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Vicende e drammi di tre casati siciliani o l’amaro “caso” della baronessa di Carini

Chiostro Monastero S. Benet da Barges   e

Chiostro Monastero S. Benet da Barges

di Maria Russo 

Uno splendido e nobile maniero che domina la città di Carini, già menzionato dal geografo arabo Idrisi nel Libro di Ruggero, redatto nella metà del XII secolo, ci porta oggi a conoscere o/e ad approfondire le origini e la storia delle famiglie che per secoli sono state signori del feudo. Oggi il castello rivive nella sua bellezza architettonica, le cui vestigia, oggetto di numerose trasformazioni secondo l’evoluzione storico-culturale ed economica nel corso dei secoli, riconducono alla presenza nobiliare della famiglia La Grua-Talamanca giunta in Sicilia nel Medioevo.

Si tratta di un sito architettonico imponente, fulcro del terzo agglomerato urbano di Carini (la terza Hyccara), un grande contenitore che ha visto per secoli l’avvicendarsi di importanti avvenimenti politici, militari, e residenziali. Le famiglie La Grua, Talamanca e Vernagallo, hanno avuto un ruolo determinante nelle dinamiche politico-militari e commerciali dell’area aragonese-spagnola posta al centro del Mediterraneo, grazie alla politica lungimirante dei sovrani del regno aragonese. Queste tre famiglie, pur sostanzialmente diverse tra loro per l’humus di provenienza, hanno in comune il loro trasferimento in Sicilia dalla loro terra natia, per realizzare ambizioni e consolidare la propria ricchezza economica.

I La Grua appartenevano alla florida classe dei mercanti pisani. I Vernagalli  toscani anch’essi, provenivano invece dal ceto aristocratico pisano, mentre i Talamanca vantavano l’appartenenza alla grande nobiltà aragonese. A questi tre casati corrispondevano due realtà geopolitiche diverse: la colta e ricca repubblica di Pisa con la sua prestigiosa marineria e i grandi sbocchi commerciali, bancari-finanziari ed internazionali; e la confederazione catalano-aragonese in vigorosa e continua espansione. Queste due realtà condividevano il loro cammino, seppure con diverse finalità, nello scenario del Mediterraneo, trovando nella Sicilia medievale la loro fruttuosa collocazione, come nuovo luogo di partenza e di ulteriore crescita e sviluppo.

I Talamanca, provenivano da Manresa, comune capoluogo della comarca del Bages, e Talamanca, siti che distano 22 km l’uno dall’altro, ubicati nella regione del Bages, appartenenti alla provincia di Barcellona in Catalogna. Le prime notizie di questo casato risalgono al 967, anno in cui è attestata l’esistenza di un fortilizio, che poi prese il nome dei Talamanca. L’avere assunto la città e il castello il nome di Talamanca, signori che ne avevano la proprietà, era in uso nel Medioevo. Spesso avveniva infatti che la famiglia prendeva il nome dal sito o, viceversa, attribuiva al luogo il nominativo di cui era portatrice. A Talamanca era presente un castello di origine romanica che nel XVIII secolo veniva smantellato per ordine di Filippo V. Il dominio del territorio prima della donazione, veniva esercitato dal casato dei Folch-Cardona. Altro riferimento al maniero lo si trova nel testamento sacramentale del visconte di Cardona Ramon Folch I, effettuato nel 1086.

Successivamente, nel 1121, appare come signore del castello e primo componente della famiglia un Bernat o Guillelm de Talamanca, sposato con una Dulce de Santa Coloma. Per quanto concerne il castello a Talamanca si sostiene che i Talamanca lo avevano acquistato per utilizzarlo come abitazione estiva, e sul posto avevano assegnato dei contadini per i lavori necessari all’agricoltura. A Manresa il casato aveva la sede e, ancora oggi, esiste una via, calle Talamanca, intestata al loro nome. Nella chiesa del Carmine di Manresa vi erano sepolti alcuni membri della famiglia che detenevano anche il patronato della stessa chiesa, ossia quella di Santa Maria in Talamanca.

particolare capitello sud-ovest del chiostro in cui si trova scritto “Todo el Claustro se ha hech o Gracias a Bernat de Talamanca”- Catalogna-Spagna

particolare capitello sud-ovest del chiostro in cui si trova scritto “Todo el Claustro se ha hech o Gracias a Bernat de Talamanca”- Catalogna-Spagna

Nel monastero di San Benet de Bages, vi è conservato il sarcofago di un Bernat II del 1233, il quale risultava essere un mecenate dello stesso edificio religioso, in quanto pare che nel 1125 il monastero sia stato leso da un attacco di Mori e che in seguito fu fatta una ricostruzione finanziata da nobili locali che chiesero in cambio il diritto di essere sepolti nella loro terra consacrata, fra questi il nostro Bernat Talamanca. Su un capitello a sud-ovest del chiostro, dove è scolpita una Madonna che tiene un bambino in braccio, si legge infatti l’iscrizione «Todo el claustro se ha hecho Gracias a Bernat de Talamanca».

Nel succedersi di tre o quattro generazioni, si trova un Berenguer che nel 1288 risultava proprietario del castello di Talamanca . Quest’ultimo, scomparso intorno al 1325, si era sposato con una Blanca o Blanquina. La consorte in quel periodo gli faceva erigere un grande sarcofago di stile gotico presso la chiesa di Santa Maria a Talamanca, eretta nel XII secolo. A Beringuer seguivano un Bernat, un Ramon negli anni 1365-1370 e poi un Andrea sposato con una Joan Aymerich nel 1406, con il quale si estinguono in Spagna i Talamanca. Lo stesso Ramon nel 1397 otteneva da Martino l’Umano (Il vecchio) l’incarico di governatore dell’isola di Ibiza, dove la spiaggia del luogo, ancora oggi, porta il nome di “Platija de Talamanca”. Dopo quest’ultimo Talamanca la signoria del castello transitava nella giurisdizione feudale della nobile famiglia catalana dei Planella la quale possedeva i castelli di Castellnou e di Granera.

Sarcofago di Bernat II  Talamanca  † 1233  Mecenate del Monastero di San Benet de Bages Talamanca-Spagna

Sarcofago di Bernat II Talamanca † 1233
Mecenate del Monastero di San Benet de Bages Talamanca-Spagna

Ricomponendo le notizie riportate, si può pensare che Giliberto e Oberto o Uberto Talamanca, padre e figlio, siano venuti in Sicilia nel 1282 al seguito di re Pietro II d’Aragona e potevano essere rispettivamente cugino e nipote di quel Berenguer deceduto nel 1325. Analizzando i riscontri degli studiosi e le stesse riproduzioni fotografiche riguardanti il castello, l’interno della Chiesa di Santa Maria e il Monastero di San Benet de Bages, tutti allocati a Talamanca, e osservando la struttura feudale aragonese del tempo, si hanno dei riferimenti significativi, per i quali possiamo affermare che il lignaggio dei Talamanca era molto prestigioso e, verosimilmente, poteva fare parte di quella schiera dei “Ricos Hombres” che formava la ristretta cerchia della “nobiltà di spada” presente nella penisola iberica, motore decisivo, della reconquista spagnola dal dominio arabo e che avevano il primato nella gerarchia aristocratica in qualità di Magnati, ossia ricchi e potenti vassalli del re, possidenti di terreni in piena proprietà piuttosto che in feudo.

Sarcofago Berenguer 1325  Chiesa S.ta Maria de Talamanca, Catalogna, Spagna

Sarcofago Berenguer 1325 Chiesa S.ta Maria de Talamanca, Catalogna, Spagna

Emerge inoltre, che la cittadina di Talamanca ha come logo dell’Alcadia il contrassegno dei Talamanca, lo stesso che era di pertinenza della famiglia insediatasi in Sicilia. Lo stemma, che riporta il losangato in oro e azzurro, lo si può osservare nel frontale del sarcofago che contiene le spoglie di Berenguer de Talamanca posto dentro la chiesa di Santa Maria. L’avello riporta sul coperchio la figura dormiente di un guerriero, un cavaliere vestito secondo la foggia militare del tempo; il capo poggia su un guanciale adornato; il corpo indossa l’armatura a maglie di ferro che copre anche la testa, mentre una lunga spada è posta verticalmente sopra la figura. Ai piedi del Talamanca si vedono i resti di un cane, simbolo ricorrente della fedeltà, che riposa accovacciato. Nella base del sarcofago, al centro dei sei scudi allineati che riportano le insegne nobiliari del casato, si nota l’iscrizione funebre relativa a Berenguer, e possiamo sostenere che i Talamanca appartenevano certamente alla casa aragonese-catalana dell’ordine cavalleresco di San Lazzaro.

Nella stessa chiesa di Santa Maria si trova una stele funeraria che riporta incisa la data 1099. Si può pensare che un avo di Berenguer abbia partecipato il 15 luglio di quell’anno alla conquista di Gerusalemme effettuata dall’esercito crociato comandato da Goffredo di Buglione per la difesa dei territori dai mori e che la “milizia cristiana” abbia partecipato alle crociate a partire dal 1094, vestendo la divisa e le armi dell’Ordine di San Lazzaro. Quanti aderivano all’Ordine dei Cavalieri di San Lazzaro, così come i Templari e quelli di San Giovanni, necessariamente dovevano appartenere a famiglie nobili. La struttura dell’Ordine era suddivisa in tre reparti: 1) Cavalieriche erano addestrati per la guerra; 2) Frati serventi che apprestavano le cure per gli ammalati e i servizi per i pellegrini; 3) Frati ecclesiastici o Cappellani che curavano le funzioni religiose e amministravano i sacramenti. Il motto dell’Ordine era “Atavis et Armis” (per gli avi e con le armi). Come si evince da una miniatura conservata nel British Museum di Londra che riproduce un Cavaliere in ginocchio con indosso l’armatura a maglie di ferro, lo stendardo dei Cavalieri di San Lazzaro riportava impresse tre croci allineate orizzontalmente, in parte simili a quelle dei Templari e uguali a quelle riscontrate nel sarcofago del cavaliere Berenguer. Pertanto possiamo ipotizzare che nella cittadina, nello stesso castello, poteva essere presente una pertinenza o una qualche struttura di quell’Ordine.

Per comprendere meglio l’importanza e la ricchezza dei Talamanca ricordiamo che lo storico Carlos Gonzales dell’Università di Barcellona, in un articolo apparso nel 2013 [1], oltre a ricordare il prestigio e il peso politico dei Talamanca , descrive l’insediamento in Sicilia della famiglia Planella, poichè i Talamanca si estinsero in Spagna appunto con i Planella nella seconda metà del’400. In Sicilia prosegue il rango nobiliare grazie a Giliberto e Oberto Talamanca, padre e figlio, discendenti diretti di Berenguer deceduto nel 1325, cavalieri al seguito di Pietro II d’ Aragona, quando quesii si insediò nel Regno di Sicilia nel 1282. Fin da subito Pietro II iniziò a riorganizzare le strutture amministrative, giudiziarie e militari dell’isola, assegnando i vari incarichi agli uomini di fiducia al suo seguito, soprattutto catalani e iberici ma anche siciliani e italiani.

Cavaliere San Lazzaro con armatura      Stele funeraria sec. XI Chiesa S.ta Maria de Talamanca     in  maglia di ferro- sec. XII              Chiesa S.M. de Talamanca   Catalogna- Spagna                            “British Museum” di Londra

Cavaliere San Lazzaro con armatura maglia di ferro, sec. XII,  “British Museum” di Londra

Nell’isola fra i catalani si insediarono così famiglie come gli Alagona, i Centelles, i Moncada, i Valguarnera, ecc. Giliberto rivestì le cariche di Capitano di giustizia e baiuolo nel 1302 e nel 1303; regnando Giacomo II ottenne diversi feudi in val di Noto (tra i quali Ambuali, san Benedetto e Ambigalli, territori tra Agrigento e Caltanissetta). Oberto e Giliberto erano rispettivamente il nonno e il padre di Gispert Talamanca che nel 1403 era camerlengo di Martino I e consigliere di stato. Egli sposò Ilaria La Grua, con il consenso del re il quale partecipò alla cerimonia nuziale e gli diede in dono 700 onze d’oro. Martino I gli concesse la terra e il titolo di signore di Misilmeri, signore di Vicari e castellano di Termini.

I Talamanca dunque si posero ad un livello diverso, rispetto ai La Grua in Sicilia, che giunsero successivamente nell’isola, identificati come de Grua o La Grua. Il loro arrivo dovette verificarsi nei primi tre decenni del ‘300 allocando le loro dimore e commerci a Palermo ma attivando produzioni agricole a Heraclia, ossia Terranova, oggi pianura di Gela. In quegli anni arrivavano in Sicilia: Etto con i figli Colo, Bachomeo, Giovanni e Paolo [2].

Il testamento di Colo de Grua, che abbiamo ritrovato depositato presso l’archivio di stato di Pisa [3], porta la data del 26 giugno 1349; egli morì a Palermo e secondo le disposizioni rogate, venne sepolto nella chiesa di San Nicolò Lo Reale, a cui il Grua doveva essere particolarmente legato. Lo stesso atto testamentario prevedeva, altresì, che il suo corpo dovesse essere sepolto con indosso l’abito dell’Ordine degli Agostiniani. Colo lasciava come erede Bertino I che faceva ingresso nel patriziato palermitano sposando Isabella Imperatore ed egli stesso nel 1336 diveniva capitano di giustizia a Palermo.

Pergamena :Indizione 20 aprile 1397 in cui  si accerta la venuta in Palermo del  vicerè Ubertino La Grua  onde corroborare l’università nella fedeltà del Re Martino-Archivio storico comunale Palermo

Pergamena :Indizione 20 aprile 1397 in cui si accerta la venuta in Palermo del vicerè Ubertino La Grua onde corroborare l’università nella fedeltà del Re Martino-Archivio storico comunale Palermo

Il figlio Ubertino La Grua Imperatore II , nipote di Colo, realizzò un rapido processo di ascesa sociale che avrebbe portato i membri della sua casata a far parte dell’élite politica ed economica della Sicilia, infeudandosi alla fine del Trecento (1396) e ponendosi al servizio della politica aragonese. La figura di Ubertino La Grua si inserisce nel quadro di un profondo cambiamento politico e sociale che avvenne in Sicilia sul finire del XIV secolo, quando nel 1392 l’arrivo dei Martini nell’isola segnò la fine del potere chiaramontano ed il passaggio ad una nuova era, con l’instaurarsi di un rinnovato ceto dirigente che coinvolse nuove figure dell’ humus sociale di Palermo.

Ubertino fu un grande alleato della politica aragonese e si schierò sempre a fianco dei sovrani; uomo fedele e onesto tanto da meritarsi notevoli incarichi istituzionali e grandi ricompense. Lo ritroviamo con autorevoli incarichi fino a diventare maestro razionale del regno, amministratore generale in temporalibus della diocesi di Monreale, ben remunerato, e con la possibilità di dispensare diritti e favori tra rapporti feudali ed economici del baronaggio. Dopo aver rifiutato terre e castelli  accettò successivamente la concessione della baronia di Carini da parte del re Martino I il Giovane a Catania [4].

La concessione, riportata in più documenti d’archivio è quella del Castello e della Terra di Carini confiscati al miles ribelle Riccardo Abbate, di parte chiaramontana. Da questo importante documento, si evince come re Martino per premiare la sua fedeltà, da tempo aveva elargito nei suoi confronti diversi privilegi. Gli offrì infatti il 13 dicembre 1392 [5] la terra (casale) e il castello (castrum) di Palagonia confiscati in Val di Noto ed, in seguito ad un ulteriore rifiuto, gli promise prima il castello di Calatafimi e poi quello di Castellammare del Golfo, ed ancora quello di Cefala Diana e  infine, il castello e la terra di Carini in perpetuum. Ubertino acquisì quest’ultimo con tutti i diritti giuridici, politici ed economici compresa la cosiddetta “terra di Carini”, come il feudo viene chiamato nel Diploma di concessione [6], «insieme alle gabelle, ai diritti doganali, alla tonnara chiamata dell’Ursa, con l’annessa pescheria, congiuntamente ad edifici, fortilizi, territori, monti, pianure, acque, acquedotti, corsi d’acqua, pescagione di mare, di fiume, di stagno, cacciagione, pascoli, prati, erbatico, terratico, stazzi, iacia, boschi, vigne, campi, giardini, mulini».

Inoltre i Martini diedero ad Ubertino la licenza di costruire uno scaricatoio ed un porto nella marina di Carini, nel luogo chiamato Sanctu Cathaldi, con punto di approdo. Era questo un emporio normanno situato in prossimità del collegamento viario della via Valeria tra Hykkara e Trapani, con un mulino ad acqua alimentato dal torrente Renda-Nocella, con fornace per produrre oggetti in terracotta, stalla e chiesa rurale. Ubertino allocò lì un caricatore, affinché le navi e i vascelli potessero caricare e scaricare vettovaglie ed altre merci, pagando il debito diritto alla curia regia. La Terra di Carini era al tempo più estesa dell’attuale territorio comunale, comprendeva infatti anche Terrasini, l’attuale Capaci (ex feudo Zarcante) e il comune di Torretta ( Falconieri). Terra ambita in quanto fertile e ricca, vicino alla capitale, allo scaricatore e al porto (S. Cataldo e Palermo),.godeva di una ottima posizione sia dal punto di vista logistico che politico.

Stemma casato La Grua Talamanca- Sec. XIX

Stemma casato La Grua Talamanca- Sec. XIX

Ubertino II, stratega divenuto un ottimo politico, stabilì la sua dimora a Palermo vicino ai palazzi della nobiltà e come tutti i pisani, aveva casa nel quartiere della Kalsa [7]. Con la complicità del sovrano fece contrarre matrimonio alla propria figlia Ilaria, come si è detto, con Gispert Talamanca, per inserirsi a pieno titolo nella nobiltà siciliana e fare parte della cosiddetta “nobiltà di toga”. Egli si attivò per potere realizzare lo stemma nobiliare per il proprio casato: una gru con la pietra nel piede destro, simbolo della vigilanza, su sfondo merlato d’oro e di rosso. Egli doveva avere particolari doti in materia  di amministrazione regia (una sorta di ministro delle finanze e dell’economia del tempo), e apparteneva al ristretto gruppo dei consiglieri del re Martino. Esperto in materie giuridiche, era tenuto in grande considerazione dal sovrano aragonese che lo riteneva un letrados.

Dal matrimonio di Ilaria La Grua, figlia di Ubertino II, con Gispert (per un dotale di 800 onze, metà in contanti e metà in corredo, oltre alla baronia terra e castello di Carini [8]), nacque Ubertino III La Grua detto Bertinello. Questi nel suo testamento del 20 marzo 1410 costituì un fedecommesso agnetizio primogeniale per obbligare il genero Gispert Talamanca ad anteporre il cognome La Grua al suo, come si evince dallo stemma bipartito dei La Grua, che inquarta quello dei Talamanca , e lasciò erede universale il nipote Bertinello. Umbertino III La Grua Talamanca fece ristrutturare il castello al cui  ridosso sorgeva la chiesa di San Giuliano. Nella tomba di Ubertino II nella chiesa dei Frati Minori Conventuali di San Francesco a Palermo si leggeva: “Ubertinus La Grua Miles Baro Careni Maestri Giustizieri per la grazia di Dio Vicerè prorex vallis Mazariae obiit 1410[9]. I La Grua furono la prima famiglia pisana che agli inizi del ‘400 chiesero ed ottennero la prima sepoltura presso la chiesa;. ma l’esistenza di questa sepoltura fu breve. Alla fine del XV secolo (1470-75), accanto alla chiesa di S. Maria di Gesù, fu eretta una cappella gentilizia, che ancora oggi ricorda la famiglia. In questo periodo i La Grua erano «all’apice della loro fortuna economica»[10] grazie ai trappeti impiantati nella piana di Carini e Misilmeri e anche alla coltivazione e lavorazione del mirto che serviva a conciare le pelli. Nei loro feudi fruivano dell’esenzione del pagamento delle tratte, che invece gravavano per quanti esportavano frumento o altre derrate fuori dall’isola.

Per quanto concerne il casato dei Vernagallo possiamo dire che alcuni dei Vernagalli, che in seguito assumevano il cognome Vernagallo, arrivarono in Sicilia nel primo decennio del ‘300. Appartenevano all’aristocrazia pisana più ricca e importante di Pisa, originari della famiglia De Lei o dei Casalei dedita ai commerci e agli affari economici. La loro prima apparizione quasi certamente era collegata all’esercizio del grande commercio del frumento e della canna da zucchero e al fatto che Pisa era stata assoggettata a Firenze a seguito di conquista militare. Ciò pesava al vecchio ceto dirigente che vide ridimensionato il suo potere. Stimolati quindi da interessi economici nel Mediterraneo avvenne lo spostamento pisano verso la Sicilia, insieme ad altre famiglie, quali gli Agliata, i Settimo, i Gaetani, gli Aiutamicristo, i Galletti, i Russo, i Campo, e tante altre. Un Chino Vernagallo nel 1328-29 appariva come giudice non giurista (“Ydiota”) per il quartiere della Kalsa a Palermo e come esponente del ceto delle professioni e dell’imprenditoria che controllavano l’economia urbana. Pare che intorno al 1402 il ceppo si stesse estinguendo in quanto unico discendente maschio era Messer Piero di Betto; ma alla sua morte nel 1407 rimasero eredi i suoi 5 figli che ripopolarono il lignaggio con quattro nuovi nuclei familiari presenti sia a Pisa che a Palermo.

Atto di concessione titolo di Principe a Don Vincenzo La Grua Talamanca  e Tocco Manriquez Del Bosco 19-09-1622- Archivio Simancas -Spagna

Atto di concessione titolo di Principe a Don Vincenzo La Grua Talamanca e Tocco Manriquez Del Bosco 19-09-1622- Archivio Simancas -Spagna

Jacopo, a seguito di un bando di confino emanato in Toscana, venne in Sicilia nel 1408 e qui rimase fino alla sua morte gestendo un banco privato a Palermo. Lo raggiunse ben presto il fratello Antonio. La definitiva permanenza nella capitale avveniva nel 1413 allorquando Antonio e Jacopo, figli di Betto Vernagalli diventarono cittadini di Palermo con attività imprenditoriale e mercantile con trappeti per la cannamele. Successivamente raggiunsero la Sicilia anche Andrea e Francesco, i cui figli nel corso degli anni successivi incominciarono a intrattenere rapporti con i banchi e la tesoreria aragonese e li ritroviamo in uomini d’affari e tra i principali banchi privati dell’isola nella seconda metà del ‘400.

All’inizio del ‘500 i Vernagallo, come noti banchieri e mercanti, erano annoverati tra le famiglie patrizie palermitane ed abitavano nella ruga pisanorum nella Kalsa a Palermo in via del Lauro, attuale via Alloro. Importavano ed esportavano beni da e per la Sicilia: tonnina, formaggi, zucchero accumulando notevoli somme di denaro provenienti dai commerci e dai banchi privati. Anche a Siracusa avevano un banco privato, e ricoprivano al contempo  cariche amministrative nella capitale; avevano inoltre la direzione dell’Ospedale Grande e Nuovo e l’Opera Pia di Andrea Navarro. Ritroviamo nel 1546 un pretore, Ludovico, figlio di Mariano. Alcuni esponenti furono a capo della Compagnia dei Bianchi; e istituirono la tavola di Palermo nel 1553 al tempo di Carlo V, insieme alla famiglia Bologna . Divisi in due rami i Diesi e gli Sparacia, quest’ultimo nel corso del ‘500 acquistava dall’arcivescovo di Monreale il feudo di Montelepre. Nel ‘600 il ramo maschile si estinse.

Le vicende familiari e il cursus honorum dei tre casati, con gli anni, percorsero strade diverse. L’ambiente politico che vedeva come attori i La Grua e i Talamanca, già uniti in un unico casato, restava un po’ marginale per i Vernagallo. Essi, nonostante lo sviluppo dell’organizzazione bancaria nella Sicilia del Quattrocento e del Cinquecento, non parteciparono alla grande politica dove spiccavano i nomi di potenti famiglie come i Barresi, i Branciforti, i Lanza, i Moncada, i Santapau, i Valguarnera per citare quelle tra le più qualificate.

Il casato dei La Grua Talamanca, secondo le strategie del tempo, mantenne la sua posizione di prestigio grazie alla politica dei matrimoni “fruttuosi”, matrimoni alla “greca” come in uso nel patriziato, in cui le donne di famiglia giocarono, come di consuetudine nella Sicilia feudale, un ruolo intrinseco nella politica e nell’economia del casato. Essi si imparentarono dunque con i Castagna, i Ventimiglia Bonifacio e gli Abatellis, accrescendo sempre più i loro feudi e cercando di risollevare le precarie sorti finanziarie che minacciavano la famiglia, nella seconda metà del XV secolo. Intanto nel 1445 Gilberto La Grua Talamanca Castagna otteneva dal re Alfonso la concessione del mero e misto imperio con delegazione dell’esercizio di tutti i poteri, politico, amministrativo, fiscale, militare e giudiziario, sui feudi di Carini, Misilmeri, Vicari e Monforte (feudo avuto da parte della moglie Margherita Ventimiglia Bonifacio).

Castello La Grua Talamanca-Carini (PA)

Castello La Grua Talamanca-Carini (PA)

Continuava nel tempo l’attività legata al commercio e all’imprenditoria agricola, basata soprattutto sulla coltura della cannamele, che però nel corso del XVI secolo subiva una forte crisi dovuta alle produzioni che arrivavano dall’America e dall’Africa dove la manodopera degli indios era gratuita a fronte di un trappeto siciliano che occupava tantissimi operai, pagati dai proprietari. Spesso, poiché tanta era la richiesta di manodopera, il re si trovò così a concedere ai lavoratori l’impunità criminale e civile per 12 mesi, ossia i conti della giustizia venivano sospesi per il periodo di lavoro. Questa crisi colpì anche la baronia di Carini, che cercò di risollevare le sorti favorendo unioni matrimoniali “pilotate”. In questo modo i La Grua Talamanca si imparentarono con i Mastroantonio, gli Aiutamicristo, i Tocco e Manriquez, i Lanza ed altre ancora, e proprio in questo periodo Giovan Vincenzo II La Grua Talamanca Tocco e Manriquez, si ridusse sommerso da debiti che cercò di ottemperare con la vendita di feudi e concessioni in enfiteusi.

atrio castello La  Grua Talamanca di Carini

Atrio castello La Grua Talamanca di Carini

La figura di quest’uomo è complessa e singolare; un “barone illuminato” lo definisce il Filingeri [11], in quanto pur trovandosi in situazioni economiche devastanti, a differenza di altri feudatari del ‘500, reinvestiva i profitti nella valorizzazione della stessa baronia con interventi in campo agricolo-industriale e nel settore dell’urbanistica più avanzata di Carini. A lui si devono la fondazione dei maggiori istituti monastici della baronia e il rimodernamento del castello secondo il gusto rinascimentale. Nel 1562 il barone Vincenzo, nonostante il collasso economico (già nel 1551 la baronia era stata posta sotto sequestro [12]), ampliava “Villa Belvedere”, in contrada Regalenci, per avere una dignitosa residenza estiva; un complesso di eleganti strutture che comprendevano il maestoso castello, la foresteria, con annessa cappella San Pietro e la hosteria, destinata ad alloggiare la servitù.

In questo contesto in cui andava maturando, per le eccessive spese, una progressiva crisi economica di Vincenzo La Grua, si collocano le nozze del barone di Carini con Laura Lanza di Trabia, figlia di Cesare Lanza e di Lucrezia Gaetani, celebrate il 21 settembre del 1543. In quell’occasione la sposa portò in dote ben 4400 onze [13], oltre alla biancheria e a gioielli di grande valore; un patrimonio dotale che contrastò con la situazione economica del barone Cesare Lanza in quegli anni a sua volta particolarmente indebitato per l’acquisto della baronia di Mussomeli ma anche per la stessa straordinaria dote data per il matrimonio della figlia Giovanna con Nicolò Branciforte nel 1550; senza considerare che in passato aveva finanziato una flotta per la spedizione di Algeri al tempo di Carlo V, spese affrontate peraltro in una situazione politica non favorevole per le casse dell’aristocrazia siciliana. Il viceré duca di Medinaceli, uomo di rigore antinobiliare in qualità di tutore degli interessi della Corona, contrastava fortemente gli sprechi, le velleità e il dispotismo dei titolati siciliani, ricorrendo ad ulteriori tasse; peraltro il Parlamento siciliano per sopperire alle spese dello Stato e provvedere alla difesa delle incursioni barbaresche veniva costretto a deliberare imposte sul commercio sempre più insostenibili.

In questa situazione di crisi economica che pesò contemporaneamente su Vincenzo La Grua e su Cesare Lanza si innestano le vicende dell’amaro caso della baronessa di Carini. Il barone Vincenzo, personaggio libertino poco attento agli affari, attratto dalla vita mondana della città di Palermo, trascurando la pur bella moglie, creò le condizioni perché questa cedesse alla passione amorosa nata con Ludovico Vernagallo, cugino del barone Vincenzo per parte paterna, un personaggio appartenente a quella ricca famiglia di banchieri nei confronti dei quali sia Vincenzo La Grua che Cesare Lanza si trovavano in una posizione fortemente debitoria a causa di prestiti ottenuti per far fronte alle ingenti spese effettuate [14].

Fu così che il rapporto d’amore fra Laura e Ludovico, alimentato da frequenti incontri [15] dei quali pure cominciavano ad essere al corrente sia Vincenzo La Grua e Cesare Lanza, si prestò ad una cinica strategia: occorreva attendere il momento opportuno per cogliere in flagrante i due amanti eliminando insieme a Laura anche Ludovico. Questo gesto avrebbe consentito di risolvere la situazione debitoria in particolare di Cesare Lanza nei confronti del banchiere Vernagallo coprendo il misfatto con la scusante del delitto d’onore. La dolorosa vicenda della eliminazione della coppia ci rivela così un Cesare Lanza crudele padre dispotico ed autoritario pronto a risolvere, secondo l’esempio del padre Blasco, l’errore della figlia adultera ma al tempo stesso a confermare un’alleanza con il La Grua Talamanca, prescelta per difendere e incrementare i patrimoni feudali e prevenire la frammentazione del lignaggio. Il barone Vincenzo d’altro canto, succube delle sue stesse condizioni sociali, ben cosciente di anni di tradimento da parte della moglie, cosa che peraltro era ben conosciuta sia a Carini che a Palermo da molta gente, per risolvere l’angosciosa situazione si lasciò coinvolgere dall’autoritario suocero nel cancellare l’onta di entrambi i casati e risolvere così i loro problemi economici. L’astuto Cesare eseguì materialmente l’uccisione di Ludovico e Laura il 4 dicembre del 1563.

 Atto di morte di Laura Lanza e di Ludovico Vernagalli-4 dicembre 1563 -Archivio Chiesa Maria SS. Assunta di Carini (PA)

Atto di morte di Laura Lanza e di Ludovico Vernagalli-4 dicembre 1563 -Archivio Chiesa Maria SS. Assunta di Carini (PA)

Come asserisce Alberto Varvaro [16], l’omicidio fu il modo prescelto per estinguere il debito, mascherandolo dietro il paravento dell’onore leso. Colui che conosceva la realtà dei fatti e aveva tentato di punire i colpevoli era sicuramente il VI Duca di Medinaceli, Juan de la Cerda, al tempo vicerè di Sicilia. Il Medinaceli subito dopo gli omicidi del 4 dicembre 1563 ed in attesa del relativo processo che si doveva effettuare secondo il rito ex abrupto, sulla base delle risultanze degli accertamenti giudiziari effettuati a Carini dall’avvocato fiscale Pier Andrea Grimaldo, metteva al bando e faceva sequestrare i beni di Cesare Lanza e di Vincenzo La Grua Talamanca, in quanto entrambi colpevoli di gravi delitti, uno per mano propria e l’altro per complicità.

Ma il vicerè Medinaceli non riuscì a celebrare alcun processo, in quanto il Lanza partiva per Madrid per giustificare di fronte al Re Filippo II in persona ottenendo un documento sovrano emanato il 24 ottobre 1564, esecutorio il 14 marzo 1565 a Palermo, che imponeva alle autorità giudiziarie di sospendere ogni azione penale contro di lui [17]. Al contempo il Medinaceli veniva trasferito in altra sede, e risultava sconfitto nella battaglia giuridica con il Supremo Consiglio d’Italia, istituito da Filippo II, che era il massimo organo della monarchia per il governo delle dipendenze italiane.

Trascorso poco tempo, per disposizione della corte regia, sia Cesare che il genero vennero riabilitati e reintegrati nei loro possedimenti [18], il delitto venne considerato d’onore e per la “lex iulia de adulteriis coercendis” archiviato. Cesare Lanza, forte del suo potere feudale e delle sue influenze presso la corte spagnola, riuscì così a fare archiviare il caso. Il popolo, terrorizzato, venne obbligato al silenzio, mentre Vincenzo cercò di cancellare e confondere l’esistenza di questa nobildonna, sposandosi un anno dopo con Ninfa Ruiz. Suocero e genero tornarono in questo modo alla normale vita sociale, cercando di intrecciare sempre nuove ed importanti alleanze politiche ed economiche. La politica ebbe pertanto il sopravvento sulla giustizia, così come sull’applicazione delle leggi prevalsero gli interessi di stato.

Sembra opportuno a questo punto sottolineare la forte personalità di Laura Lanza. Se è vero che la donna e il suo amante, per il vero assolutamente non segreto, affrontarono la loro non facile relazione con una certa disinvoltura, è pure vero che la Lanza, più dello stesso Vernagallo, consapevolmente sapeva di assumersi delle notevoli responsabilità che erano soggette ai rigori delle leggi e della morale del tempo. Proprio in quel contesto è da rivedere la figura reale della “peccatrice” baronessa di Carini, tale da rendere essa più attuale ed umana in contrasto con i disegni e i giuochi egemonici della grande politica siciliana, che dal periodo aragonese e nei secoli successivi vide i La Grua sempre protagonisti, anche quando si verificarono tragiche vicende che ne compromisero l’immagine. Non si può ignorare del resto che i La Grua-Talamanca furono attori non secondari nel creare condizioni favorevoli di crescita sociale e di sviluppo economico per le comunità che erano a loro sottoposte: migliorie nelle opere edilizie e di urbanistica, fondazioni di chiese, conventi e monasteri, abbellimenti delle loro dimore, incrementi e innovazioni nei settori dell’agricoltura e dell’industria che portavano benessere per centinaia di persone.

Cartellone del cantastorie sulla Baronessa di Carini sec. XIX

Cartellone del cantastorie sulla Baronessa di Carini sec. XIX

Il XVII secolo è il periodo in cui casa La Grua riuscì a sollevarsi dalle sue nefaste condizioni economiche; Vincenzo La Grua Talamanca Tocco del Bosco ottenne il titolo di principe, intanto che riusciva ad incrementare “le rendite del 55% da 6.400 onze a 9.940 onze” [19]; egli così divenne un grande mecenate per Carini: ampliò la chiesa Madre, fece costruire la chiesa e il Convento delle suore domenicane di S. V.zo Ferreri, la chiesa e il convento di San Rocco dei frati francescani minori conventuali, la chiesa M.SS. delle Grazie; edificò il palazzo principesco di fronte la cattedrale di Palermo in via Toledo (oggi c.so V. Emanuele), istituì il Monte di Pietà. Successivamente i La Grua si imparentarono con i Crisafi e Bonanni, i Filingeri, i San Filippo, i Branciforti. Stabilitisi nella capitale, ricoprirono ruoli attivi nella politica amministrativa, e per diversi anni ebbero la carica di pretori. Tra i principi più illustri ricordiamo Antonino II Maria La Grua Talamanca e Branciforte, che sposò la nobildonna Caterina Gioeni dei duchi d’Angiò. Gioacchino Di Marzo definisce il marchese di Regalmici“ figura zelante ”, un cavaliere abbastanza noto nella patria per le varie sue imprese. Ad Antonino La Grua Marchese di Regalmici, si devono diverse opere pubbliche. Sostenuto dal vicerè Marco Antonio Colonna, fece costruire una villa fuori dalle mura della città, sul fronte della Marina, villa Giulia, chiamata così in onore della moglie del vicerè; primo impianto urbano a verde pubblico sorto nel 1777-78 su disegno dell’architetto Nicolò Palma, esempio poi di giardino all’italiana con viali, spiazzi, e vasche contenuti in un rigido schema geometrico del quadrato e del cerchio , tale da impressionare persino Goethe. Ma anche il fratello di Antonino II, Michele La Grua Talamanca Branciforti, brillò tra le corti europee. Fu vicerè delle Canarie e cavaliere del Toson d’oro. Nel ‘700 i nostri principi ormai frequentavano sempre meno il castello di Carini, essendo sempre più propensi ad allargare i loro possedimenti nella città di Palermo e impegnati sempre più nella carriera politica e amministrativa della città che risentiva del gusto  neoclassico.

È con l’abolizione dei vincoli feudali in Sicilia, voluta dal primo parlamento elettivo della Costituzione del 1812, e l’istaurarsi di una nuova struttura politico-sociale al fine di agevolare il progresso economico, che il casato La Grua perde la sua identità feudale. Cambiamenti politici, economici e sociali, portano Don Antonio Francesco, nel 1839, a lasciare la Sicilia e con la famiglia a trasferirsi a Parigi. Così il castello di Carini subì un ragionevole degrado a causa dell’abbandono e dell’uso improprio susseguitosi. Nel 1977, per volontà di Huchet Elisabeth Marie Jeanne, vedova di Pierre Renè Marie Cèsar de La Grua e Talamanca di Carini e di suo figlio Rodolphe Philippe Marie Jean Baptiste de La Grua e Talamanca, la Giunta Comunale autorizzava il Sindaco ad accettare la donazione di due terzi del castello da parte dei suoi eredi. Nella donazione, soggetta a vincolo storico-artistico, una postilla dice di «riservare l’uso perpetuo per il Principe Rodolfo e suoi eredi e la disponibilità alienabile di due stanze con relativi servizi in posizione da concordare, ma in ogni caso che guardino il mare». Ma l’ente comunale, volle acquisire il castello in toto, e nell’aprile del 1981 l’amministrazione  acquistò la quota rimanente di un terzo del Castello per  la cifra simbolica di quindici milioni di lire. L’immobile sarebbe stato destinato ad uso culturale, artistico e turistico, qual è oggi nella sua magnifica interezza; sede di un prestigioso polo museale e sito congressuale, visitato da moltissimi turisti, attratti dalla sua storia plurisecolare e dal mitico “caso della baronessa”.

La storia dei territori che erano sotto la signoria dei La Grua Talamanca (Grotte, Montelepre, Misilmeri, Terrasini, Vicari), pur partendo da vicende in apparenza locali e dimensionate, hanno una loro valenza significativa nel quadro della grande Sicilia, in quanto inducono a riflessioni che rivalutano le città demaniali e feudali dell’isola e si proiettano in un futuro come strumento di conoscenza e crescita nelle dinamiche del territorio siciliano.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Gonzales Reyes C. «Encumbramiento de un linaje. Aproximacion al ascendo politico y economico de los barones de Gramera entre los siglo XIII y XV», en an initio, num. 7 (2013):59-86
[2] P. Sardina, Palermo e i Chiaramonte: splendore e tramonto di una signoria, , potere nobiliare, ceti dirigenti e società tra il XIV e XV secolo, Salvatore Sciascia Editore, Collana Mediterranea, Caltanisetta-Roma 2003: 239
[3] Archivio di Stato di Pisa , testamento di Colo Grua del 26 giugno 1349, diplomatico Primiziale;
[4] F. Maria Emanuele e Gaetani Della Sicilia Nobile, Palermo parte II libro II, 1757: 61
[5] P. Sardina, op. cit. : 247.
[6]F. Maurici, Per una cartografia storica della Sicilia Medievale. Il territorio di Capaci, Carini e Cinisi, Estratto dagli atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo, Palermo 1986:193-196.Documento originale in ASPA,RC.Reg.41,cc,133r.135r.i
[7] Sardina ritiene che la prima sia stata la vecchia casa paterna, quella in cui il mercator Colo La Grua aveva abitato dal momento del suo arrivo a Palermo, abbandonata da Ubertino dopo la morte del padre per trasferirsi nell’abitazione alla Kalsa, dove portò con sé la madre. Qui, nei pressi della ruga di la Talamanca, dal nome del cavaliere catalano che aveva sposato la figlia Ilaria, posta di fronte alla casa di Giovanni de Omodei, vicino alla domus magna di Dino de Pamapara, a quella di Grazona de Chillino e a quella di Nicolò de Lombardo, Ubertino stabilì la propria domus palermitana, P. Sardina, Palermo e i Chiaromonte,op. cit: 251
[8] S. Salomone Marino, Le pompe nuziali e il corredo delle donne siciliane nei secoli XIV,XV e XVI, «Archivio Storico Siciliano», Anno I, Fascicolo I, Palermo,1876: 215-224
[9] Rotolo F. OFM.Conv. La basilica di San Francesco D’Assisi e le sue cappelle, un monumento unico della Palermo medievale, Provincia di Sicilia dei Padri Minori Conventuali, Palermo 1982, p. 217; M. De Vio, Foelicis et fidelissimae urbis panormitanae privilegia, Palermo 1706, f.189
[10] F. Maurici Illi de Domo et Familia Abbatellis I Baroni di Cefala: Una Famiglia Dell’Aristocrazia Siciliana fra ‘400 e ‘500,Officina Studi Medievali, Palermo 1985: 19
[11] G. Filingeri, Carini nel Cinquecento, Associazione culturale Historia Magistra Vitae, Tipografia Fiorello, Partinico 2007:101
[12] .M. Abbate Carini nella storia di Sicilia fino al 1922.Ed.ni L. Pirandello, Agrigento-Palermo 1982: 682
[13] A. Albanese Baviera, La storia vera del caso della baronessa di Carini, in « Nuovi Quaderni del Meridione » , Palermo , ottobre -dicembre 1964, n.8: 20
[14] Ludovico Vernagallo era nipote del Ludovico Vernagallo che aveva sposato nel 1530 Elisabetta LA Grua figlia di giovan Vincenzo I e di Flavia Ilaria Aiutamicristo detta Berta o Bertuccia.
[15] Secondo Gioacchino Lanza Tomasi è probabile che gli incontri dei due amanti più che nel castello avessero luogo nel complesso della villa Belvedere fatto realizzare da poco come si è detto dal barone Vincenzo; Tesi questa sostenuta in occasione del convegno di studi Regno d’Aragona, Pisa e Sicilia nel Mediterraneo, Logiche di potere del casato La Grua Talamanca signori di Carini e loro rapporti con la casa reale aragonese e le altre famiglie della nobiltà feudale siciliana, Castello La Grua Talamanca, Carini (PA),18 Maggio 2019 a cura dell’ass.ne “Settimana delle culture”, Società Nissena di Storia Patria Caltanisetta e dell’Ass.ne “Luce d’Arte”. L’ipotesi di Gioacchino Lanza Tomasi si regge sul fatto che i possedimenti del Vernagallo si estendevano da Montelepre fino al confine col territorio di Carini là dove si collocava il sito della villa luogo facilmente raggiungibile da Ludovico
[16] Varvaro, Adulteri, delitti e filologia, Il Mulino, Bologna 2010
[17] Vigiano V., Politiche de semplice ingordigia, scaturita da un interesse economico per il Feudo Dainasturi di proprietà dei Vernagallo “centro” e ideologia cittadina nella Palermo di Carlo V, in B. Anatra, F. Manconi (a cura di), Sardegna, Spagna e Stati italiani nell’età di Carlo V, Comune di Villamar, Urbino, 2001: 290-305; A. Baviera Albanese, La storia vera, pop. cit: 211 e segg.
[18] Baviera Albanese A., La storia vera del “caso” della baronessa di Carini, op. cit.:39
[19] Ligresti, Feudatari e patrizi nella Sicilia moderna (sec- XVI-XVII), C.U.E.M, Catania 1992: 107.

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Maria Russo, laureata in DAMS Arte presso l’Università di Palermo, è funzionario responsabile del castello La Grua Talamanca di Carini, da molti anni conduce ricerche sui maggiori casati nobiliari della Sicilia. Autrice di numerosi articoli pubblicati in diverse riviste specializzate, ha dato alle stampe  numerosi saggi sulla  storia di Carini fra i quali Hyccara, 2005, Tra sacro e profano nell’arte aragonese, il Mito in Sicilia,  Carlo Saladino Editore, Palermo 2007, L’Agenda  culturale Città di Carini  PSR2007/2013, Misura 313/B, Regione Sicilia, Priulla, Palermo 2015. Più recentemente ha  pubblicato  con la collaborazione di Salvatore La Monica Le famiglie La Grua-Talamanca e Vernagallo, Società Nissena di Storia Patria, Lussografica, Caltanissetta 2018.Ha partecipato a numerosi convegni in Sicilia e in Spagna studiando i rapporti fra l’aristocrazia spagnola  e quella siciliana. Nella qualità di drammaturga e regista ha rappresentato la Sicilia all’Expo di Milano del 2015.

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