Premessa
Antoine Berman, filosofo, linguista e critico della traduzione francese, in La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza crea una corrispondenza tra l’Auberge du lontain e la lingua traducente descrivendo il tradurre letteratura come abitare l’albergo nella lontananza. La traduzione accoglie l’estraneità di una lingua straniera in una vicina lontananza, offrendole un rifugio, diventando un luogo duttile di accoglienza della diversità (2022). Di questa pratica generosa è senza dubbio esperta Ornella Tajani, professoressa associata di Lingua e traduzione francese all’Università per Stranieri di Siena, che occupa prevalentemente di critica della traduzione del testo letterario e di letteratura francese contemporanea. Tajani è anche autrice dei volumi Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS 2021) e Tradurre il pastiche (Mucchi 2018). È membro del direttivo del CeST Centro Studi sulla Traduzione di Siena. Ha tradotto opere di Cocteau (premio di traduzione Monselice “Leone Traverso” per L’aquila a due teste nel 2012), Jouhandeau, Kuperman, Proust, Desjardins fra gli altri; nel 2019 è uscita la sua traduzione dell’opera completa di Rimbaud per Marsilio. Scrive su riviste cartacee e on line ed è redattrice del lit-blog Nazione Indiana.
Il nostro dialogo sceglie di dedicarsi al suo ultimo lavoro Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux (Marsilio 2025), che si propone come un’introduzione ragionata alla lettura dell’opera di Ernaux, della quale percorre tre versanti: l’autosociobiografia, l’autobiografia linguistica e l’autobiografia «del compimento», ossia quella che più direttamente ha a che vedere con l’intento, più volte ribadito dall’autrice, di scrivere la vita.
Il compito che Annie Ernaux dà alla scrittura è dire la verità sulla vita; ma poiché la vita, anche se vissuta e trascorsa, non può dirsi mai davvero conclusa, neppure può essere concluso il compito di parlarne. È come se della verità mancasse sempre un pezzo e ci fosse sempre bisogno di un altro punto di vista per considerarla. Per questo scrivere la vita vuol dire per Annie Ernaux tornarci e riscriverla di continuo, accogliendo anche il punto di vista dell’altro, degli altri.
L’autosociobiografia: oltre l’orizzonte dell’io
Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux è il titolo del tuo saggio. La distanza è un concetto-chiave nella poetica di Annie Ernaux: «La distanza – scrivi – è un esercizio prossemico: significa (ri)collocarsi come soggetto in uno spazio sociale tenendo presenti i due poli di identità e alterità». Ora, alla fine del libro si trova una bella poesia di Patrizia Cavalli: «Se quando parlo dico sempre io/ non è attenzione particolare e insana/per me stessa, non è compiacimento,/ché anzi io mi considero soltanto/ un esempio qualunque della specie,/perciò quell’io verbale non è altro/che un io grammaticale». Ho associato questi versi a un passaggio di Mémoire de fille, che tu stessa riporti, in cui Ernaux ricorda che il suo nome, pronunciato all’inglese durante il soggiorno a Londra, suona come il pronome indefinito «any», ossia chiunque, o qualsiasi cosa. Cosa si intende col termine «autosociobiografia», coniato dalla stessa Ernaux?
«L’autosociobiografia è una pratica di scrittura autobiografica che mira a includere nell’esperienza individuale il vissuto di una data classe sociale. Alla base c’è una visione deterministica della società, che Ernaux sviluppa a partire dalla lettura degli studi sociologici di Pierre Bourdieu: l’individuo è in larga parte determinato dal contesto sociale in cui nasce e cresce. L’autosociobiografia prende in conto questo aspetto e, attraverso l’impiego di un «io transpersonale», come Ernaux lo definisce, cioè di un io che travalica i limiti dell’esperienza del singolo, allarga il discorso a individui appartenenti a uno stesso milieu culturale, sociale, geografico. È questo, del resto, il senso dell’espressione «Écrire la vie» («scrivere la vita», non «la mia vita»), che dà il titolo alla raccolta di opere dell’autrice uscita in Francia per Gallimard; a Ernaux interessa parlare della propria vita solo nella misura in cui essa contenga una parte di paradigmaticità rispetto a grandi questioni: l’educazione, l’appartenenza e la traiettoria sociali, la condizione di genere, il desiderio, la malattia, il lutto.
È per questo che ho scelto, come «esergo di chiusura», quei versi di Patrizia Cavalli, tratti dal componimento L’io singolare proprio mio: anche l’io di Ernaux è da intendersi come non prettamente, o non unicamente, grammaticale. È un io rovesciato all’infuori».
La scrittura di Ernaux racconta la sua vita non seguendo un movimento meramente retrospettivo ma costruendo, come scrivi, «una formazione costante, en devenir, che si struttura attraverso una duplice spinta: dalla letteratura all’evento e dall’evento alla letteratura. È uno dei motivi per i quali la scrittrice ritorna più volte sugli stessi episodi, creando un fitto ricamo intertestuale fra i suoi libri, segno di un’incessante elaborazione». Si può indicare questo metodo come un tempo palinsesto o una vita palinsesto?
«Certo, il palinsesto è un’immagine chiave nell’opera ernausiana, anch’essa proposta dalla stessa autrice. Come sul palinsesto si continua a riscrivere, così la scrittura implica un incessante e necessario ritorno su quanto si è vissuto, e un dialogo continuo con la propria esperienza, finanche con l’esperienza di scrittura: è il motivo per cui i suoi testi sono così ricchi di metadiscorso, cioè di discorso sulla scrittura in fieri. La scrittura compie definitivamente ciò che è stato vissuto, per questo nel libro parlo anche di autobiografia dell’accomplissement – del compimento, appunto.
La sensazione palinsesto, descritta in Gli anni, è quella che permette all’autrice, mediante la scrittura, di riunire tutte le forme del proprio essere, di riunire cioè l’Annie ragazzina, la giovane donna, la scrittrice affermata, la sé del presente, senza sovrapporle.
È probabile che questa inclinazione al ritorno sul vissuto sia maturata per l’autrice anche grazie alla pratica di tenere un diario fin da giovane; i diari costituiscono un’architettura essenziale della sua opera, difatti in alcuni casi ne ha pubblicato delle antologie: Perdersi è una raccolta di frammenti di diario (e di vita) che avevano già «prodotto» il racconto Passione semplice, così come Je ne suis pas sortie de ma nuit, ancora inedito in italiano, è il diario che dà vita a Una donna. Il fatto stesso che l’autrice tenga a pubblicare entrambe le forme di scrittura di un’esperienza – il diario e il testo “lavorato” – testimonia dell’importanza che riveste per lei il dialogo fra le due pratiche».
Annie Ernaux in Una donna dice che la madre è morta otto giorni prima di Simone de Beauvoir. Concomitanza che la scrittrice richiama anche in un discorso tenuto nel 2000 (per il programma Apostrophes), in cui tale coincidenza assume un valore significativo. Annie Ernaux fa inoltre riferimento a Une mort très douce, il libro che Simone de Beauvoir dedica a sua madre a seguito della sua morte, quasi si trattasse di un gioco di specchi e corrispondenze. Scrivi: «la figura della genitrice reale e quella della scrittrice che le ha insegnato la demistificazione dell’eterno femminino si ritrovano cristallizzate in un’associazione luttuosa solo in apparenza, perché riconoscendo la doppia maternità, biologica da un lato e intellettuale dall’altro, Ernaux si afferma come donna e come autrice». È un passaggio importante su cui vorrei ci soffermassimo.
«Sì, Ernaux richiama in molti casi la vicinanza di date fra la morte della madre e quella di Beauvoir: queste due figure sono entrambe, in modi diversi, le sue genitrici. La madre è stata la prima persona a insegnarle cosa vuol dire essere femminista; glielo ha trasmesso non tanto articolando discorsi, ma col suo stesso esempio di vita: l’autrice ricorda che era lei, e non il padre, a incarnare la «volontà sociale» della coppia, lei che si occupava della contabilità, delle tasse, mentre il padre serviva ai tavoli e cucinava… è stato il suo primo modello femminile, soprattutto per la sua forza e per una certa libertà rispetto ai ruoli socialmente precostituiti di uomo e donna. «Il mio femminismo comincia con lei», dice Ernaux in un’intervista alla radio. Beauvoir, d’altro canto, è una figura intellettuale di riferimento: Ernaux le fa avere i suoi due primi romanzi, Beauvoir li apprezza, in particolare il primo, Gli armadi vuoti, e ci sono due lettere in cui le riconosce molto talento.
Dopo aver letto Il secondo sesso, Ernaux scrive di non essere più stata la stessa; questo libro le fa percepire «la chiarezza accecante di un disincanto del mondo, la luce liberatoria del sapere», come scrive nel saggio che accompagna la pubblicazione di una raccolta di testi di Beauvoir edita per L’Orma. Da quel momento, la condizione femminile, prima invisibile, le appare manifesta: non la perderà mai di vista, così come non metterà mai da parte la propria coscienza sociale. Ernaux è intersezionale ante litteram».
Infine vorrei concludere chiedendoti, anche a dispetto delle varie critiche che le sono state rivolte in particolare dopo l’assegnazione del Nobel, qual è a tuo parere l’eredità più feconda di questa scrittrice capace senza infingimenti di osservare quasi attraverso una lente la nostra umanità in divenire.
«Ernaux ha il grande talento di riuscire a compiere il salto dal particolare all’universale che normalmente si chiede alla grande letteratura. Ogni suo testo autobiografico non rimane mai circoscritto agli eventi narrati, ma produce riflessione, discorso; porta chi legge a interrogarsi non solo su di sé, ma anche e soprattutto sulle questioni essenziali dell’esistenza: in che modo si cresce e si diventa adulti, attraverso quali forme si appartiene al proprio tempo, a cosa serve la memoria, come si articola la relazione fra l’io e gli altri, quanto conta la postura con cui abitiamo il mondo.
Ernaux compie tutto questo con una scrittura misurata con maestria, con una prosa che procede per sottrazione, raggiungendo un particolare grado di condensazione; spesso i paragrafi dei suoi testi sono sapientemente orchestrati intorno a un commento o a una citazione che illumina di un senso inaspettato il discorso o l’aneddoto narrato. La sua écriture de la distance produce uno stile molto personale, che nel libro analizzo sotto vari punti di vista.
Al di là di questo, e volendo inquadrare la sua opera sulla scena letteraria degli ultimi decenni, forse Ernaux è riuscita a intercettare prima di altri l’esigenza di incrociare letteratura, storia e sociologia, di tornare a ragionare sulle differenze di classe e di genere, partendo sì dal corpo, ma da un corpo che si lascia attraversare e riempire dalle vite degli altri».
Annie Ernaux è una scrittrice coraggiosa e certamente un’innovatrice. Il suo stile intimo e analitico non lascia spazio alle mezze misure, ai coinvolgimenti tiepidi. Il lettore ne è comunque toccato. In un’intervista fatta da Sara Manuela Cacioppo e me alcuni anni fa (https://www.vocidallisola.it/2021/11/12/annie-ernaux-lintervista/) la scrittrice francese affermava che la letteratura avesse un ruolo nel fissare l’esperienza del singolo e al contempo della collettività di cui egli fa parte: “La mia scrittura è una continua riflessione. Quando mi metto a scrivere infatti rifletto su ogni affermazione, su tutto ciò che quell’affermazione può significare, su tutto ciò che può essere vero così come su ciò che può non esserlo. Cerco di spiegarmi. Quello che intendo è che ogni scrittura è sempre un interrogarsi sulle cose del reale”. La distanza evocata sin dal titolo da Ornella Tajani permette di accedere allo sguardo strabico della scrittura di Ernaux capace di tendere verso l’alterità e insegnare quanto sia impossibile immaginarsi al di fuori del mondo e, al contempo, quanto la comprensione del mondo sia l’unica possibilità, costantemente in divenire, di avvicinarsi a sé stessi perché, come scrive in Les Années gli altri «ci attraversano e, risvegliando la nostra memoria, ci rivelano a noi stessi».
Dialoghi Mediterranei, n.73, maggio 2025
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Ivana Margarese, fondatrice e direttrice editoriale della rivista Morel, voci dall’isola. Ha conseguito un dottorato in Studi culturali e un postdoc in Cinema documentario presso l’Università Elte di Budapest. È stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato Ti racconto una cosa di me (Edizioni di passaggio 2012), I miti allo specchio (Mimesis 2022) e Tra amiche (Les Flâneurs, 2023) e ha pubblicato racconti in diverse antologie. Di prossima pubblicazione Il tempo è un altro. Colloqui con Anna Maria Ortese (Iacobelli 2025). Fa parte della Società italiana delle letterate e collabora con le riviste Leggendaria e Letterate Magazine.
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