di Silvia Mazzucchelli
Mio figlio sa fare le fotografie dice Cesare Zavattini a Ernesto de Martino. Una battuta, forse detta per caso o semplicemente per affetto paterno, ma sufficiente a mettere in moto le cose. A quel tempo non era facile trovare un fotografo professionista disponibile, e De Martino accetta la proposta. Arturo, però, non riceve indicazioni precise, l’incontro con l’antropologo è fugace, e il lungo dialogo che avrebbe dovuto chiarire il senso del lavoro, durante il viaggio verso Tricarico, non avviene mai. E proprio in quel vuoto, in quella mancanza di istruzioni, si apre uno spazio di libertà, data la mia passione per la fotografia, ho cominciato a interpretare a modo mio questo compito, senza capire esattamente in cosa consistesse. Ho fotografato quello che interessava a me, pensando che poi avremmo scelto insieme le immagini.
Viaggio al Sud, il libro che raccoglie le fotografie di Arturo Zavattini con l’introduzione di Francesco Faeta (Postcart, 2025), riproduce un doppio movimento, l’intento istituzionale della spedizione e la libertà crescente di uno sguardo che si scopre autonomo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il Sud diventa una tappa quasi obbligata per fotografi e fotografe in cerca di storie, volti, rituali. Marjory Collins ed Esther Bubley arrivano a Matera, attratte da quella che allora era ancora definita “vergogna nazionale”. Nel 1954, Chiara Samugheo raggiunge Galatina per documentare il fenomeno delle tarantate, Carla Cerati si spinge fino a Fresagrandinaria per Maghi e streghe d’Abruzzo (1963) e pochi anni dopo, Lisetta Carmi attraversa l’isola per realizzare Acque di Sicilia (1977).
Rispetto alla rappresentazione antropologica che anima le fotografie di Chiara Samugheo, Franco Pinna e Ando Gilardi, immersi nel rito fino a restituirne l’immediatezza a scapito della perfezione tecnica, Zavattini sceglie un’altra via. La sua prossimità si affida al rigore della composizione, alla compostezza della forma, alla sensibilità della luce. Non partecipa al rito, lo osserva, e in questa distanza si apre una vicinanza fatta di cura, misura, rispetto.
Il racconto non è soltanto un guardare sotto, a Sud, ma un guardare da sotto, l’occhio non si posa dall’alto, ma si abbassa per sollevare. In questa prospettiva, chi abita il margine non è oggetto di pietà, ma presenza che resiste.
È a Tricarico, durante la prima spedizione del giugno 1952 al seguito di de Martino, che Zavattini trova una sua voce. A testimoniarlo sono due immagini che sembrano instaurare un dialogo silenzioso. Nella prima, una donna ritratta di spalle sale una scalinata, avvolta in un abito che pare fatto di sola stoffa e di vento. La sua figura si staglia contro il cielo come un’apparizione. È il Sud che si fa verticale, che tenta di sollevarsi dalla materia compatta della terra, come un respiro che cerca l’altezza. Nella seconda, il movimento si sdoppia. Una donna sale, un’altra scende. Entrambe portano pesi, li tengono in equilibrio sul capo. E in equilibrio è anche lo sguardo di Zavattini, che non riduce il Sud a una narrazione univoca, né si lascia tentare dal pietismo o dall’estetizzazione del dolore. C’è la povertà, certo, ma c’è anche una forza che attraversa le cose, i volti, i gesti, e li spinge verso l’alto.
Accanto allo sguardo che osserva dal basso, se ne affianca un altro che si spinge in profondità, entra nelle case come uno speleologo nelle viscere della terra. Zavattini si lascia alle spalle il peso della miseria o l’esibizione del bisogno, mostra invece la sobrietà di una vita che si regge sul necessario, la camera condivisa con un cavallo, la parete dove si affacciano oggetti di uso quotidiano ed i ritratti di famiglia. Rende visibile la realtà senza addomesticarla, una coperta rattoppata, cucita più volte a tenere insieme il sonno e l’inverno, le pareti ruvide con le immagini sacre che non promettono salvezza, ma restano, silenziose, a fare compagnia. La donna che, curva su sé stessa, modella il formaggio con mani esperte non sta solo compiendo un gesto familiare, fare il formaggio in casa è una forma di sapere, e insieme, una forma d’amore.
Il racconto antropologico che si intreccia a quello visivo, diventandone la struttura portante, guarda al cinema che Zavattini conosce a fondo, grazie al mestiere di direttore della fotografia. Tuttavia, parlare di neorealismo a proposito della sua poetica rischia di essere fuorviante, se con quel termine si intende l’urgenza di una rappresentazione esplicitamente politica, legata alle tensioni storiche del dopoguerra e della Resistenza. Le sue immagini non chiedono di schierarsi, non sollecitano un’adesione ideologica o morale, ma rivelano il volto di una terra il cui sapere è custodito nel buio umido delle case, nei solchi del paesaggio, nelle rughe che il tempo ha inciso sui volti.
Il mago di Pico (1952), un paese in provincia di Frosinone, nel cuore della Ciociaria, è ritratto con un’impostazione antropologica, una tensione all’ascolto e alla comprensione che richiama da vicino la lezione demartiniana, sottolinea Faeta. Zavattini osserva il mago, ne segue i gesti, ma soprattutto ne intuisce il ruolo all’interno di una rete fitta di relazioni e riti arcaici. Ancora una volta, il fotografo mostra una comunità viva, colma di domande, attraversata da tensioni che non sono semplici superstizioni, ma tentativi di sopravvivenza. Il mago, figura centrale eppure mai dominante, siede tra le pietre, avvolto nel mantello, il volto scavato trattiene qualcosa del silenzio antico dei monti. Una donna gli siede davanti, ha in mano un fagotto che sembra proteggere, ma anche celare. Ciò che conta non è svelare, ma rendere visibile l’invisibile, attraverso il gesto. Nel mondo magico, i confini tra soggetto e oggetto si dissolvono, Zavattini intercetta questa zona ambigua, dove l’azione simbolica si sovrappone a quella reale, e la cura non è distinta dalla ferita.
Nel 1952 il fotografo è impegnato in un altro lavoro, accompagna Franco Monicelli, giornalista e drammaturgo, fratello del regista Mario, a Matera per conto del settimanale Epoca. La pietra e le architetture millenarie dominano lo spazio. Le immagini sono prese dall’alto, l’uomo appare piccolo, quasi assorbito dal paesaggio. I corpi si muovono sullo sfondo, semplici comparse tra gli edifici scavati nella roccia. La figura umana è parte della scena, ma non è il centro, chiamata a raccontare la monumentalità di un luogo che la precede e la ingloba. Il fotografo mantiene una certa distanza, non per sottrarre umanità, ma al contrario per rivelarla nel suo legame profondo con l’ambiente, rendendola parte viva e inscindibile del racconto.
È forse per questo che accoglie il suggerimento dell’amico Paolo Nuzzi di recarsi al mendicicomio di Aversa (1957). I due si erano conosciuti nel ’54 sul set de La strada di Fellini, Nuzzi era aiuto regista, Zavattini assistente operatore, una proposta nata quasi per caso, durante una conversazione intorno a un viaggio a Napoli. Volevo andarci con le mie macchine fotografiche, camminare per quella città che ho sempre amato, racconta Zavattini. Ma fu Nuzzi a suggerire una deviazione, venendo a Napoli, potrebbe interessarti fare una sosta ad Aversa, ti raggiungerei lì per accompagnarti al mendicicomio. È in questo scarto che si apre uno dei momenti più intensi del suo percorso. Ad Aversa Zavattini si allontana dall’approccio antropologico, la deviazione è anche scarto visivo, le scene diventano pittoriche, grafiche, la luce disegna i volti, l’emarginazione, il dramma esistenziale, come si legge nello sguardo di una donna che seduta, si protegge dietro un telo bianco appoggiato allo schienale, gli occhi scuri, spalancati e in procinto di piangere riflettono un dolore più ampio, condiviso.
Intorno, gli anziani si muovono lentamente negli spazi della struttura, spesso da soli, come ombre che scivolano lungo corridoi e cortili assolati o seduti ai tavoli, assorti mentre mangiano, fumano, attendono. La solitudine è nell’aria che si respira in ogni stanza. Rare sono le attività condivise, due uomini si sfidano a briscola. Zavattini si sofferma sulle mani che tengono le carte con cura cerimoniale, al centro una posta in gioco simbolica, cinque lire, ricorda il tempo che passa e suggerisce il tentativo di ingannarlo.
E proprio a questo tempo sospeso, fatto di malattia e solitudine, si oppone, quasi per un bisogno di respiro, il fuori di Napoli che chiude il libro come un contrappunto necessario. Una città che Zavattini fotografa come un corpo vivo; se Aversa è ritiro, contenimento, immobilità, Napoli è espansione, apertura, movimento. Non c’è una scena dominante, ma un tessuto che si anima ovunque, nei mercati, sui marciapiedi, davanti agli ingressi, tra i balconi. Le persone si muovono, parlano, gesticolano, si cercano in un immenso palcoscenico.
A Napoli, lo sguardo di Zavattini cambia natura, non è più quello dell’antropologo che osserva, né dell’artista che interpreta, ma quello di chi viaggia per riconoscersi. La città è uno specchio. Non stupisce allora di vedere un fotografo di strada e il suo cliente con un telo alle spalle. Il gesto è semplice, ma conserva un’aura di ritualità, il teatro minimo della fotografia popolare. È anche una dichiarazione d’intenti: al centro della scena non ci sono solo chi guarda e chi è guardato, ma la fotografia stessa, il suo farsi, il suo modo di prendere forma ed esistere nel mondo. In un’altra immagine, invece, un uomo, forse un turista, scatta una fotografia per custodire il ricordo di un momento. C’è una parentela tacita tra il fotografo ambulante e l’uomo che scatta per sé, tra il mestiere e l’istinto, tra il lavoro e il desiderio di fissare un istante. Entrambi si avvicinano al mondo con uno sguardo che vuole conservare, restituire, non dimenticare. E in fondo, in entrambi, Zavattini sembra riconoscere qualcosa di sé, una forma di prossimità, un’alleanza implicita tra chi osserva e chi tenta, con una fotografia, di trattenere ciò che scivola via.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Per Einaudi ha curato Un intenso sentimento di stupore (2023) della fotografa Giulia Niccolai. È autrice di due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude pubblicati da Johan & Levi. Di Claude Cahun ha curato anche Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha curato la voce “Inge Morath” per il catalogo “A-Z Steinberg”. Scrive di fotografia per numerose riviste e fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Sulla fotografa Giulia Niccolai, della quale conserva l’archivio, sta completando uno studio per cui è prevista una monografia. Di prossima pubblicazione sono anche un volume di recensioni a venti donne fotografe vissute a cavallo del secolo scorso e un volume di interviste a dodici protagoniste e protagonisti della fotografia.
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