I testi di Il Libro di Kalila e Dimna [1] di Ibn al-Muqaffa’ (718-759) costituiscono una strategia di rovesciamento dell’astuzia razionale. Tale strategia si manifesta già nei suoi due libri al-adab al-Kabir e al-adab as-Saghir [2]. In Kalila e Dimna, i testi, raccolti e diffusi intorno al IV-V secolo dopo Cristo, presentano un carattere dialettico, incarnato dal conflitto tra i simboli del potere materiale, rappresentato dal sovrano, e i simboli del potere razionale, personificato dal saggio. Questo conflitto è noto come “Dialettica tra il Potere e la Saggezza”, titolo con il quale Taoufik Bakkar riassume l’opera di Ibn al-Muqaffà [3].
Abdullah Ibn al-Muqaffa’ fu autore di prosa araba e tradusse in arabo una raccolta di favole indiane, Il Panciatantra,[4] successivamente tradotto in numerose lingue. Il suo nome completo è Abū Muḥammad ‘Abd Allāh Ibn Rōzbih Ibn Dāduway detto al-Muqaffa’. I primi anni di vita li trascorse al seguito del padre, funzionario fiscale, che lo introdusse alla cultura persiana. Successivamente, si trasferì a Bassora, allora importante centro intellettuale, dove entrò al servizio di una famiglia araba, al-Ahtam, che gli insegnò l’arabo secondo le sue fonti più pure. All’età di vent’anni, Ibn al-Muqaffa’ intraprese la sua carriera di scrittore entrando nell’amministrazione di ‘Umar Ibn Hubayra, il governatore degli Omayyadi della provincia di Kirmān. In seguito al colpo di Stato degli ‘Abbāsidi, entrò in contatto con ‘Īsā Ibn ‘Alī, lo zio dei due califfi ‘Abbāsidi as-Saffāh e al-Manṣūr. Abbandonò la religione Zoroastriana e si convertì all’Islam, per poi diventare precettore dei nipoti di ‘Īsā Ibn ‘Alī.
Nonostante la conversione, l’ortodossia di Ibn al-Muqaffa’ rimarrà oggetto di sospetto e gli verranno sempre rimproverate le sue simpatie persiane, non prive di gravità in un’epoca in cui i persiani, come Abū Muslim al-Ḥurāsānī e poi i Barmakidi, stavano diventando molto potenti e numerosi in un emergente impero arabo.
Queste ragioni, sommate ad altri fattori personali, non furono estranee alla perdita di Ibn al-Muqaffa’. Incaricato di redigere l’atto di amnistia a favore del fratello del suo protettore, amnistia che doveva essere concessa da al-Manṣūr, Ibn al-Muqaffa’ fu troppo zelante nel voler salvare ‘Abd Allāh Ibn ‘Alī. In un passaggio del documento, Ibn al-Muqaffa’ affermò che, se il califfo avesse ucciso il proprio zio, avrebbe potuto incorrere nel rischio di non essere più obbedito dai suoi sudditi e che le sue mogli potevano essere considerate divorziate e i suoi schiavi liberati. Al-Manṣūr, adirato, ordinò segretamente a Sufyān b. Mu’awiya al-Muhallabī, governatore di Bassora e acerrimo nemico di Ibn al-Muqaffa’, di mettere a morte il colpevole. Gli furono tagliati gli arti e fu gettato in un forno ardente. Se si è detto che la condanna di Ibn al-Muqaffa’ aveva motivazioni politiche o ideologiche, è perché i suoi scritti, al di là delle riforme immediate, erano espressione di una visione del mondo che andava oltre il momento presente. Questa rivoluzione avrebbe potuto portare a un cambiamento delle strutture dello Stato, persino a una vera e propria secolarizzazione, e servire la causa dei mawali, stranieri o non musulmani, in particolare quelli provenienti dall’Iran, che erano temuti per la loro esperienza politica e amministrativa.
Nella sua opera intitolata Risāla fi l-Ṣahāba [5], Ibn al-Muqaffa’ sottolinea la necessità di affrontare le sfide relative al sistema giudiziario, evidenziando le incongruenze nella giurisprudenza e proponendo l’elaborazione di un corpus legislativo uniforme applicabile in tutto il regno islamico. Questo corpus legislativo dovrebbe essere guidato dalla ragione come faro di orientamento al senso della giustizia. Il saggio, redatto in forma epistolare, affronta anche la necessità di separare l’esercito dall’apparato amministrativo e fiscale, stabilendo che i militari debbano avere un codice che specifichi i loro compiti e ricevere stipendi pagati a date fisse. Il contenuto riformista di questa Risāla è stato spesso comparato con i sistemi politici e amministrativi persiani, e alcuni storici ritengono che il suo autore conoscesse anche il Codice di Giustiniano. È indubbiamente evidente che Ibn al-Muqaffa’ apparteneva a un movimento intellettuale consapevole del divario tra il pensiero musulmano ortodosso e le nuove esigenze socio-culturali di un impero in continua crescita. Secondo il suo biografo Dominique Sourdel, la morte di Ibn al-Muqaffa’ non fu causata da ragioni religiose, come inizialmente affermato, ma piuttosto da motivazioni politiche:
« …Ibn al Muqaffa’ était longtemps resté au service des princes Abbassides oncles d’al-Saffah et d’al-Mansùr, ce qui lui valut sans doute d’encourir la colère meurtrière du calife lorsqu’il tenta de les défendre lors du conflit qui les avait opposés à leur neveu. Mais déjà, de façon plus générale, il s’était acquis l’hostilité des milieux arabo-musulmans traditionnels en s’appliquant à faire ressortir la supériorité de l’héritage intellectuel de l’Inde et de l’Iran, dont il s’était fait le transmetteur sous forme de traduction ou à travers ces propres écrits» [6].
La biografia di Ibn al-Muqaffa’ rimane un riferimento imprescindibile per comprendere appieno la sua opera, che non si limita ai suoi scritti originali, ma include anche una selezione dei testi da lui tradotti. In merito a questo aspetto, lo studioso Sourdel osserva:
«Les nouveaux rapports que l’on découvre entre l’œuvre di Ibn al-Muqaffa’ et son tragique destin relèveraient des sentiments qui animent le plus profondément cette œuvre : curiosité pour les principes du gouvernement et gout pour les intrigues menées autour du pouvoir» [7].
Per tutta la sua produzione, Ibn al Muqaffa’ si era prefissato l’obiettivo di creare una prosa araba, intesa come vero e proprio strumento di comunicazione letteraria e scientifica a disposizione del mondo intellettuale emergente. Inizialmente destinata a un pubblico colto, questa lingua si trasformò nel corso del tempo in una lingua scritta utilizzata da una intera generazione: l’arabo letterario. Inoltre, Ibn al Muqaffà’ mirava a formulare un codice etico che non fosse in contraddizione con l’ordine divino, ma che servisse per delimitare chiaramente i confini tra il temporale e lo spirituale.
Secondo l’opinione di Erwin Rosenthal [8], Ibn al Muqaffa’ è riconosciuto come il pionere della tradizione letteraria araba del “speculum principis”, un genere di origine persiana, attraverso la sua traduzione del Libro di Kalila e Dimna e di altre opere moralizzanti, nonché attraverso i suoi scritti originali. L’obiettivo di queste opere è l’insegnamento mediante esempi ed aforismi. Critici come Rosenthal e Gabrieli [9] concordano nell’apprezzare nelle produzioni originali di Ibn al Muqaffa’ un insieme di forme e di idee con le sue traduzioni. In entrambi i gruppi si riconosce un’elevata importanza al sapere, alla giustizia e all’impiego dell’astuzia nella guerra.
Tuttavia, Ibn al Muqaffa’ si trovò a dover affrontare un testo che conteneva numerose allusioni a concezioni sociali e religiose di origine indiana, come il politeismo, la dottrina delle caste sociali e la metempsicosi, che non trovarono accoglienza favorevole nel mondo musulmano. Per questo motivo, alcuni dei tratti più importanti che conservò il traduttore siriaco furono modificati dal traduttore arabo. Ad esempio, la metamorfosi del topo in una bambina e viceversa, che nel testo originale era realizzata da un monaco, diventa, nel testo arabo, un intervento divino per non ferire la suscettibilità dell’ortodossia musulmana. La storia dello sciacallo, che in una fase precedente della sua vita era stato un re peccatore, è omessa come molte espressioni di carattere politeista. Tuttavia, Ibn al Muqaffa’ evitò di islamizzare la sua traduzione, permettendo così al testo di mantenere il suo carattere originale. Il Gabrieli riconosce in Ibn al Muqaffa’ questa capacità di trattare concetti e temi etico-religiosi con la prudenza di un genio:
«Nel complesso è da riconoscere l’equilibrata e felice prudenza del traduttore nell’immettere entro la cultura musulmana questo caratteristico prodotto di un’altra civiltà, in cui l’umanità e universalità della favola è qua e là fortemente colorata dalle concezioni religiose e sociali della sua patria d’origine, che evidenti e naturali negli originali indiani, sono ancor rintracciabili nelle stesse “recensioni semitiche” facenti capo a questa del nostro traduttore» [10].
Tuttavia, l’apporto del traduttore arabo resta stabilito, fra non poche discussioni, nei seguenti termini:
a- Una parte che riguarda le diverse religioni interpolata nell’autobiografia di Burzoè.
b- Il prologo dove egli sottolinea il doppio senso del testo.
c- Il capitolo in cui, dopo un dettagliato processo giudiziale, il traditore Dimna muore castigato dalle sue proprie azioni.
d- Il dubbio che avvolge i tre capitoli che non risultano nella versione siriaca è che possano essere stati eliminati.
Inoltre, si osserva che la biografia di Ibn al-Muqaffa’ è di interesse limitato per la maggior parte dei lettori, a causa della popolarità della sua opera che ha eclissato il suo autore, facendolo diventare parte integrante della cultura di un popolo [11]. Ad eccezione del breve discorso sulle religioni, in cui emerge con chiarezza lo spirito scettico e tormentoso dell’autore, il resto del Libro di Kalila e Dimna rimane complesso e difficile da interpretare per il lettore medio.
1.2. Lo scetticismo di Ibn al-Muqaffa’
Ibn al-Muqaffa’ visse a Bassora, in Iraq, dopo il trasferimento dall’Iran, una metropoli fiorente, caratterizzata da una vita intellettuale ricca e variegata, una civiltà materiale e tecnica evoluta, teatro delle lotte politico-religiose, luogo di nascita della grammatica araba e del movimento mu’atalizita [12]. In tale contesto, la città offriva agli intellettuali e all’élite dell’epoca un’ampia gamma di opportunità. Con il trionfo dell’Islam, la lingua araba, che l’Islam ha adottato come propria, si è imposta a popolazioni eterogenee che custodivano tradizioni distinte. Durante questo periodo, le tradizioni dualiste e scettiche hanno svolto un ruolo significativo. Oltre al confronto tra queste tradizioni, la polemica tra le tre religioni monoteiste si caratterizzò per una notevole complessità.
La polemica concerneva principalmente la questione dell’interpretazione dei testi, con particolare attenzione alla loro autenticità e alle eventuali alterazioni subite. Il confronto con la ragione, introdotto dal dualismo e dallo scetticismo, ha costituito la base per il Kalam [13], che a sua volta ha fornito la teologia dell’Islam. In merito a tale argomento, Alain De Libera osserva:
«Les Abbassides sont des instigateurs de profonds bouleversement culturels dont la structure e l’aliment tiennent en deux mots ; Kalam (théologie) e falsafa (philosophie). Sans préjuger de son statut, a fortiori sans affirmer qu’il y existe des philosophes en tant que groupe social comparable à leurs homologues grecs, on peut dire que, dans ce monde musulman, la philosophie existe en un sens qui, après tout, la conditionne encore aujourd’hui. En deux mots, à Bagdad, on traduit et l’on explique des textes. Traduction et explication deux pratiques qui, trouvant leur place dans des contextes religieux et politiques précis, supposent soit une « tolérance », soit une vraie « demande » sociale e politique. Cette demande existe» [14].
In questa prospettiva, l’Iran, di cui Ibn al-Muqaffa’ esalta le peculiarità culturali e geografiche, non può essere limitato a una semplice categoria “orientale” o a una connessione con l’India. Esso, infatti, ha anche assimilato parte dell’eredità greca, distinguendosi come una realtà in cui si manifestava l’universalità della ragione, o ‘aqal [15]. È importante notare che Ibn al-Muqaffa’ stesso riconosceva, secondo l’analisi di Dominique Urvoy, «cette nebuleuse des influènces étrangéres sur la civilisation arabe.»[16]
È certamente in queste influenze che si può identificare il substrato culturale e lo spirito critico che hanno forgiato il pensiero e l’opera del nostro traduttore, come afferma sempre Urvoy:
«On a parlé, au sujet d’Ibn al-Muqaffà, « d’homme de la renaissance », et on pourrait même le comparer à « l’homme de cour » de Baltasar Gracian. Sans être lui-même philosophe, il a préparé les esprits à une appréhension rationnelle des choses» [17] .
Si ritiene comunemente che il problema del rapporto tra filosofia e religione abbia trovato la sua prima espressione nel mondo arabo-musulmano, in cui si è verificato il primo confronto tra l’ellenismo e il monoteismo, ossia tra la ragione e la fede. Questo contesto ha motivato Alain De Libera a sostenere che il paradigma della “crisi” o del “dramma della scolastica”, che ha avuto origine nel Medioevo latino, è in realtà un’importazione [18].
2. Ibn al Muqaffa’ e la fondazione del nuovo “Stato”
La scrittura, nei suoi diversi stili, rappresenta, in primo luogo, una scelta e l’espressione di una posizione civile che richiede, necessariamente, uno stile nuovo che si adatti a un nuovo gusto, a una coscienza in punto di transizione. In tale prospettiva, i testi di Ibn al-Muqaffa’ si pongono come punto di svolta nella storia della letteratura araba, segnando il declino della poesia e l’avvento della prosa, intesa come forma di espressione che riflette la complessità del pensiero piuttosto che l’immediatezza delle emozioni.
In tale contesto, lo Stato, inteso come sistema governativo e amministrativo, si trovava nelle sue fasi iniziali e necessitava di un’organizzazione efficace. Di conseguenza, emerge la figura del segretario (il prosatore), che sostituì il poeta, in quanto la professione di quest’ultimo era considerata eccessivamente emotiva e troppo legata alla tradizione. Il nuovo mestiere, pertanto, rappresentava una minaccia per lo Stato, poiché lo scrittore assumeva un ruolo di orientamento in un potere governativo in crescita. L’uccisione di Ibn al-Muqaffà rappresenta un chiaro esempio della minaccia che tale strategia rappresentava per il consolidamento del potere statale.
3. L’importanza della ragione “‘aql” in Ibn al-Muqaffa’
Ibn al-Muqaffa’ cercava di correlare l’Esistenza alla capacità ineludibile della Ragione in tutte le sfere della vita. Il suo consiglio è di utilizzare l’aql in ogni ambito, non solo tra individui ma anche tra popoli e governanti. Secondo Ibn al-Muqaffa’, poiché la fede ha come obiettivo il bene e la virtù, questo può essere raggiunto solo con l’aiuto dell’aql. Egli affermava:
«la miglior cosa ch’Egli (Dio) abbia graziosamente donato è tuttavia l’intelletto, la cui potenza si manifesta in tutti i frangenti: soltanto con esso l’uomo può provvedere ai bisogni pratici della vita quotidiana, trarre gli opportuni vantaggi ed evitare il pericolo. E col senno appunto, chi ricerca la vita eterna compie ogni sforzo per salvarsi l’anima dalla rovina: l’intelligenza è dunque la radice di ogni bene, ed essa si arricchisce con l’esperienza e la cultura» [19].
Secondo al-Mahiri, Ibn al-Muqaffa’ non distingue tra religione e vita, e non pone barriere tra il vivere mondano e l’agire per la vita dell’aldilà. Non percepisce la contraddizione tra una vita terrena felice e una condotta ideale [20]. In questa prospettiva, l’intelletto diventa il mezzo fondamentale per la salvezza sia nella vita terrena che in quella ultraterrena, poiché rappresenta l’essenza umana e la capacità di migliorare la propria condizione, di agire per il bene e di evitare il male. Anche coloro che anelano alla vita eterna sono costretti a riconoscere l’importanza fondamentale dell’intelletto: è l’elemento indispensabile per la salvezza, la fonte di tutti i beni e la chiave della felicità [21]. In quasi tutte le sue opere, Ibn al-Muqaffa’ sottolinea costantemente l’importanza della ragione, quasi come se avesse scoperto un nuovo sentiero per la salvezza dell’umanità. Egli asserisce che lo scopo dell’umanità è migliorare la propria esistenza, sia nella vita terrena che in quella eterna. Questo traguardo può essere raggiunto solo attraverso una ragione sana e la dimostrazione della sua validità si osserva nella capacità di discernere con riflessione e determinazione [22]. L’autore sottolinea ulteriormente la sua fiducia nella ragione quando affronta il concetto di vera povertà, definendola come l’assenza di ‘aql. Nessun valore economico può eguagliare il valore intellettuale, che favorisce la prosperità, offre compagnia durante la solitudine, allontana la povertà, definisce l’indefinibile, arricchisce l’amico e allontana il nemico [23].
In sintesi, nei suoi testi, Ibn al-Muqaffa’ cercava sempre di “dissimulare” le problematiche del confronto tra ‘aql e ‘aqida (ragione e credo), e tra l’appello alla vita mondana e quella dell’aldilà.
3.1. L’’aql nella riforma politica
La “dialettica tra il potere e la saggezza” [24] è un concetto che si riferisce al conflitto perpetuo tra i mezzi dell’’aql in quanto forza teorica che mira all’invenzione e alla creazione e il potere in quanto forza materiale dominatrice. Infatti, questa dialettica rispecchia un confronto tra un ambizione rappresentata dall’’aql , in quanto mezzo creatore nelle mani del filosofo, e il potere materiale incarnato dai gruppi, dalle caste, dalle sette e dalle etnie. Questa lotta, che risale alle origini dell’antichità con Platone e la sua Repubblica, passando per il filosofo arabo al-Farabi [25] e i Fratelli della Purezza [26], si può formulare in questi termini: “se dovrebbe governare il filosofo o filosofare il governatore” . Questo conflitto rappresenta l’abbreviazione della pena umana nelle sue imperfezioni e nella sua intolleranza e fanatismo.
Nasce così l’aql nelle opere di Ibn al-Muqaffa’, con l’intento di servire uno scopo politico. Esso è, da una parte, uno strumento di critica che ha per fine la riforma del potere politico del suo tempo. Inoltre, tale orientamento rappresenta un messaggio diretto che mira alla fondazione di un nuovo sistema politico basato su nuove teorie politiche. La rilevanza di Ibn al-Muqaffa’’ risiede nel suo tentativo, attraverso le sue opere, di dirigere una politica caratterizzata, in passato, dall’improvvisazione e dal fanatismo, e di guidarla verso uno stato più evoluto: il suo interesse era quello di “razionalizzare” la politica e gettare le basi dell’«ideologia del potere», come sottolineato da al-Jabri: «Ibn al-Muqaffà fu il primo a parlare di ‘al-Idiologia as-Sultaniya’ (l’ideologia del potere) nella cultura arabo-musulmana» [27].
In effetti, la teoria proposta da Ibn al-Muqaffa’ preannuncia la formazione dello Stato, sia dal punto di vista politico che civile.
Secondo l’autore, l’”aql” diventa così uno strumento critico operativo, sia all’interno del potere che della coscienza culturale.
3.2. L’intelletto e la responsabilità
Secondo il nostro traduttore, l’intelletto perde di rilevanza se non è orientato a obiettivi chiari e ben definiti, pertanto l’intellettuale diventa responsabile dell’uso della ragione. Nel Libro di Kalila e Dimna si legge:
«La scienza non è completa senza l’azione; la scienza è l’albero, l’azione ne è il frutto. L’uomo ricerca la scienza per trarne beneficio: Se non ne trae beneficio, è inutile che la cerchi» [28].
Questa responsabilità dello scienziato o dell’intellettuale rappresenta la continuità di una coscienza critica molto antica, che include il confronto tra una forza materiale, rappresentata dal potere, e una forza intellettuale, incarnata dalla saggezza. È proprio questa coscienza critica che guida il processo di traduzione o la composizione dell’opera di Ibn al’Muqaffa’, dove le introduzioni rivelano lo scopo etico e politico del traduttore, uno scopo che egli cerca di mascherare attraverso il simbolo, utilizzando la voce degli animali per evitare qualsiasi forma di censura. Alcuni studiosi interpretano Ibn al-Muqaffa’ come un precursore del Bidpai del suo tempo, mentre al-Mansùr è spesso identificato con il Dabshalim del Califfato abbasside. Infine, si osserva che il Panciatantra condivide con Ibn al-Muqaffa’ e con altri saggi di ogni tempo e luogo, lo stesso scopo di fondo.
«C’era una volta un saggio filosofo Bramano che si chiamava Bidpai. Avendo notato la sofferenza del popolo dalla tirannia del re, questo filosofo decise du usare l’astuzia per quidare il re alla retta via della giustizia» [29].
Questa responsabilità riformatrice emerge anche nel dialogo tra il filosofo e i suoi allievi:
«Noi [saggi] siamo sempre disposti ad indurre i re a fare il bene ed essere giusti con il popolo. Quando trascuriamo questo compito diventiamo degli ignoranti negli occhi del popolo» [30].
Ibn al-Muqaffa’ affida all’intellettuale un nuovo ruolo nello strutturare questa società in mutamento. Nella vecchia struttura si notava il dominio del potere su tutti i mezzi della conoscenza, influenzando la scienza, l’azione e la fede: la persona del Califfo incarnava un potere assoluto imposto dalla giurisprudenza (fikh) islamica stessa. I contributi di Ibn al-Muqaffà segnano l’inizio della decadenza di tale potere assoluto, in quanto egli realizza una significativa scissione tra potere e saggezza quando asserisce che:
«I re raggiungono un ubriachezza come quella del vino e si svegliano da questa sbornia solo con i consigli dei saggi. Il compito dei re è di seguire questi consigli» [31].
In queste parole si avverte, senza dubbio, una critica generale che svela un nuovo e preciso concetto del potere che, a volte, sembra superare i suoi limiti. D’altra parte, si fa riferimento al ruolo che i saggi giocano nel fermare le pazzie frenetiche di as-Sultan (il sovrano). Ibn al-Muqaffa’ cercava, pertanto, di imporre l’aql su ogni altra forza, in quanto, a suo avviso, esso rappresenta una forza ineguagliabile. Nel paragone tra i re e i saggi, egli affermava:
«Se i re hanno un merito quando regnano, i saggi sono più importanti di loro grazie alla loro saggezza. I saggi sono più ricchi dei re grazie alla loro saggezza, perché qui il denaro non conta» [32].
E in al-Adab as-Saghir:
«Coloro che meritano il potere sono gli uomini di conoscenza e coloro che sanno dirigere sono gli ulema (i sapienti)» [33].
Al fine di preservare tale supremazia, Ibn al-Muqaffa’ suggerisce ai saggi di fornire orientamenti ai loro sovrani, in quanto, secondo la sua opinione, «il saggio può conseguire ciò che non si ottiene con i cavalli e le truppe militari» [34]. In merito a tale affermazione, Al-Jabri osserva:
«Ibn al-Muqaffa’ non progettò una città ideale, in quanto non era né un filosofo politico né un letterato sognatore. Si dedicava con grande impegno al miglioramento della condizione dello Stato» [35].
4. La favola di Il leone e la lepre [36]
Nel contesto della tradizione letteraria, la favola di “Il leone e la lepre” emerge come un esempio paradigmatico della dialettica tra il potere e la saggezza. Questa antica narrazione, contenuta nel Libro di Kalila e Dimna, rappresenta un punto di svolta cruciale nel confronto tra la forza del potere e la razionalità, offrendo una rappresentazione emblematica di come la saggezza possa prevalere sull’autorità:
«Raccontano di un leone che viveva in una terra fertile, ricca di animali selvatici, d’acqua e di pascoli. Gli animali però non potevano trar vantaggio da quelle cose per paura del leone. Dopo essersi consultati tra loro sul da farsi, si recarono da lui e gli dissero: “tu riesci a catturare noi animali solo a fatica e con notevoli sforzi; ci siamo allora accordati su una soluzione che procurerà tregua a entrambe le parti, se ci rassicurerai e non ci darai più motivo di temere”. “D’accordo”, replicò il leone. E quelli : “Ti manderemo ogni giorno uno di noi per il tuo pasto”. Il leone soddisfatto accettò ed entrambe le parti si impegnarono a mantenere la promessa. Qualche tempo dopo, il caso volle che toccasse a una lepre. Questa disse agli altri animali: “Avreste niente in contrario a concedermi una cosa che non vi porterà danno e che mi permetterà di liberarvi dal leone?”. Le chiesero: “ Di che si tratta?”. E lei: “Ordinate a chi deve accompagnarvi di non seguirmi. Io potrei procedere lentamente in modo da ritardare il pasto del leone, cosa che lo farà arrabbiare”. Gli animali seguirono le indicazioni della lepre e quella procedette con calma fino all’ora in cui era solito mangiare il leone, che affamato e furibondo si alzò e si mise a gironzolare e a guardarsi intorno. Quando vide la lepre, le domandò: “Da dove vieni? Dove sono le bestie selvatiche?”. Quella replicò : “Vengo da parte loro, e si trovano qui intorno. Mi avevano incaricato di portarti una lepre ma, proprio qua vicino, mi si è parato dinanzi un leone che me l’ha presa. Io gli ho detto: ‘Non arrabbiarti, ma questo è il pasto del re’. Ora sono venuta a metterti al corrente dell’accaduto”. Il leone disse allora alla lepre: “conducimi da lui e mostramelo”. Così quella lo accompagnò ad un pozzo dall’acqua limpida, e gli disse: “Questa è la sua dimora. Lui si trova qui dentro ma io lo temo, tienimi stretta al tuo petto”. Il leone se la strinse al petto, guardò nel pozzo ed ecco riflessa l’immagine sua e quella della lepre. Poi allontanò la lepre e si gettò nel pozzo per affrontare l’altro leone, ma annegò. Liberatasi del leone, la lepre tornò dagli altri animali e li informò dell’accaduto».
Nella favola menzionata, si racconta che il leone della giungla fosse particolarmente crudele, non risparmiando gli animali dal suo male, perché li giustiziava tutti senza alcuno scopo o pietà. In questa narrazione, il leone diventa così il simbolo di un sovrano tirannico, che si diverte a opprimere e abusare dei suoi sudditi, agendo secondo i suoi scopi e la sua brama, come sottolineato da Ibn Khaldùn [37]. Poiché tale sovrano aveva soggiogato i governati, ogni azione che potevano intraprendere era quella di ricordargli l’Ultimo Giorno, il giudizio e il peccato che avrebbero causato la perdita del paradiso escatologico, implicando una sottomissione completa e l’impossibilità di agire contro il leone.
Inoltre, tutte le bestie si sono assoggettate al leone e alla sua tirannia, razionalizzando tale dominio, organizzando e distribuendo a tutti il costo della sottomissione a lui, in altre parole, offrendo se stesse al sovrano tirannico. Hanno convenuto che ciascuna “tribù” avrebbe fornito quotidianamente un rappresentante come vittima sacrificale per il leone, con la consapevolezza che tale sacrificio sarebbe stato volontario e accolto con rassegnazione. In conseguenza di tale sottomissione umiliante, il leone ha riconosciuto la dedizione e la morte imminente dei soggetti sacrificati. In questo scenario, il ruolo della lepre si configura come quello della vittima designata. Questo piccolo animale rappresenta l’antitesi oggettiva del leone, in quanto incarna codardia, debolezza e rassegnazione. Di conseguenza, lo squilibrio di potere tra le due figure è considerevole. Tale disuguaglianza è voluta, poiché la lepre, rifiutando di essere condotta alla morte e di andare lei stessa nelle grinfie della morte, ha messo in evidenza l’importanza e il ruolo del sotterfugio, inteso come segno di saggezza, in quanto permette a chi lo esercita di superare la sua impotenza, per quanto debole possa essere. La lepre, infatti, decise di sconfiggere il leone con l’astuzia, evidenziando che solo la saggezza può colmare il divario significativo tra le due parti in contrapposizione nell’equazione politica, ristabilendo così l’equilibrio di potere.
Questa narrazione illustra la capacità della saggezza di affrontare lo squilibrio di potere attraverso un confronto diretto tra l’esercizio del potere e la pratica della resistenza, conferendo alla scienza della politica uno scopo pratico, come auspicato dal Libro di Kalila e Dimna.
L’opera di Ibn al Muqaffa’ si concentra principalmente su due angolazioni attraverso le quali analizzare la politica, come evidenziato nei capitoli del libro. Il primo approccio riguarda il settore della pratica politica, che a sua volta si suddivide in politica interna, focalizzata sull’interazione tra il centro del potere e i partiti circostanti all’interno della stessa unità politica, e politica esterna, che concerne l’interazione tra diverse unità politiche in assenza di un’autorità suprema al di sopra di esse: in questo contesto, la foresta rappresenta efficacemente questo livello di relazioni politiche.
Il secondo punto di vista riguarda gli strumenti per la pratica della politica e si articola in due strumenti: l’uso delle parole, o quello che il saggio Aristotele chiamerà l’arte della retorica e includerà nella scienza della politica, e l’uso delle azioni, o quello che Platone chiamerà l’arte divina della legislazione e le dedicherà un libro speciale, che gli antichi tradurranno come Leggi.
Sebbene lo scopo dell’opera di Kalila e Dimna sia quello di consentire al governante di esercitare il potere attraverso la conoscenza dei principi e delle basi dell’arte politica, come emerge chiaramente dall’introduzione e dai diversi capitoli, che lo inseriscono nella tradizione letteraria dell’Exemplum o il cosiddetto Speculum Principis, di cui il testo di Kalila e Dimna fa parte, si caratterizza per la tendenza a correggere lo squilibrio presente nel rapporto politico tra il governante e i governati, offrendo a questi ultimi la possibilità di resistere.
La politica del libro, benché non sia esplicitamente rivelata dal “saggio”, e non sarebbe stata rivelata per i suoi limiti intrinseci e le conseguenze del loro superamento, si estende oltre il semplice esercizio del potere sui governati, abbracciando anche la pratica della resistenza verso i governanti. Questa resistenza, come sottolineato da Platone, non è separata dai valori o dalle virtù teoriche. La storia della lepre e del leone è probabilmente la parabola simbolica più significativa di questo aspetto.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Abd Allah Ibn al-Muqaffa’, Il Libro di kalila e Dimna, Trad. di Boruso, A. E Cassarino, M., Roma-Salerno, 1985.
[2] Abd Allah Ibn al-Muqaffa’, al-adab as-Saghir wa l’adab al-Kabir, (la piccola e la grande letteratura), ed. Ahmed Zaki Pasha, Il Cairo,1912.
[3] Taoufik Bakkar, “Lezioni degli Studi Superiori sui Metodi Moderni”, Facoltà delle Lettere di Tunisi, 1983-1984: 8
[4] The Panchatantra, Trans. From the Sanskrit Arthur W. Ryder. Chicago/ Univ. of Chicago Press, 1924. Per le diverse ricensioni vedi Johannes Hertel, The Panchatantra, text of Pùrnabharda: Critical Introduction and List of variants
( Cambridge , Massachussetts. Harvard Univ., 1912) . p.5. Hertel elenca venticinque ricensioni del Panchatantra, di cui la maggiorparte sono baramaniche.Tutte queste ricensioni furono scritte tra 200 a.C. e 1199 d.C., vedi anche Franklin Edgerton, The Panchatantra Reconstructed; An attempt to establish the lost original text of the most famous of indian story collection on the basis of the principal extant versions. Text, Critical_Apparatus, Introduction, Translation (New Haven, Connecticut: American Oriental Society, 1924) II.
[5] Abdallah Ibn al-Muqaffa’, Risāla fi l-Ṣahāba, ed. Charles Pellat, Parigi, 1976.
[6] Janine et Dominique Sourdel, Dictionnaire Historique de l’Islam, Paris, Presses Universitaires de France, 1996: 373
[7] Dominique Sourdel, « La Biograpphie d’Ibn al-Muqaffa’ d’après les Sources Anciennes »,Ar., I, (1954): 323
[8] E. Rosenthal, El pensamiento politico en el Islam medieval, Madrid, “Revista de Occidente”, Madrid, “Revista de Occidente”, 1967: 82-88. Parte dell’eccellente studio di G. Richter, Studien zur Geschichte der àltern arabischen Fùrtenspiegel, Leipziger Semitistische Studien, Neue Folge, III, 1932 ( Reprint New York, Johnson Reprint Corporation, 1968)
[9] Francesco Gabrieli, L’Opera di Ibn al-Muqaffa’, in “Rivista degli Studi Orientali”, 13 (1932), (1932): 197-247
[10] Ibid: 200
[11] Anche se la popolarità dell’opera di Ibn al Muqaffa’ si capisce dai numerosi e i diversi manoscritti, uno degli studiosi che non condividono questa opinione è Charles Pellat, “Litérature Arabe et Problèmes de litérature Comparé”, Actes du Septième Congrés National ( Poitiers, 1965), Societé Francaise de Litérature Comparé, Paris, Didier, 1967: 13
[12] Scuola razionalizzante di teologia dialettica (Kalàm) che esprime la dottrina ufficiale dello stato Abbasside dal 211/827 al 232/847. Il pensiero dei mu’taziliti s’è organizzato in sostanza attorno alle questioni dell’Unicità e la Giustizia (Divine). Sviluppandosi l’idea della trascendenza di Dio rispetto al mondo, essi aprirono un campo più largo all’interpretazione del Testo Sacro con la ragione, e affermarono la responsabilità dell’uomo per i suoi atti. A quest’epoca l’attitudine mu’tazilita rifletteva le aspirazioni di una élite illuminata opposta all’attitudine tradizionalistica maggioritaria, rappresentata dall’Imam Ibn Hanbal.
[13] Il Kalam ha per oggetto l’apologetica difensiva della religione mussulmana. La pratica del Kalam è legata ai diversi dibattiti politico-religiosi sulla legittimità del potere, il libero arbitro e la predestinazione nel II/VIII secolo dell’Egira. Il Kalam iniziò a costituirsi sotto il regno della dinastia Abbasside durante l’introduzione della filosofia e la scienza della Grecia classica. Nella formazione delle scuole (Mu’tazilita prima, poi Ash’arita), partecipavano, a volte, ai dibattiti, e prendevano posizioni perfino dei Sovrani regnanti. La scienza del Kalam diede luogo, sul piano teorico, allo sviluppo di nozioni metafisiche e di discorsi sul rapporto tra Dio, l’uomo e l’Universo: l’unicità e la trascendenza divine, il problema della giustizia divina, la questione se il Corano fosse creato o no, la creazione ex nihilo del mondo, ecc.
[14] Alain De Libera, Penser au Moyen Age, Editions du Seuil, Paris, 1991: 99-100
[15] Nel pensiero islamico classico, la nozione della Ragione (‘aql) ha un doppio senso: uno etico ( è razionale tutto ciò che è giusto e ciò che dovrebbe essere), l’altro strumentale ( è razionale tutto ciò che è conforme ai fini perseguiti): il primo viene dalla filosofia etica platonica, il secondo dall’uso della matematica.
[16] Dominique Urvoy, Les Penseurs Libres dans l’Islam Classique, Editions Albin Michel, Paris, 1996: 32
[17] Ibid: 33
[18] De Libera 114
[19] Ibn al-Muqaffa’, Il Libro di Kalila e Dimna: 32.
[20] Abdel Kader al-Mahiri, “ Majallat al-Fikr” (Rivista del pensiero), Numero 9, 1960: 84.
[21]Il Libro di Kalila e Dimna: 32.
[22] Ibn al-Muqaffa’, al-Adab as-Kabir ( la grande letteratura) in Le Opere (Athar Ibn al-Muqaffa’), Cairo, Makthabat Madrassat Muhammad Sabih Wa Awladih, 1960: 290 ( la traduzione è mia)
[23] Ibn al-Muqaffa’, al-Adab as-Saghir ( la piccola letteratura) in Le Opere (Athar Ibn al-Muqaffa’), Cairo, Makthabat Madrassat Muhammad Sabih Wa Awladih, 1960: 323 ( la traduzione è mia)
[24] Questo è un titolo con il quale anche Mohammed El Jabli intitola un capitolo del suo libro al-‘Aql wa Z-Zakira (la ragione e il ricordo), Susa (Tunisi), Manshuràt S’aidàn, 1999.23-24
[25] Al-Fàràbï (259/872-339/950) è riconosciuto come il fondatore della tradizione filosofica musulmana. Nel Medioevo, nell’Occidente latino, era conosciuto come Alfara- bius o Avennasar. Più tardi, in Europa, gli fu dato il titolo di Magister secundus, dopo Aristotele, che era considerato il Magister primus.
[26] I “Fratelli della Purezza” erano una società segreta di autori per definizione anonimi che, tra l’inizio del IX secolo e la fine del X, composero un’enciclopedia di 52 epistole contenenti tutto il sapere conosciuto. Erano enciclopedisti che anticipavano i loro lontani omologhi europei del XVIII secolo. Sebbene siano stati rivelati pochi nomi, questi autori “sconosciuti” produssero un corpus che copriva tutte le discipline insegnate al loro tempo.
[27] Mohamed ‘Abid al-Jabri, al-‘Aql Ass-Siassi al-Arabi (la ragione politica araba), Casablanca, al-Markaz at-Taqafì al-‘Arabi, 1991: 367.
[28] Il Libro di Kalila e Dimna: 26.
[29] Ibn al-Muqaffa’, Le Opere, op. cit., p.38. Devo ricordare ancora che anche questa traduzione è mia, basata su una introduzione di Kalilah e Dimnah che non risulta nella versione italiana.
[30] Ibid: 22
[31] Ibn al-Muqaffa’, Le Opere, op. cit:50
[32] Ibid:42.
[33]Al-Adab as-Saghir in Le Opere, op. cit.: 329.
[34] Ibid:40
[35] Al-Jabri, Al-‘aql as-Siassi al-‘Arabi (la ragione politica araba), op. cit: 367.
[36] A. Ibn al-Muqaffa’, Il Libro di Kalila e Dimna, Trad. di A. Boruso e M. Cassarino, Roma, Salerno E, 1980: 80-81.
[37] Abderrahman Ibn Khaldun (1332-1406) è stato il maggiore filosofo e sociologo della storia di tutto il Medioevo euro mediterraneo, accostato da molti studiosi a Hobbes, Vico e Marx. Ha lasciato in eredità ai posteri un piccolo numero di capolavori, tra cui: “Kitâb Al-’Ibar” (Libro di considerazioni sulla storia degli arabi, dei persiani e dei berberi) - al-Mouqaddima: è noto soprattutto per la sua opera storica, che lo rese uno dei migliori teorici arabi. Il suo progetto aveva un duplice obiettivo: una visione generale delle scienze e una comprensione globale dei fenomeni sociali, con la storia che si collocava all’interno di entrambe come disciplina privilegiata, depositaria delle leggi che regolano l’emergere e il declino delle civiltà. Fu il vero fondatore della sociologia e stabilì le regole dell’Ilm Al-’Imrân (la Scienza della Civiltà) e quelle della Storia.
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Ahmed Maoual è professore di lingua e letteratura italiana presso il Dipartimento di Studi Italiani dell’Università Hassan II di Casablanca (Marocco). Ha inoltre insegnato al Master in Traduzione e Cultura presso l’Università Mohamed V di Rabat. È specializzato in letterature comparate (italiano, arabo e inglese). Si è laureato in Letteratura Inglese prima di proseguire gli studi post-laurea presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito un Master e un Dottorato in Letteratura Italiana. I suoi interessi di ricerca si concentrano sull’influenza della letteratura araba sulla letteratura italiana.
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