferitami dalla papalina, vesto uno sguardo truce che nel fondo mi piace e diverte. Nel Suq qualche riverenza e, da parte mia, secchi segni d’improbabile intesa. Nei giorni precedenti poi ho perfezionato l’abbigliamento con dei sandali tipici. Il sole ha completato l’opera.

Fedele al personaggio mi dirigo alla Moschea. Una bellissima piazza ne segna l’accesso. Fa caldo. Fame e sete. Un’occhiata da fuori, poi in albergo a preparare l’intervento. Son venuto fin qui a parlare di evoluzione, cervello, mente, linguaggio e coscienza, penso stupito dal solo pensarlo. Perso dietro a questi pensieri, non m’accorgo: qualcuno mi chiama. Proprio me. Una biondo-rossiccia, tratti da nord europea in pensione, mi si fa da presso. Mi parla l’inglese dedicato a chi si presume non possa capirlo. Una foto?! Picture, dice sollevando la macchinetta digitale. A me!? Fingo di non comprendere e bofonchio qualcosa. Cerca un tipico rappresentante della cultura tunisina da fotografare per mostrarlo al rientro. Faccio il burbero riportato alla ragione. In posa. Cheese allo scatto. Ma tu pensa – penso – impresso in una pellicola che, per mani dublinesi, dirà: l’essenza tunisina esiste ancora, look here, do you mean? Yeah, I mean but I don’t understand. Magari il fotografo l’espone pure in bacheca: A typical Tunisian man. Vado prima che m’offra una mancia. Mi volto. Ancora saluta. Ringrazia e sorride.

È quasi ora di cena. Nella hall m’avvisano: il rettore è venuto per un saluto, lo trovo in sala conferenze. Ci vado dimentico del mio abbigliamento. Del resto l’ufficialità inizia domani, mi giustificherò poi più con lui che con me. In sala conferenze quattro uomini. Due giovani, uno grasso, malvestito, Zenit a tracolla – mi ricorda uno di quei fotografi di paese immancabili ai matrimoni. Il quarto non è troppo elegante, ma è chiaro dalla deferenza degli altri: è il rettore. C’ho avuto a che fare solo via mail. Mi avvicino, faccio per aprir bocca e vengo stoppato. Il rettore si preoccupa e va. Mi divincolo, lo seguo, lo fermo, dico chi sono. Perché sono vestito così? Ancora! Era ovvio che si preoccupasse. Un tale vestito a quel modo avvicinarsi con aria di famiglia. Ma vi pare il caso?

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ph. Carlotti

Tralasciando la drammatica e complessa questione dei CARA e dei CIE e di quanti sono confinati al loro interno, è fatto usuale a quanti vivono nei Paesi ricchi, e camminano per strada, incontrare venditori ambulanti: persone che approdano dagli angoli geo-socio-politico-culturali più disparati del mondo alle strade occidentali. S’affibbiano loro molte etichette, quasi nessuna improntata al rispetto dell’individuo. Vu cumprà, ragazzi di colore, negri fino all’attribuzione etnico-nazionalistica di matrice paternalistica neo-post-coloniale: marocchini, senegalesi. Il punto è che si definiscono ragazzi marocchini gli individui mulatti, senegalesi quelli la cui pigmentazione è più nera: i negri propriamente detti. Problema: non tutti sono marocchini o senegalesi. Io di marocchini o senegalesi ambulanti non ne ho mai conosciuti. Ho conosciuto liberiani, ghanesi, nigeriani, algerini, tunisini e un ex-dipendente del Ministero degli Esteri di Zanzibar. Tutti ben attenti a distinguersi reciprocamente tra loro, pur nella simpatia naturale che sorge fra quanti devono sopravvivere lontani da casa. Non di rado li si scopre laureati nelle discipline da noi più rinomate: individui che, avendo “la pelle del colore giusto” – tanto per citare P. Tabet –, sarebbero da noi e tra noi trattati con altro rispetto. 

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ph. Carlotti

È avvilente capire i motivi per cui le “mie pretese identitarie” sono state rispettate. Tutta questa storia, corroborata da altre via via avvenute negli anni successivi (Grecia, Francia, Spagna, Israele, Marocco, Madagascar, ecc.), mi ha aiutato a comprendere che i concetti di identità, immagine dell’alterità, ecc. sono «concetti lontani dall’esperienza» delle relazioni pratiche tra individui. Adatti a discussioni accademiche, o chiacchiere da caffè, ma improbabili quando si agisce secondo senso comune, o con quelli che H. Kohut chiama concetti vicini all’esperienza. Ovvero quasi sempre. Normalmente, diamo ai nostri interattori “informazioni estetiche” – istruzioni – che devono essere interpretate per decidere come comportarsi. Quando nel Suq mi capitava di dire “sono italiano”, cosa accadeva? Che qualcuno capisse “lontano dall’esperienza” la mia italianità di sardo? Oppure il mio essere italiano, significava decodificare “Cittadino del Primo Mondo, lato Europeo, comportatevi conformemente a questa istruzione: Primo Mondo, Europa, Più soldi, Più diritti, Approfittare per riprenderci quel che ci devono”? Forse nelle normali interazioni quotidiane non c’è tempo e, probabilmente, interesse nel e per formarsi “concetti lontani dall’esperienza” sull’altro e, di riflesso, sul sé. C’è solo spazio sufficiente ad attivare reticoli di pre-giudizi che troppo raramente attivano una retroazione, un circolo di ridefinizione gadameriano in base a quanto l’altro ci dice di sé e, per estensione, di noi. 

Zone di cont(r)atto

Secondo M. L. Pratt (1992) una zona di contatto

«è un tentativo di evocare la compresenza spaziale e temporale di soggetti in precedenza separati da iati geografici e storici, e le cui traiettorie ora si intersecano. Usando il termine “contatto”, miro a mettere in primo piano le dimensioni interattive, improvvisate d’incontri coloniali così facilmente ignorate o soppresse da resoconti diffusionistici di conquista e dominazione. Una prospettiva “di contatto” evidenzia come i soggetti siano definiti dalle relazioni reciproche e all’interno di queste. [Essa pone l’accento su] compresenza, interazione, pratiche e intendimenti interconnessi, spesso nell’ambito di relazioni di potere radicalmente asimmetriche» (Clifford, 1997: 238).

Il concetto richiama, sotto certi aspetti, quello di allocronia di J. Fabian ( 2000): strategia retorica di molta etnografia consistente nell’eludere la coevità della relazione interattiva tra soggetti storici, obliterando, come fosse insostanziale o neutra, la cornice istituzionale, politica e storicamente umana entro cui s’inscrive l’incontro o attraversamento. L’esperienza tunisina, e le connesse riflessioni, scopre un altro aspetto della questione: la contrattazione d’identità. Quest’aspetto è stato intuito da Clifford (1997), che ricorre al termine di negoziazione. Concetto che, a mio avviso, non esaurisce lo spazio processuale implicato in molti incontri postcoloniali (mi rifersico alla definizione di A. Loomba; 2000). Non ne rivela appieno le dinamiche di potere e le modalità strategiche di reciproca definizione. Più precisamente non sussume l’intera gamma di asimmetrie.

In ogni relazione i soggetti devono negoziare una posizione relazionale. È fatto non solo necessario ma, entro certi limiti, tecnico. Ciò che tale concezione non coglie è la sottigliezza qualitativa delle modalità di posizionamento. Il termine “negoziare” tende ad indicare che ambedue le fazioni in gioco hanno poteri e/o risorse cui ricorrere nel posizionamento, tali da non permettere una netta distinzione di dominio. Si negozia da reciproche posizioni di forza, e la rottura d’un negoziato è un potenziale danno per ambo le parti. Il contrattare, invece, implica un’asimmetria più definita, una relazione verticale più accentuata. Altro aspetto: la contrattazione impone la presenza di margini più saldamente definiti e, in qualche modo, prestabiliti; il negoziato non riconosce margini preesistenti, si fa per stabilire margini accettabili.

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ph. Carlotti

Tornando all’esperienza tunisina, l’attra- versamento del Suq mi ha portato a riflettere su quella che, con Geertz, potremmo chiamare «teatralità dei comportamenti». La vera contrattazione nell’area turisti non è economica in senso stretto (soldi vs. merce), ma sancisce i termini relazionali di un’identità in larga misura imposta dall’immagine e dalle aspettative dei turisti. Il tipico non è il realmente tipico, è piuttosto ciò che soddisfa gli orizzonti d’attesa imposti (e presunti) dall’industria del turismo neocoloniale. L’identità, anche ma non solo estetica, si muove entro i limiti stabiliti dal folcklorico visto dal di fuori. Una rappresentazione ad usum di chi passa, realizzata da chi sta. La vera negoziazione è quella economica in senso stretto, ovvero l’acquisto dell’oggetto tradizionale o tipico. Entrare in un negozio tipico è entrare in un negoziato. 250 dinari per un caffettano è l’equivalente di un mese di stipendio di un’operaia. Ma non è il “prezzo reale”. Non è neppure quanto, normalmente, il mercante s’aspetta d’ottenere. È una base negoziale. Una proposta che aspetta una controproposta antipodica. L’inizio di una negoziazione di posizioni, dove il vantaggio è reciproco e la ricerca del margine dialettica. Non è una contrattazione strictu sensu. La cosa è particolarmente rilevante se si opera un confronto coi negozi non tipici: prezzi regolarmente affissi e nessun margine negoziale.

Vari dubbi m’hanno accompagnato nel Suq. Perché queste persone si vestono con quegli abiti? Che significa per loro vestire così? Se vestissero in altro modo che comportamenti sarebbero loro concessi dai turisti? Cosa accade quando tornano a casa o non occupano la posizione in negozio? Vestono comunque quegli abiti, oppure sono meno tipici? Contrattare l’identità è forse ciò che consente loro di negoziare teatralmente gli scambi economici? I prezzi della sezione turisti includono la teatralità dell’interazione con un mercante tipico? Un turista che dovesse trovare un negozio tipico gestito da un tunisino occidentalizzato accetterebbe una negoziazione economica, eviterebbe il negozio oppure sentirebbe che le regole del gioco sono venute meno?

Ricordando un passo di Geertz (1988), mi son chiesto se il mio attraversamento del Suq sia stato una partecipazione ad una rappresentazione pubblica e se il mio vestire, la mia semiotizzazione, abbiano divelto la distanza estetica provocando la scomparsa dell’ethos accettato, più o meno scientemente, dagli attori dell’incontro. Forse la mia presenza d’occidentale che attraversa a metà la relazione, ha avuto l’effetto di sfasciare il triangolo tra rappresentazione pubblica, distanza sociale garantita dal rispetto dei ruoli e vera personalità degli individui, chiamando fuori gli uomini da dietro le maschere.

«Le rappresentazioni sono fatti sociali», scrive l’antropologo P. Rabinow (1998), volendolo orwellianamente parafrasare e, così, (soc)chiudere questo tavolo di discussione: “certe” rappresentazioni sociali della realtà sono o paiono essere però “più uguali” di altre…

Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017 
Riferimenti bibliografici
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Fabietti, Ugo e Matera, Vincenzo
Memorie e identità, 1999, Roma, Meltemi
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Marcello Carlotti, antropologo culturale i cui interessi scientifici riguardano le origini del linguaggio, le neuroscienze, e più ampiamente le scienze cognitive e la filosofia della mente. Dal 2010 ha iniziato a condurre ricerche attraverso la documentazione video e fotografica. Ha realizzato, tra l’altro, un lavoro di antropologia visuale sul Madagascar. Si batte perché il titolo di antropologo sia riconosciuto sotto il profilo professionale.

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