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L’avidità radice di tutti i mali, nella cultura euromediterranea

Quentin Metsys, Il  cambiavalute, 1514

Quentin Metsys, Il cambiavalute, 1514

di Massimo Jevolella 

Undici anni fa dedicai al tema dell’avidità un libro che avrei voluto intitolare L’oro degli angeli, e che l’Editore invece pubblicò col titolo – certamente più adatto al marketing – di Il segreto della vera ricchezza 1. Presi spunto, allora, dalla realtà sconvolgente di un mondo in cui la distanza tra i pochi super-ricchi e la massa dei diseredati e della classe media impoverita stava diventando sempre più enorme e assurda. Poco tempo è passato da allora, e tuttavia quella distanza ha assunto dimensioni ancora più esagerate: individui, come l’arcifamoso patron di Tesla e di Starlink, che possiedono ricchezze spropositate, iperboliche, che permettono loro di condizionare la vita di milioni di persone e di orientare – spesso per i loro capricci o le loro manie – le scelte politiche e sociali di interi Stati, e di riflesso anche la geopolitica globale. Sono loro i terribili Cavalieri dell’Apocalisse del nostro tempo? Può darsi. Ma è più che mai evidente che il tema dell’avidità insaziabile dei beni materiali si pone ormai con prepotenza e urgenza inderogabile nel campo delle riflessioni morali – oltre che di quelle economiche, politiche e sociali – del nostro tempo.

Ed ecco perché è utile, e forse anche indispensabile, ripensare a tutto l’immenso patrimonio di insegnamenti che fin dall’antichità la nostra cultura ci ha lasciato su questo argomento capitale: nei testi sacri, certo, ma anche nella filosofia, nelle letterature e nell’arte. Ci si spalanca davvero un inesauribile tesoro di eterna saggezza. Tesoro fatto non solo di belle teorie, ma anche di direttive concrete per aiutarci ad arginare le follie del presente.

Con parole chiare, fu probabilmente San Paolo il primo che denunciò il ruolo capitale della cupiditas nelle tragedie umane: «La cupidigia – egli scrive – è infatti la radice di tutti i mali. A causa sua, gli avidi hanno deviato dalla fede e si sono lasciati rovinare da molti dolori» 2.. L’avidità è dunque per Paolo la causa fondamentale di tutti i mali, e l’intera tradizione sapienziale della nostra cultura non fa altro che confermare sotto vari aspetti questa verità. Già, ma approfondiamo la questione ponendoci la domanda più ovvia: perché proprio l’avidità? Perché proprio lei, e non, per esempio, la superbia o la lussuria o l’invidia o un altro dei vizi capitali?

La risposta forse più sensata può scaturire dalla considerazione di quello che in effetti è stato per millenni il concetto centrale dell’etica universale, da Aristotele a Confucio, da Seneca a Dante, dal libro del Qohèlet al Vangelo, dalle parole di Lao-Tse e del Buddha al Corano: il valore assoluto e indefettibile della greca mesotes, latino medietas, il giusto mezzo, ossia della moderazione, della virtù della temperanza che si realizza nel vivere appagato dell’aurea mediocritas, o della povertà intesa non come sacrificio autopunitivo e privazione del necessario ma come sereno distacco dal “desiderio del desiderio”, ovvero dalla brama del superfluo che genera solo ansia, insoddisfazione e dolore.

Allegoria dell'Avidità (o Realtà), c.1670-75 (Allegory of Greed (or Reality), c.1670-75 (oil on unlined canvas)) Johann Ulrich Mayr

Johann Ulrich Mayr, Allegoria dell’Avidità, 1670-75

Fino ad almeno due secoli fa, cioè fino al momento in cui la rivoluzione industriale cominciò a produrre in Occidente le sue fatali conseguenze culturali, l’umanità era vissuta nella convinzione profonda che gli eccessi, in qualsiasi campo, fossero nefasti e assolutamente da evitare. Perfino la medicina, con la teoria ippocratica della krasis umorale, fondava la sua idea della buona salute sul rigoroso rifiuto di ogni tipo di eccesso fisico e mentale. E per mediocritas non si intendeva certo quella che oggi si bolla come “mediocrità” in senso spregiativo, ma, appunto, una virtù che si esaltava come sinonimo della medietas, la sola capace di rendere giusta e sana la vita di ogni persona, e quindi del complesso sociale. Anche se questo principio veniva perennemente smentito nei fatti, nessuno però osava contestarlo in teoria: era la base incrollabile del buon senso comune. Era l’infrangibile scudo psicologico e spirituale dei retti e dei puri di cuore sotto i colpi delle iniquità del mondo.

Poi, in breve tempo, tutto questo bel castello di antica saggezza andò in frantumi. All’etica della moderazione si sostituì in tutti i campi l’etica dell’eccesso. Nel nuovo mondo dominato e drogato dall’accumulo di capitale e dallo sviluppo portentoso della scienza e della tecnica, tutto doveva essere o diventare enorme e fantastico: i grattacieli, i transatlantici, il mito futuristico della velocità… e così via, fino alle abnormità socioeconomiche del devastato presente, fino al trionfo definitivo dell’idolatria del denaro e allo sdoganamento morale dell’avidità “radice di tutti i mali”.

2560223194989_0_0_536_0_75Ma gli antichi avevano già ben capito e ben previsto a cosa avrebbe condotto questa folle degenerazione morale. C’è un concetto di natura schiettamente economica che è già ben delineato nella Politica e nella teoria crematistica di Aristotele – il quale come è ben noto condannava l’usura esattamente come la condannano la Legge mosaica e quella coranica – e che nel terzo secolo d. C. viene ripreso da Porfirio nella celebre Lettera a Marcella, e definito in modo sintetico e mirabile come l’ideale della “ricchezza naturale”, in greco: o tes physeos ploutos. Sarà utile e bello tornare sulla storia e sulle parole di Porfirio, anche perché la Lettera a Marcella fu definita, come è ben noto, addirittura come “il testamento morale dell’Antichità” 3.

Marcella era la moglie del filosofo neoplatonico Porfirio di Tiro, il più importante tra i discepoli di Plotino. Si erano sposati a Roma al ritorno di Porfirio dal soggiorno in Sicilia (a Lilibeo) che era durato trent’anni, dal 268 al 298 d.C. Ma poco dopo il matrimonio, il filosofo dovette lasciare Roma e partire per una lunga missione in Grecia, o forse nella sua terra natale. Marcella si rattristò per il distacco, e lui per consolarla le scrisse quella lettera, con lo scopo di rammentarle i principi della retta filosofia, che lui concepiva anche come un antidoto al nascente e dilagante fanatismo cristiano. Ebbene, giunto alla questione della ricchezza, Porfirio prima afferma che chi ama la ricchezza è necessariamente ingiusto, e poi argomenta così: 

«La ricchezza secondo natura è definita giustamente filosofica ed è facilmente acquisibile. La ricchezza secondo le varie opinioni umane è indefinita e difficile da conquistare. Perciò chi segue la natura e non le vane opinioni, in tutte le cose basta a se stesso: ché in ciò che è sufficiente per natura qualsiasi possesso o ricchezza è bastante, mentre per i desideri illimitati anche la più grande ricchezza è povertà. Di rado si trova un uomo povero di fronte ai veri fini della natura, e ricco di fronte alle varie opinioni. Nessuno stolto si accontenta delle cose che ha, anzi si affligge per quelle che non ha. Come quelli che sono febbricitanti per qualche malattia hanno sete di continuo e desiderano le cose più contrastanti, così i malati nell’anima hanno continuamente mille bisogni e per la loro avidità cadono in molteplici desideri. Perciò i filosofi dicono che nulla è tanto necessario quanto conoscere bene ciò che non è necessario, che il bastare a se stessi è la più grande ricchezza, e che il non avere bisogno di nulla è cosa divina. Meglio sarebbe per te giacere con animo sereno su un letto umilissimo piuttosto che vivere irrequieta su un letto dorato o davanti a una mensa sontuosa. Con selvaggia fatica accresciamo il mucchio delle ricchezze, e intanto la vita diventa infelice». 

9788817121057_0_0_536_0_75Che altro aggiungere alla perfezione e alla straordinaria forza persuasiva di queste parole? Se non che esse rappresentano, veramente, il compendio di millenni di riflessione umana su questo tema cruciale della nostra vita? In termini e in immagini simili o perfino identici le ritroviamo sempre e ovunque. Vediamone alcuni esempi tra gli infiniti possibili.

Nel libro dell’Ecclesiaste (4, 6), quando il saggio Qohèlet afferma che: «È meglio riempire una mano standosene in pace, che riempirne due con travaglio e sforzo vano». Nel Corano (sura 104 – Il DiffamatoreAl-Humaza), dove Allah scaglia la sua maledizione contro un innominato personaggio in pieno delirio di “falsa ricchezza” (perché l’unico vero Ricco, per la fede islamica, è Dio): «Guai a ogni calunniatore malevolo – che ammassa ricchezze e continua a contarle – suppone che le sue ricchezze lo renderanno immortale – ma no, sarà scagliato nell’Annientamento (al-Hutama) – e come saprai cos’è l’Annientamento? – fuoco di Allah, divampato – che arde alto sopra i cuori » 4.

Nella Consolazione della Filosofia, dove Severino Boezio, dopo avere rammentato la frase di Seneca, secondo cui: «Alla natura basta poco, all’avidità non basta niente», riassume tutto il suo ragionamento sulla ricchezza con queste lapidarie parole espresse in poesia: «Quali freni potrebbero trattenere la rovinosa avidità/ entro un sicuro limite,/ quando la brama di possedere si esaspera/ a misura che sovrabbondano beni copiosi?/ Non risulta mai ricco chi, gemendo e trepidando,/ si ritiene bisognoso » 5.

Pieter Bruegel, Margherita la Pazza, particolare, 1563

Pieter Bruegel, Margherita la Pazza, particolare, 1563

Nella Divina Commedia, dove a Dante che cerca disperatamente di uscire dalla selva oscura appaiono tre fiere che lo vogliono ricacciare indietro, nel peccato, e, guarda caso, la più spaventosa delle tre fiere è l’insaziabile lupa, immagine  dell’avidità che divora gli esseri umani (Inferno, I, 94-99): «Che questa bestia, per la qual tu gride/ non lascia altrui passar per la sua via,/ ma tanto lo ‘mpedisce che l’uccide:/ e ha natura sì malvagia e ria,/ che mai non empie la bramosa voglia,/ e dopo ‘l pasto ha più fame che pria ».

Questa lupa squallida e magra, inferocita da “rabbiosa voglia”, è la nostra bestialità più profonda, è l’avidità radice di tutti i mali. Pieter Bruegel la raffigurò nei sordidi panni di Margherita la Pazza, l’orribile vecchia che, in uno scenario di devastazione e di dolore, trascina l’umanità verso la bocca dell’inferno, brandendo una spada nella mano destra e un sacco di cianfrusaglie nella sinistra: il simbolo delle guerre e dei crimini che lei fomenta, e quello degli effimeri beni a cui si tiene attaccata con rabbia demente.

O tes physeos ploutos, la ricchezza naturale, potrebbe ancora salvare l’umanità? Siamo ancora in tempo per riassaporare la dolcezza della sua promessa di pace, in un mondo dalle risorse stremate, che tra non molto dovrà sopportare il peso di dieci miliardi di abitanti? 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note 
[1] Massimo Jevolella, Il segreto della vera ricchezza. Dialogo tra un economista e un povero, Feltrinelli-Urra, Milano 2014.
[2] Ad Timotheum, 6, 10: «Radix enim omnium malorum est cupiditas: quam quidam appetentes erraverunt a fide, et inseruerunt se doloribus multis.»
[3] Le citazioni che seguono sono attinte da: Porfirio, Lettera a Marcella, Testo greco a fronte, Il Basilisco, Genova 1982.
[4] Versione mia, da Corano, libro di pace, Feltrinelli-Urra, Milano 2013: 162-163.
[5] A.M. Severino Boezio, La consolazione della Filosofia, Rizzoli, Milano 1976: 129-130 (Consolatio, II, 2-II). 
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Massimo Jevolella, si laurea in filosofia nel 1974 con Remo Cantoni con una tesi sull’utopia surrealista. Fin dal 1979 si dedica allo studio del pensiero islamico ed ebraico medievale. Negli anni ‘80 collabora con la rivista “Studi cattolici” e con l’Istituto di Storia della Filosofia dell’Università Statale di Milano. Pubblica articoli sulla rivista “Acme” della Facoltà, traduce testi filosofici dall’arabo (come il Libro dei cerchi di Ibn As-Sid al-Batalyawsi, Arché Editore), ed entra in contatto con i professori Giuseppe Sermoneta e Shlomo Pines dell’Università Ebraica di Gerusalemme (dove nel 1985 partecipa a un convegno internazionale su Maimonide, con uno studio sulle fonti arabe della profetologia nella Guida dei perplessi). Inizia lo studio dell’ebraico biblico con il Rabbino capo di Milano Giuseppe Laras. Negli anni ‘90 dirige la collana di libri “Spazio interiore” della Red di Como. Nel 1991 pubblica il libro di saggistica-narrativa I sogni della storia (Mondadori Oscar). Seguono i saggi: Non nominare il nome di Allah invano (Boroli 2004, con postfazione di Franco Cardini); Le radici islamiche dell’Europa (Boroli 2005); Saladino eroe dell’Islàm (Boroli 2006); Rawà, il racconto che disseta l’anima (Red 2008); la traduzione dall’arabo e curatela del Collare della colomba di Ibn Hazm (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2010); l’antologia coranica Corano, libro di pace (Apogeo-Feltrinelli-Urra 2013). La traduzione integrale in prosa e curatela del Romanzo della Rosa di J. De Meun e G. De Lorris (Feltrinelli UE 2016). Torna sul tema dell’utopia con uno studio sulla “città ideale” dei filosofi arabi, pubblicato nel 2012 sui “Quaderni di studi Indo-Mediterranei”. Intensa la sua attività di conferenziere, fin dai primi anni ‘80 e in molte città d’Italia, indirizzatasi sempre più sul versante del dialogo interreligioso e interculturale. Di recente, ha fatto dono degli oltre 700 volumi della sua biblioteca di cultura islamica ed ebraica alla Biblioteca del Seminario Vescovile di Mazara del Vallo (Fondo Jevolella).

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