di Luigi Lombardo
Le cerimonie della Settimana santa culminano col rito dell’incontro di Cristo risorto e della Madonna: una festa nella festa. Tale rito prende il nome in genere di scuontru, ncuontru, ma in alcuni paesi della Sicilia sud orientale (come Canicattini) tale cerimonia è chiamata a paci-paci. Con questo rito la comunità ribadisce i valori solidaristici, smorzando la competitività sociale, instaurando un tempo rinnovato e pacificato col semplice gesto della mano stretta in segno di augurio. Antichi odi si placano e le “sciarre”, soprattutto familiari, si compongono.
Fino a pochi anni fa in alcuni paesi, come Chiaramonte (RG), si confezionava per l’occasione un pane a forma di ciambella, chiamato a paci, consumato a tavola dalle famiglie, e condiviso coi vicini di casa. In questo modo il pane da alimento di sussistenza si trasformava in messaggio, in tramite e segno. Perché come scrive Tonino Cusumano: «Amuleto o talismano, con funzione apotropaica o propiziatoria il pane è agente e referente della memoria, un ponte che aiuta a traghettare dal caos al logos»: e logos è la parola della Pasqua, che sostanzia la parola tanto abusata “pace”. Quel logos di cui tutti avvertiamo la mancanza in questi momenti tanto difficili, in cui paradossalmente la “parola” logos circola, sotto varie forme come prediche, interviste, servizi, financo preghiere e canti di devozione, ma senza mettere in campo alcun logos: paradossale, come paradossale è la nostra attuale condizione di esseri umani sull’orlo del baratro.
L’uso di festeggiare la Pasqua confezionando pani e dolci risponde ad un’esigenza non solo alimentare, ma comunicativa, per cui essi sono, per continuare a dirla con Cirese, “buoni da mangiare”, ma anche “buoni a comunicare”, in una dimensione rituale e cerimoniale, e in un ambito sociale e comunitario.
I pani e i dolci della Pasqua sono per la maggior parte legati alla liturgia cristiana, come il pane a forma di palma, i pani re puostili, distribuiti ai poveri, la tinagghia e a cruna ro signuri, a cruci e la scalitta, riproducenti i simboli della passione.
Ma altri, divenuti col tempo doni fatti ai bambini, rinviano a significati più complessi, legati come sono a riti e feste precristiane. Tali sono senz’altro tutti i pani con l’uovo dentro, fra i quali il più comune è la pupa cull’ovu, o varie forme animalesche come u iadduzzu, u cavadduzzu, u puorcuspinu, a palummedda , l’aceddu ccull’ovu, l’uovu ri pasqua con i pulcini, o la comunissima borsetta con l’uovo dentro chiamata panarieddu. Altri dolci a base di ricotta (cassateddi i Pasqua) sembrano uscire dal contesto simbolico: ma la loro forma rotonda e gonfia di farcia dolce, non lascia dubbi.
L’interpretazione di queste forme non è difficile, trattandosi di forme panciute e gravide, rinviano alla rinascita, alla fecondità. L’uovo, che è universalmente presente nei pani di Pasqua, appartiene alle più antiche religioni mediterranee simboleggiando la cosmogonia, esso garantisce la possibilità di ripetere l’atto primordiale cioè la creazione, rappresenta un riassunto della cosmogonia. Così anche le comunissime palummeddi appartengono ad un identico fondo culturale precristiano, rappresentando esse l’uccello della primavera, segno di rinascita.
Alla Pasqua ebraica rinvia chiaramente l’agnello pasquale di pasta reale, raffigurato ora sdraiato, ora seduto con la bandierina, o ancora in piedi al pascolo. Poiché, non si dimentichi, Pasqua (dall’ebraico Pesah) era la festa dei pastori a primavera, nel quale periodo nascevano gli agnellini offerti all’Essere supremo, mentre, come avviene ancora da noi, per S. Giuseppe, si facevano “coprire” gli animali per la riproduzione.
I pani e i dolci della Pasqua, carichi di significati ormai dimenticati, sono il risultato di complesse sedimentazioni culturali, mai tuttavia relitti folclorici, poiché si caricano, si stratificano e si rinnovano di forti connotazioni sociali, in quanto veicoli di rapporti solidaristici e di reciproca affettività. Per Pasqua la nuora infatti regala la palummedda alla suocera, il fidanzato regalava un tempo il cuore di pasta reale, oggi preferisce l’uovo con la sorpresa dentro. Il consumo di tali manufatti caratterizza i pranzi di Pasqua e Pasquetta, con quell’eccesso alimentare che si lega intrinsecamente col periodico rinnovarsi della natura, con il senso di bulimìa e di attrazione erotica, che pervade le creature a primavera.
Ma i dolci per eccellenza dei ceti popolari sono senz’altro le cassateddi di ricotta, zucchero e cannella (a Palazzolo dette lumeri), che si distribuiscono a parenti e amici. Certo, assistiamo oggi ad un rarefarsi progressivo di tali usi pasquali e ad una prevalenza dei dolci comuni, senza linguaggio, feriali e seriali: l’attuale livellamento del calendario alimentare, conseguenza del carattere appunto seriale della nostra vita, da cui è stato espulso il momento festivo, ridotto ad una noiosa domenica uguale a tante altre, ha portato alla scomparsa parziale dell’uso di confezionare pani e dolci in casa e alla conseguente scomparsa di molte forme e manufatti alimentari, cui erano demandate nelle società agropastorali funzioni essenziali.
Quella improvvisa ed eccezionale abbondanza di cibo aveva, fra l’altro, la funzione di allontanare la minaccia della carestia e il senso della precarietà esistenziale quotidiana, di ricreare sul piano della fantasia, un paradiso alimentare impossibile e impedito sul piano del reale. Il loro consumo rafforzava i vincoli di solidarietà comunitaria, infondendo un vigore nuovo in sintonia col vigore cosmico, con la rigenerazione vegetale e animale.
In questi giorni tanto tristi, che vedono grandi nazioni scontrarsi a colpi di dazi e minacce, in cui il bullismo di un uomo solo si incontra/scontra con altri bullismi nazionali, in cui la follia narcisistica di un miliardario al potere sogna e vede villaggi turistici miliardari, là dove è solo sofferenza e morte di un popolo, riparlare di pani della Pasqua sembra anacronistico, ma quando ti trovi davanti ad uno spianatoio (scaniaturi) con le donne a preparare i pani della Pasqua figurati per i loro bambini, senti che in queste geografie appartate si coltiva ancora un germe, come in laboratorio una particella, un atomo, una molecola, che come lievito, cresce e dà il pane.
Le signore di Buscemi (SR), dove sono stato per assistere al rito (perché di rito si deve parlare) del confezionamento dei pani della Pasqua, tipici di questo bellissimo paese, compiono gesti atavici, sempre quelli, tramandandosi un’arte che affonda nella storia della comunità. Protagonista è ancora il pane, sempre il pane:
«figlio del grano, coronamento del lungo e interminabile ciclo della sua coltivazione, fin dall’antichità, cibo e frutto degli dèi, dono di Demetra e Cerere, sostanza permeata di profonda sacralità. Se nel seme del cereale che si fa spiga è possibile leggere come in un ideogramma la storia delle conquiste culturali dell’uomo mediterraneo, il filo sottile e tenace di quell’ordito su cui s’intesse la nostra stessa civiltà, nel pane che dà corpo e forma alla farina è forse identificabile una sorta di imago mundi, umano impasto dei quattro elementi di fondazione mitica: terra, aria, acqua e fuoco, compendio di forze generatrici e di potenze sovrumane.
Nessun altro prodotto del lavoro e della fatica è più concretamente rappresentativo del riscatto dell’uomo dalla fame e del suo dominio sulla Natura. Per la rilevanza del suo valore materiale, per la sua forte carica di immanenza naturale, per la sua stessa domesticità e familiarità, nessun alimento è più denso di valenze segniche»[1].
Il pane nell’assolvere il suo compito primario di sfamare e saziare, svolge al contempo quella funzione comunicativa che le forme conferiscono: possono essere pani votivi, pani decorativi (ma di un decoro che rinvia sempre ad un significato), semplici trastulli dei bambini e delle bambine (pupi, pupiddi, animali vari), ma i pani figurati delle feste e in particolare della Pasqua si legano intrinsecamente ad essa, pur avendo il connotato di oggetto di consumo ludico. Così il panetto figurato con l’uovo, se pur i protagonisti non ne comprendano più il significato, rimanda alla vita cosmica, al ciclo delle generazioni e rigenerazioni: alla vita!
E la vita è il connotato della Pasqua, quella vita che si ottiene dal sacrificio. Quella vita negata ai bambini di Gaza, o a quelli di Kiev, o ai migranti in fuga dalla fame, che cercano quello che per noi è ormai scontato: il pane, sia esso reale, che sfama e nutre, sia esso metaforico, indotto dal bisogno connaturato nel genere umano di migliorare il proprio stato, di nutrire speranze, di avere aspirazioni.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] A. Cusumano, I pani della memoria, in I pani della Memoria. Nino Cordio, catalogo della mostra omonima svoltasi a Santa Ninfa, 17/20 marzo 1999: 4-6.
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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021); Taula matri. Il vino del Sudest Sicilia (2023); Taula matri. L’olio degli Iblei (2024).
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