Tra i tanti celebri “esperimenti mentali” usati dai filosofi morali per studiare la complessità e problematicità dell’etica, uno immagina che vi sia la possibilità di premere un pulsante e colpire a morte un terrorista imbottito di bombe che, a bordo di uno scuolabus, è sul punto di farsi saltare in aria assieme ai trenta bambini con cui si trova. Il dilemma da studiare è: se si è assunto come prioritario il principio della intangibilità della vita, o il comandamento “non uccidere”, qual è in questo caso l’azione doverosa? Premere il pulsante e uccidere motu proprio la vita di un assassino, oppure non fare niente e lasciare che il terrorista si suicidi, portando con sé altre trenta vite innocenti?
Questi esperimenti, detti anche “cruciali”, sono molto utili e vengono usati di solito per studiare e dirimere conflitti di valori; spesso, però, non sono particolarmente graditi da chi abbia assunto con decisione posizioni di principio e perciò non sia disponibile a metterle in discussione. È il caso, per esempio, di un esperimento mentale cruciale usato per mettere in discussione l’antispecismo, una posizione usata oggi per sostenere il veganesimo, per la quale non si dovrebbero fare distinzioni di valore tra una vita umana e una vita animale: assumendola, ne conseguirebbe che, laddove ci si trovasse di fronte a due zattere che stanno affondando in un fiume in piena, una con dieci bambini e l’altra con cinquanta pecore, e ne potessimo salvare una sola, dovremmo senza esitazioni dedicarci a quella con le pecore (cinquanta vite salvate invece di dieci), una scelta che non solo ci crea qualche imbarazzo, ma forse potrebbe persino essere perseguita per legge. Di fronte a questo esperimento mentale, un teorico del veganesimo – persona che conosco e di cui ho molta stima – ha ribattuto, quasi offeso, in un suo libro che si tratterebbe solo di un sofisma retorico: non è così, è viceversa la messa in luce di una spiacevole conseguenza non immediatamente visibile della teoria, o meglio di un’obiezione esterna che svela un’aporia tra ciò che abbiamo assunto esplicitamente – l’eguaglianza di valore di ogni razza animale – e ciò che abbiamo presupposto senza averlo esplicitato – che salvare dei bambini è più importante che salvare delle pecore. Ma laddove le assunzioni abbiano un valore sacrale o identitario, metterle in discussione, o anche solo rivederle (che non necessariamente significa abbandonarle in toto), incontra forti resistenze. Siamo umani, troppo umani…
È quel che vedo accadere in questo confuso, complesso e un po’ pericoloso periodo storico, nel corso del quale un’imprevista serie di accadimenti sociopolitici ha prodotto un rapido cambiamento nel panorama internazionale, riportando in primo piano la possibilità del coinvolgimento diretto dei Paesi europei in scenari di guerra, eventualità che nel corso degli ultimi ottant’anni si era a tal punto ridotta da far ritenere a chi sia nato in questo lungo periodo storico – cioè ormai quasi tutti i cittadini europei – che essa fosse semplicemente impossibile. A questa situazione, che ha spiazzato molta dell’opinione pubblica, si sono aggiunti da un lato la crescente deregolamentazione dei sistemi informativi, a causa della quale ciascun media si ritiene libero di raccontare i fatti – che pur ci sono – senza alcuna distinzione dalla propria interpretazione e dai propri giudizi su di essi – cosa che rende ormai possibile trovare fonti che supportino narrazioni completamente divergenti – e dall’altro la divaricazione sociale indotta dal bipolarismo politico vigente in pressoché tutti gli Stati e alimentata dal conflitto ideologico esploso nel periodo del Covid–19. Il risultato è stato – lo vediamo quotidianamente – il trionfo delle opinioni in libertà, spacciate per verità indiscutibili, quasi sempre però senza alcun solido dato a supporto e spesso anche contraddittorie nelle loro stesse enunciazioni.
Non solo: sarà la deriva d’aggressività assunta dal dibattito pubblico nel periodo della pandemia, sarà il dilagare del costume verbalmente violento indotto nei cittadini prima dai media televisivi – le cui agorà si sono da decenni trasformate in ring senza arbitro, nei quali si distingue chi urla e offende di più e non chi parla, riflette, argomenta – e poi dalle modalità comunicative richieste dai social network [1], fatto sta che di fronte all’incombere della prospettiva bellica il dibattito pubblico e i cittadini italiani hanno finito per perdere completamente la ragionevolezza, difendendo le rispettive posizioni a suon di pregiudizi, partiti presi, paure e interessi personali, in totale sordità reciproca e anzi accusandosi vicendevolmente di sostenere cose mai affermate.
Pacifismo, antimilitarismo e nonviolenza
Negli ottant’anni di pace in Europa [2] la società civile del continente ha giustamente sviluppato tanto un sempre più marcato spirito pacifista, quanto una cultura della nonviolenza, i quali hanno permesso la crescita di un sentimento antimilitarista. Tutto questo si è diffuso in modo diversificato sia di Paese in Paese, sia – e forse soprattutto – nelle varie componenti politiche: genericamente, era infatti maggiormente presente tra i cittadini orientati politicamente a sinistra, dov’era quasi egemone, e un po’ meno tra quelli orientati a destra, i quali – conservando un più forte sentimento nazionale – consideravano più importante la presenza di un esercito pronto a difenderne le frontiere (ed eventualmente anche l’ordine costituito). Tuttavia, il fatto che negli ultimi vent’anni di vere e proprie “frontiere” non si potesse più parlare, anche tra i conservatori l’importanza dell’esercito è inconsapevolmente scemata: la vera “frontiera”, anche per chi continuava ad avere un forte sentimento nazionale, era sempre più quella europea, per la difesa della quale esisteva la Nato, esercito transnazionale garantito dalla potenza militare ed economica statunitense. Un ultimo baluardo militare, però, che storicamente è sempre stato anch’esso osteggiato dai cittadini di sinistra, che mal digerivano l’invadenza “amerikana” – per anni l’aggiunta della “k” è stato il modo per manifestarne il disappunto – e, più in generale, la diffusa presenza di basi militari nel nostro Paese.
La si condividesse o meno, questa spinta pacifista e antimilitarista da parte della componente progressista della società civile era, in quegli ottant’anni di pace, assolutamente sensata: la pace perpetua e universale è un ideale dell’uomo, se non da sempre, sicuramente fin dall’epoca di Kant, che vi dedicò una sua opera ancor oggi attuale e fonte d’ispirazione per molti, e il momento giusto per lavorare a un tale ideale è sicuramente quando la pace è vigente. È allora, infatti, che si può diffonderne la cultura, che è possibile farlo anche in quelle civiltà meno pronte ad accoglierla perché ancora legate a modalità relazionali, usi e costumi maggiormente permeati dalla violenza e dalla sopraffazione, e che è possibile tentare, a scopo di esempio e di stimolo, anche il disarmo unilaterale, essendo meno elevato il rischio che chi detenga un maggiore armamento ne approfitti per farne uso.
Ma la cultura pacifista e antimilitarista, nel corso di questo periodo lungo quasi un secolo, per molti dei cittadini che l’avevano adottata si è trasformata in un principio identitario, in un sine qua non intoccabile e indiscutibile; e i principi, si sa, hanno pro e contro: se da un lato hanno la forza di imporsi senza mai essere dimenticati, dall’altra mancano della flessibilità necessaria per adattarsi alla mutevole complessità del reale. Così, come il principio “non uccidere”, nato per difendere il valore della vita, collassa di fronte al succitato paradosso del terrorista nello scuolabus, l’antimilitarismo nonviolento, nato per affermare la pace, va in crisi di fronte a un esercito che aggredisce un Paese: impossibilitato per ragioni identitarie a riconoscere la sua sostanziale impotenza, finisce per arrampicarsi sugli specchi e cadere in conflitti di valori e pragmatiche contraddizioni.
È questo il caso di Andrea Cozzo, professore dell’Università di Palermo che da molti anni promuove la nonviolenza, e di chi fa a lui riferimento per sostenere che le pratiche di quest’ultima siano una reale alternativa, per esempio, all’invio di armi all’Ucraina o a una qualche forma di riarmo europeo a fronte del probabile passo indietro degli U.S.A. rispetto alla NATO. Cozzo ha recentemente riassunto le proprie posizioni nel libro La nonviolenza oltre i pregiudizi, edito nel 2022 dall’editore trapanese Di Girolamo, nel quale egli definisce cosa sia da intendere per “nonviolenza”, prima argomentando in negativo:
«La nonviolenza non è ossequioso rispetto della legalità o della democrazia (…), non è pacifismo: infatti la pace (se intesa come assenza di conflitti) è un valore non assoluto, ma subordinato alla giustizia. (…), non è equidistanza fra contendenti: astenersi dal prendere posizione in un conflitto sarebbe vigliacca complicità con il più potente dei due, (…), non è utopia (…) ma una risposta praticabile ed efficace alle sfide del presente, (…) non è alibi per i deboli, per i pigri, i paurosi (…), può essere praticata solo da soggetti interiormente forti (…) disposti ad affrontare con coraggio ogni genere di rischio, compreso quello estremo di perdere la vita» [3],
poi in positivo:
«La nonviolenza è l’arte di pensare e condurre un buon conflitto in tutti gli ambiti della vita per la trasformazione della società e di noi stessi. Qualifico “buono” il modo di gestire un conflitto che sia efficace (nel senso che avvicini il più possibile all’ottenimento del risultato voluto) e sia eticamente accettabile (nel senso che mantenga costantemente il rispetto verso coloro con cui si confligge). Il nonviolento è convinto, infatti che la violenza (…) sia non solo evitabile, ma anche contro-producente» [4].
Da queste caratterizzazioni si possono trarre interessanti considerazioni. La prima è la distinzione di “pacifista” e “nonviolento”: il secondo non necessariamente è contrario alla guerra, ma solo a quella condotta con la violenza (fisica, si presume, perché le altre distinzioni non sono così immediate da fare) [5]. La seconda è che il nonviolento ha il dovere di schierarsi con chi subisce violenza e di essere attivo, fino a mettere a rischio la propria vita (altrimenti la pratica resta o utopica, o un “rifugio per pigri”). La terza è che c’è un’inevitabile opacità nella definizione tanto di cosa sia “efficace”, quanto di cosa sia “eticamente accettabile”. Infine, che decisiva per la scelta nonviolenta pare essere la convinzione riguardo alla sua efficacia. Un’importanza che viene confermata da quanto Cozzo opportunamente aggiunge poco dopo:
«Dal punto di vista nonviolento chi, non avendo fiducia nella nonviolenza o non conoscendola, si difenda con la violenza va rispettato perché opera avendo dalla sua parte la giustizia» [6].
Questo significa, allora, che la giustizia è un valore prioritario rispetto alla nonviolenza: senza di essa non c’è vera pace e perciò il nonviolento rispetta chi la difenda anche quando, mancando di fiducia in quella scelta, lo faccia usando la violenza. Tale caratterizzazione, però, rende di fatto quella nonviolenta una scelta non assoluta, bensì condizionata dalla sua efficacia, che infatti viene rivendicata da Cozzo. Tuttavia l’efficacia è una cosa sulla quale – essendo previsionale – nessuno può avere certezze: la sua stima muta non solo di situazione in situazione (non è cioè la stessa se dobbiamo fronteggiare disarmati un plotone di militari di un esercito in ritirata o una squadra di carri armati di un esercito che sta attaccando), ma è anche dipendente da parametri arbitrari e soggettivi, quali l’estensione temporale della stima, il significato che si dà alla “giustizia” rispetto alla quale si deve essere efficaci e alla menzionata “accettabilità etica”. Per esemplificare con il caso d’attualità, cioè la guerra in Ucraina, la stima può includere la mera conclusione del conflitto, ma può (e, personalmente, aggiungerei deve) allargarsi anche alle possibili conseguenze successive: estendersi cioè dai morti, feriti e perseguitati dopo un’eventuale invasione, fino a quelli che potrebbero seguire nel caso di un ampliamento del dominio del vincente in altri Stati, quali Estonia, Lituania, Lettonia, Romania, Finlandia, eccetera. Cambiando i criteri sui quali effettuare la stima, cambiano necessariamente anche la stima di efficacia e, con essa, la convinzione per la scelta nonviolenta.
Tutto ciò spiega non solo perché la cultura nonviolenta sia stata coltivata e diffusa soprattutto in tempo di pace, o comunque all’interno di Stati già invasi (nei quali prende più la forma di guerra civile che non di vera e propria guerra, che è quella tra Paesi) ma anche perché l’azione nonviolenta non sia mai stata realmente praticata di fronte a eserciti schierati per un’invasione o una conquista (nell’elenco di azioni nonviolente storiche riportato da Cozzo non c’è nemmeno un esempio): perché in quelle ben diverse situazioni mutava la stima della sua efficacia.
Si noti, comunque, che la soggettiva convinzione per l’azione nonviolenta non è funzione solo della complessa, mutevole e soggettiva stima dell’efficacia dell’azione, ma è condizionata anche da altri fattori, ancor più soggettivi: dalla maggiore o minore speranza e dal maggiore o minore realismo dei quali sia portatore l’individuo. Ne è prova un esempio, sempre tratto dal libro in esame: dopo aver ribadito che l’Ucraina, in quanto “Paese assalito”, aveva tutto il diritto di difendersi nella maniera che riteneva più opportuna, Cozzo elenca alcune azioni nonviolente che avrebbero potuto essere attuate in alternativa alla difesa armata:
«In primo luogo, era possibile mettere in atto una opposizione nonviolenta, schierando ai confini non esercito e carri armati ma decine di migliaia di civili (donne, uomini, bambini), con i satelliti e tutti i media internazionali, soprattutto le televisioni puntate su di loro. Riusciamo a immaginare uno scenario che preveda bombardamenti su di loro?»
Che la domanda conclusiva sia posta in forma retorica, come se per Cozzo fosse del tutto scontato un bel “no”, a mio parere è prova del suo avere una forte componente di speranza e uno scarso realismo. Personalmente, tutto al contrario, non solo risponderei che sì, possiamo ben immaginarlo, ma che addirittura lo abbiamo anche visto realizzarsi (quasi) in diretta, nei bombardamenti israeliani su Gaza, giustificato dall’accusa alla parte avversa di aver usato quei civili innocenti come “scudi umani”. Ma, anche senza far riferimento a quell’orrore che abbiamo davanti tutti i giorni e che i governi di tutto il mondo continuano a far finta di non vedere [7], non ci bastano le mostruosità che l’uomo è stato in grado di fare nella storia per farci riconoscere che la speranza che quei civili schierati non vengano ignorati e schiacciati sia ben poco fondata? Mi par già di sentirlo, il simpatico Ministro degli Esteri russo Lavrov, accusare il corrotto e decadente Occidente di aver mandato al macello degli innocenti per il cinico obiettivo di far fare loro da scudo ai nazisti del battaglione Azov… Del resto, perché mai chi è pronto a spegnere vite armate dovrebbe arretrare di fronte alla necessità di fare la stessa cosa con vite non armate? Anzi, se si tien conto della violenza psicologica cui accennavamo in precedenza, il militare che la subisce può persino diventare più cinico e aggressivo. Ci vogliono molta speranza e poco realismo per pensare il contrario; e la speranza, al diversamente dal realismo, porta molto spesso a fare la scelta sbagliata.
Questa, si potrebbe obiettare, è però solo la mia convinzione. Vero. Tuttavia essa è anche largamente condivisa, visto che quando, all’inizio della guerra, ho io stesso proposto interposizioni disarmate di quel tipo a numerosi sedicenti pacifisti nonviolenti, mi sono sistematicamente sentito rispondere che ci andassi io a farle: a loro sembravano bastare sterili e sicurissime manifestazioni contro la guerra, “pigramente” fatte sotto casa propria. Del resto, quante di queste azioni sono state realmente messe in atto negli oltre due anni di guerra? Perché chi le promuove e le presenta come “alternative” non le ha messe in atto?
Queste ultime considerazioni altro non sono che la spia del fatto che oggi manca affatto la preparazione per far sì che i cittadini siano pronti a prender parte a simili opposizioni nonviolente. Nel suo libro, infatti, tra le misure di difesa nonviolente da attivare Cozzo elenca anche un Dipartimento di Difesa Civile non armata e non violenta, sorta di servizio militare disarmato, atto prima ad addestrare i cittadini a opposizioni sì nonviolente, ma comunque soggette alle possibili altrui violenze, poi a richiamarli e organizzarli al momento di farle. Qualcosa che oggi è ben lontano dall’esserci e che rende la pretesa “efficacia” della resistenza nonviolenta estremamente implausibile.
Non solo, un’altra delle misure di difesa nonviolenta proposte da Cozzo nel suo libro è attualmente del tutto incompiuta: il transarmo, cioè il passaggio al disarmo multilaterale di tutti i Paesi, il quale eliminerebbe la possibilità dell’impari e pericolosissima disputa tra civili disarmati e carri armati comandati da cinici despoti. Infatti, come vedremo, in assenza di un tale disarmo di tutte le parti le condizioni di possibilità della pace richiedono che tutte le parti siano invece armate, per impedire che le poche che lo sono se ne approfittino, esercitando violenza a proprio tornaconto.
Tutto questo, e altro ancora, oggi non c’è, e in sua assenza appellarsi ad azioni non violente per opporsi all’invio di armi o alla riorganizzazione di un esercito europeo che difenda il continente in attesa del completamento del transarmo e del Dipartimento di Difesa Civile, è o ingenuo, o demagogico. Ciò non getta nessun discredito sulla cultura nonviolenta, anzi, ne rende ancor più importante la diffusione: essa deve essere estesa a tutte le Nazioni e devono essere realizzate le misure che ne rendano pienamente efficace l’azione concreta. Quel che invece salta chiaramente agli occhi è che l’azione nonviolenta non è ancora in grado di sostituirsi alla difesa violenta, perché mancano le condizioni perché essa sia efficace. Un suo fallimento, inoltre, la riporterebbe indietro anche nella sua diffusione, essendo ben difficile che un regime autocratico impostosi con la violenza sia disposto a lasciar coltivare la resistenza nonviolenta.
Se ne deduce perciò che la nonviolenza non è una risposta alternativa nel caso di aggressioni armate: non lo è sicuramente oggi, perché mancano le strutture e la preparazione civile per effettuare opposizioni nonviolente che siano sufficientemente partecipate e incisive da essere efficaci; non lo sarà, forse, neppure in futuro visualizzabile, perché è fortemente dubbio, come vedremo, che la nonviolenza possa mai essere davvero efficace al cospetto della violenza armata, ragione per cui la pratica nonviolenta del conflitto richiede il totale disarmo multilaterale, cosa oggi ben lontana a venire e forse persino utopica. La cultura della nonviolenza resta ciononostante una cosa importante, da sostenere, diffondere e anche praticare nei conflitti in tempo di pace, al fine di impedire che le guerre armate possano scoppiare in futuro; ma quando ciò avvenga può essere al massimo un complemento alla difesa armata, non un suo sostituto.
Le condizioni di possibilità della pace
Ma a dichiarare che non ci sia alcun bisogno né di inviare aiuti al popolo ucraino sotto assedio, né di finanziare la creazione di un nuovo esercito europeo a difesa delle frontiere continentali, non sono solo i movimenti nonviolenti. Proseguendo nell’atroce deriva irrazionalista che, strisciante ormai da molti anni, ha preso definitivamente corpo con la pandemia da COVID–19, sono infatti molti a rigettare queste opzioni, semplicemente negandone la necessità.
Tralascerò qui quelli che la negano perché in qualche modo danno ragione a chi ha di fatto dichiarato guerra invadendo l’Ucraina, semplicemente perché chi lo fa giustifica la guerra come strumento di risoluzione delle controversie: fosse anche vero che la Russia si sentisse minacciata dalla NATO [8] o che nel Donbass fossero in atto stragi di russofoni, l’invasione dell’Ucraina resterebbe per qualunque pacifista totalmente ingiustificata e ingiustificabile. E su questo non ha senso aggiungere alcunché.
M’interessa di più, invece, discutere le posizioni di coloro che “non credono” che Putin sia “il nuovo Hitler” o che sia interessato a invadere l’Europa. Nessuno ha infatti mai detto che Putin sia il nuovo Hitler, neppure Mattarella quando – certo un po’ inopportunamente, ma solo dal punto di vista diplomatico – ha avvicinato la situazione in corso all’invasione tedesca della Polonia: Putin è “solo” un autocrate che governa il proprio Paese eliminando fisicamente e sistematicamente i propri oppositori, cambiando ripetutamente la Costituzione per rimanere al potere e mostrandosi ai propri concittadini come il restauratore della Grande Russia di Pietro il Grande; è un capo di Stato che, per tener fede alla sua immagine, ha invaso sistematicamente tutti i Paesi satelliti che non accettavano di sottostare al suo controllo per procura, sterminando il popolo ceceno, e che ha palesemente condizionato con strumenti fraudolenti anche pronunciamenti elettorali nei Paesi democratici [9], da lui esplicitamente ritenuti “corrotti” nei costumi e nelle forme istituzionali [10]. Che un simile soggetto non voglia invadere anche le repubbliche baltiche, la Moldavia, la Romania e – perché no? – anche la Finlandia, in effetti bisogna crederlo, perché ciò che sappiamo non ci offre alcun elemento per ritenerlo improbabile. È forse possibile ritenere poco plausibile ch’egli voglia invadere la Germania o l’Italia; ma ciò basta a sottrarci dalla responsabilità che abbiamo nei confronti di Paesi di fatto europei non solo per cultura e per elezione, ma anche perché già inclusi formalmente nella UE. Pur non essendo “il nuovo Hitler”, Putin è e resta una reale minaccia, come il suo comportamento recente (Crimea, Ucraina) e passato (Cecenia, Georgia) sta ben a dimostrare.
Tra i tanti, il filosofo Andrea Zhok ha viceversa provato a dimostrarci che non ci sia da temerlo, in quanto non avrebbe interesse a invadere l’Europa: la Russia è una terra grande più di quanto serva alla sua popolazione e ricca di risorse, laddove l’Europa è invece già sovrappopolata e priva di materie prime; quindi, perché Putin dovrebbe invaderla? Ora, essendo un filosofo – così come alcuni altri che hanno riportato plaudenti le sue parole – Zhok dovrebbe conoscere il passo delle Guerre del Peloponneso ove Tucidide riporta il celebre discorso degli ateniesi ai cittadini di Melo, un passo su cui ha riflettuto il compianto Franco Cassano nel suo L’umiltà del male [11]. Tucidide vi mostra chiaramente che quando un sistema politico si basa sulla forza, la supremazia e la guerra – come quello ateniese allora, quello russo attuale e molti altri nel passato e, con ogni probabilità, nel futuro – non sono gli interessi a essere determinanti nella decisione sull’uso della violenza, bensì il prestigio: all’offerta dei Melii di non sottomettersi ad Atene per dar vita a un’amichevole alleanza, la risposta degli ateniesi è infatti:
«No, perché la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto la vostra amicizia, manifesto esempio per i sudditi della nostra debolezza, mentre l’odio lo è della nostra potenza» [12].
Ora, se questo valeva nel V secolo a.C., quando l’interesse per i beni materiali era assai maggiore, figuriamoci quanto vale oggi che a essere centrali sono i beni speculativi, il possesso e la dimensione dei quali sono direttamente proporzionali al prestigio – cosa ulteriormente dimostrata dal modo in cui i potenti sbandierano anche grossolanamente la loro prepotenza. Oggi poter vantare superiorità e successo, incutere timore e produrre sottomissione sono condizioni sufficienti per far alzare a dismisura il valore di azioni e ottenere crediti illimitati: altro che Lebensraum o materie prime! Evidentemente Andrea Zhok è rimasto alla cultura sociale dell’Ottocento e di Tucidide non ha mai sentito parlare.
Un’altra alternativa per nascondere la testa come gli struzzi e non vedere la realtà ce l’offre ancora un filosofo, Gianfranco Pellegrino, che su “Domani” semina socraticamente dubbi su dubbi riguardo a tutte le possibili opzioni di lettura della realtà: ma davvero qualcuno ci minaccia, o non sono solo fake news? Abbiamo di fronte tre blocchi – USA, Russia ed Europa – o non sono invece molti di più? Sarà meglio la deterrenza armata o non piuttosto quella diplomatica? E se alla fine venissimo davvero attaccati, non sarebbe preferibile non reagire? E via discorrendo, fino però ad arrivare in fondo non come Socrate – ossia del tutto privi di risposte, lasciandoci pensosamente a riflettere – bensì con una ben precisa conclusione: guarda caso, che di armi è meglio non parlare neppure.
Insomma, per quanto sia vero che la filosofia è l’arte dell’astrazione, in tutti questi contributi si finisce sempre immancabilmente per girare al largo dal problema concreto – vogliamo/dobbiamo difendere quell’Europa dove viviamo da ottant’anni in prosperità e in pace? E se sì, come? – tornando beatamente ogni volta alla nostra desiderata speranza: un’idealistica pace incondizionata, a dispetto della realtà di una guerra alle porte di casa.
Questa fuga dalla realtà, questo disconoscimento dei dati di fatto necessario a non abbandonare i propri desiderata e le personali posizione identitarie, non sono però solo un’esclusiva dei filosofi: come accennato in apertura, almeno dall’epoca della pandemia sono palesemente diffusi in una fetta piuttosto ampia della società. Quella, per esempio, che si è indignata delle parole che lo scrittore Antonio Scurati ha riportato in un suo articolo di “La Repubblica” [13], forse leggendone solo il titolo – Dove sono ormai oggi i guerrieri d’Europa? – e interpretandolo come un lamento malinconico per i bei tempi in cui il sangue delle battaglie rendeva hegelianamente fertili i campi d’Europa. In realtà, le parole di Scurati erano di fatto una forte valorizzazione della pace:
«Fu un balzo di civilizzazione. Le grandi conquiste europee, e solo europee, del secondo dopoguerra (il diritto alla salute e all’istruzione per tutti, il superamento di maschilismo e razzismo, lo sviluppo di una coscienza pacifista e ambientalista, solo per citarne alcune), scandiscono questo nostro avanzare regressivo verso forme di vita che estendano a ogni età le cure amorevoli riservate all’infanzia o, addirittura, i privilegi embrionali di protezione e nutrimento. Questa è la civiltà: il grande utero esterno. È così che si diventa umani: lasciando fuori la durezza ma mettendola di sentinella alla porta. Ripudiando la guerra, non siamo solo diventati imbelli, siamo diventati migliori. Ce lo ricorda e conferma l’osceno spettacolo della spregevole brutalità esibito in queste ore in mondovisione dal Presidente degli Stati Uniti d’America. Al suo cospetto viviamo un momento di alta chiarificazione esistenziale, ritroviamo la fierezza di essere europei, di non essere come lui».
Ciononostante, contro di lui si sono scagliati a migliaia, dandogli del guerrafondaio e accusandolo persino di essersi occupato così a lungo di Mussolini perché, in fondo, aveva la stessa cultura. Nessuno ha citato né il “balzo di civilizzazione”, né tantomeno che “ripudiando la guerra (…) siamo diventati migliori”: l’unica cosa che è balzata agli occhi dei critici è l’affermazione che saremmo diventati “imbelli”. Caratterizzazione che diventava gravissima se avvicinata a un’altra osservazione di Scurati:
«Il pacifismo è stata una rivoluzione culturale, e va meditato, rispettato ma non potrà mai diventare una piattaforma politica. Per tutti questi motivi, l’imminente ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo, acquisito una volta e per tutte il ripudio di ogni guerra aggressiva, nazionalista, imperialista, dovrebbe essere un passaggio cruciale affinché l’Europa ritrovi lo spirito combattivo e, con esso, il senso della lotta. Fummo allora, noi europei d’occidente, per l’ultima volta guerrieri. La Resistenza Antifascista ci ricorda perché ripudiammo la guerra ma ci insegna anche le ragioni per prepararci, se necessario, a combatterla».
Peccato che, piaccia o non piaccia – e sono tra quelli a cui non fa piacere –, queste parole non facciano una grinza: sono purtroppo una spiacevole verità, visto che anche chi si oppone alla guerra o propone alternative nonviolente lo fa solo offrendo alternative basate sulla speranza e non sul realismo, mostrando in tal modo, di fronte alla guerra, di essere incapace non solo di combatterla (cosa che sarebbe sempre meglio poter evitare), ma anche di farle fronte in modo costruttivo ed efficace.
Analoghe accuse di essere un bieco guerrafondaio sono state indirizzate a quel moderno tafano filosofico che è Umberto Galimberti, il quale – invitato a un dialogo televisivo con Corrado Augias [14] – come suo solito è rimasto concretamente legato ai fatti, tenendo assieme l’astratto argomentare filosofico e il concreto turbamento che lo innesca. Così, dopo aver affermato di essere assolutamente convinto che Putin non si fermerà all’Ucraina, perché il potere totalitario che ha consenso – e Putin lo ha, sia nel suo Paese, sia al di fuori, essendo appoggiato da Trump – non può fermarsi o (come dicevano gli ateniesi ai melii) lo perderà, Galimberti ha ricordato proprio quanto scritto da Scurati qualche giorno prima: che la pace in cui viviamo da ottant’anni in Europa non solo è nata grazie alla forza – la Resistenza, la guerra ai totalitarismi, la difesa dal loro ritorno – ma che ci ha reso da un lato migliori, dall’altro imbelli. Così com’era avvenuto per Scurati, proprio su quell’aggettivo si sono nuovamente concentrate le critiche. Ma il significato primario di “imbelle” è solo “inadatto alla guerra” [15] – cosa che tra l’altro giustifica l’affermazione di Scurati, secondo il quale la pace ci avrebbe reso anche “migliori” –, ossia incapaci non solo di fare la guerra, ma anche di confrontarci con essa e con la violenza di cui è figlia, e di cui c’è purtroppo sempre bisogno per non essere sopraffatti da chi la voglia di nuovo usare. Un fatto che Galimberti ha poi ricordato affermando:
«La democrazia non si difende soltanto andando in piazza a urlare “Democrazia!!!”. Si difende da chi la vuole sopprimere – come vogliono Trump e Putin – facendo crescere anche il tuo livello di forza per poter competere con chi capisce solo la forza».
Un’affermazione chiara e forte, tanto che Augias ha immediatamente osservato che avrebbe prodotto forte dissenso, «perché l’idea di una pace a qualunque costo, dopo ottant’anni di pace che non si erano mai verificati in Europa, è talmente radicata che le sue parole suonano esplosive». E qui Galimberti ha recuperato Tucidide, che lo stesso Augias aveva letto nel prologo del dialogo:
«Bisogna distinguere sempre i desideri e la speranza dai dati di realtà. C’è un passaggio nel testo di Tucidide in cui gli ateniesi dicono agli abitanti di Melo: voi avete la speranza, ma la speranza è un conforto del cuore, non è una forza che vi consenta di compensare la vostra debolezza. E allora noi desideriamo la pace, speriamo in essa, ma se non la sappiamo difendere – la pace, la democrazia, i diritti – la speranza e il desiderio andranno delusi».
Perché ci sia la pace è dunque indispensabile impedire l’uso della forza, ma impedirlo richiede l’uso della forza: non è un paradosso, è la realtà. Gli ottant’anni di pace in Europa dipendono infatti da due fattori:
- che gli Stati europei si siano progressivamente trasformati in membri di un’unione, cessando così di confliggere tra loro;
- che quell’unione fosse difesa dalla Nato, cioè da un esercito comune.
Questi due fattori, che hanno svolto la loro funzione in Europa a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, sono riconducibili ad altrettante vere e proprie condizioni di possibilità della pace:
- Sono gli Stati Nazionali a farsi la guerra tra loro; abolendoli la guerra cesserà;
- Finché c’è uno Stato, anche federato e multinazionale, deve esserci un suo esercito che ne difenda l’integrità e funga da deterrente per ogni violenza che altri Stati vogliano esercitare su di lui.
Se vogliamo essere pacifisti, se vogliamo evitare che la guerra si riproduca, dobbiamo sempre tener conto di questi due fattori. E dunque, se ci si è sempre (giustamente) lamentati dell’influenza nefasta che gli USA esercitavano sull’Europa attraverso la NATO, oggi che possiamo liberarcene non basta però semplicemente eliminare quell’esercito che difendeva e dava unità all’Europa: dobbiamo sostituirlo con una difesa indipendente, solamente europea, da un lato indispensabile al proseguimento di quella pace, dall’altro che può fungere da cavallo di Troia per l’accelerazione della tanto reclamata piena integrazione politica dell’Europa come Unione Federale di Stati[16]. Pensarne l’eliminazione per spirito antimilitarista o seguendo il populistico argomento del “risparmio di risorse a vantaggio di sanità e istruzione” è una follia che prepara guerre future.
Chi lo capisce, scende in piazza per l’Europa, si batte affinché le spese per la difesa siano dirette non al riarmo degli Stati – come vuole la von der Leyen e che ripristinerebbe le condizioni di guerra tra di loro – bensì alla costruzione di un esercito europeo, lavorando in tal modo per far proseguire la pace che da ottant’anni regnava nel continente, prima delle scellerate azioni russe in Crimea, Georgia, Ucraina; chi invece non lo capisce è un pericoloso sognatore, che ignorando la realtà e camminando a molti metri da terra lascia la strada libera a chi – come Putin, Erdogan, gli stessi USA – voglia come gli ateniesi approfittare della superiorità della propria forza, per tornare poi ad avvalersi della sua superiorità con nuove guerre. Anime belle nelle intenzioni, guerrafondai nei fatti.
Per un pacifismo non antimilitarista
«Dottrina, o tendenza, che rifiuta e condanna il ricorso alla guerra e a ogni tipo di scontro armato o di aggressione come mezzi per risolvere le controversie internazionali, e vuole dimostrare la necessità del mantenimento o ristabilimento della pace tra i popoli, da raggiungere solo attraverso trattative o arbitrati. Anche il movimento che diffonde tale dottrina e vuole ottenerne l’attuazione pratica».
Così il vocabolario Treccani online definisce “Pacifismo”, un termine oggi sulla bocca di tutti, visto che la guerra, lungi dall’essere stata evitata, l’abbiamo sulla porta di casa e ci coinvolge indirettamente tutti. Come si vede, in tale definizione non c’è nessun riferimento diretto all’antimilitarismo o al rifiuto assoluto delle armi: così come, l’abbiamo visto in precedenza, nonviolento non equivale a pacifista, allo stesso modo pacifista non equivale ad antimilitarista.
Ad ascoltare commenti, leggere i giornali e seguire i media, risulta chiaro che non tutti i nostri simili siano pacifisti. Come del resto è ovvio: da che mondo è mondo la guerra c’è sempre stata e basta una minima riflessione antropologica per ritenere quantomeno dubbio che possa mai scomparire del tutto. Il che non è affatto una buona ragione per non essere pacifisti: seguire una dottrina che si ritiene giusta è un ideale regolativo, e poco importa che si possa o meno realizzarne interamente l’obiettivo. Infatti, personalmente sono – e sono sempre stato – un pacifista.
Non lo sono invece, per certo, né il governo russo, né i dirigenti della Nato, né, probabilmente, i tanti che in TV o sui giornali parlano in questi due anni hanno parlato di “vittoria” o “annientamento di Putin”, rallegrandosi delle battaglie a favore dell’esercito ucraino o degli affondamenti di navi russe. I primi, banalmente, non lo sono perché la guerra l’hanno scatenata. I secondi, forse un po’ meno banalmente, perché di mestiere attendono che le guerre esplodano per combatterle, ancorché per difesa: non hanno scelto di fare i diplomatici per evitare che scoppino, o i corpi di interposizione nonviolenta per opporsi a mani nude a chi la scatena, bensì di risponderle militarmente – sebbene sia convinto che non pochi di loro preferiscano che le guerre non scoppino, così da potersene restare tranquilli a fare innocue esercitazioni, il che alla fin fine significa che anche tra essi ci sono pacifisti. Gli ultimi, infine, non lo sono perché si sono fatti prendere da un gioco vecchio come il mondo: fanno il tifo per una parte e neppure si rendono conto che la loro è un’esultanza sul sangue che scorre.
Per quanto mi riguarda, da pacifista, non posso che riconoscere, ancorché a malincuore, che finché ci saranno armi e Paesi armati con chiare intenzioni aggressive – come è il caso della Russia, della Corea del Nord, dell’Iraq trent’anni fa e di tanti altri – sarà anche assolutamente necessario che esistano eserciti difensivi, quindi anche apparati com’è stata per più di mezzo secolo la Nato e come potrebbe essere in un prossimo futuro un esercito europeo. Discende dalla citata seconda condizione di possibilità della pace. Della NATO non mi sono mai piaciute tante cose – in gran parte superabili se ne uscissero gli U.S.A. – ma, in generale, ritengo sia stata un insostituibile strumento al servizio di Paesi pacifici, nel caso che questi fossero stati aggrediti da Paesi non pacifici [17]. L’alternativa mi pare inaccettabile fino all’assurdo: lasciare che qualsiasi aggressivo prepotente, o perfino pazzo, si armi e imponga la propria volontà a chi è pacifico. Se essere pacifisti significa predisporre le condizioni affinché chi voglia usare la forza e le armi non lo possa fare, allora oggi il pacifista non può essere antimilitarista.
Da due anni un Paese – o almeno un gruppo dirigente – non pacifista, aggressivo e prepotente ha scatenato una guerra di conquista, violando i diritti di autodeterminazione di quaranta milioni di persone: gli ucraini. Abbiamo un aggressore e un aggredito, dei violenti e delle vittime. Qual è il compito del pacifista? Sicuramente quello di condannare la guerra e di lavorare per fermarla; ma certo, nel frattempo, anche quello di occuparsi della difesa degli aggrediti [18]. Sul primo piano la risposta antimilitarista c’è, ma è fatalmente troppo debole: perlopiù si riduce ad appelli e manifestazioni. Leciti, anzi, doverosi e meritori, ma di fatto quasi inutili: perché mai i responsabili della guerra – la classe dirigente russa – dovrebbero ascoltarli? Non hanno alcuna ragione per farlo, sono riusciti a disinnescare perfino gli appelli di un’autorità morale e religiosa qual era Papa Francesco, contrapponendogli Kirill. Né stanno ascoltando la diplomazia – alla quale anche si appellano i nonviolenti – che si è di fatto mossa parecchio, forse non nel modo più adeguato, ma chi mai può dare giudizi sulla qualità degli interventi diplomatici in un frangente così complesso? Certo, anche i pacifisti nonviolenti e antimilitaristi potrebbero fare di più, molto di più, visto che le azioni di resistenza nonviolente vengono sì indicate e propugnate, ma quasi mai messe in atto: come abbiamo visto, la cultura, la preparazione, le strutture non oggi sono sufficienti, cosicché alla fine restano solo belle proposte, intenzioni e manifestazioni o appelli, utili solo a confortare le coscienze, non a fermare la guerra o a difendere le vittime. Si pensa a coloro che muoiono nel conflitto, non a quei quaranta milioni di persone che rischiano di essere costrette con la forza delle armi a fare scelte non autodeterminate e che chiedono le si aiuti a resistere, quantomeno inviando loro le armi per farlo. Tantomeno si pensa alle altre molte decine di milioni di persone che, in caso di “vittoria” russa, rischiano di trovarsi nella stessa situazione: i Paesi confinanti con l’Ucraina, gli ex membri dell’U.R.S.S., forse, nel lungo periodo, perfino il centro dell’Europa.
Di fronte a tutto questo non si può essere pacifisti restando meramente nonviolenti e antimilitaristi, né si può chiedere di fermare la guerra proprio a chi è stato aggredito, imponendogli poi, con la resa, di pagarne il conto. E neppure ha valore sostenere che inviando armi ci saranno altre vittime: nessuno sa, o può stimare, se ce ne saranno di più continuandola o fermandola, visto che dopo, oltre un governo imposto dagli invasori, ci saranno certo repressioni, resistenze, violenze e molto probabilmente altre invasioni, con vittime impossibili da stimare.
Un pacifista deve certamente fare appelli e reclamare l’intervento della diplomazia per fermare la guerra, ma deve anche aiutare le vittime a difendersi e impedire che chi ha usato le armi a fini di conquista e sopraffazione ne goda i frutti, rallegrandosene e preparandosi a ripetersi. Inventiamoci dunque tutte le difese nonviolente possibili ma, in mancanza di azioni che non siano flebili e inevitabilmente destinate a mostrare nei fatti che scatenare la guerra alla fine paga, diamo agli ucraini tutte le armi possibili e prepariamo un esercito europeo perché quanto accaduto non si ripeta. Essere pacifisti e militaristi non è una contraddizione, bensì l’unica realistica strategia pacifista in tempo di guerra, che tiene conto anche della difesa delle vittime, della giustizia violata e delle possibilità che tutto ciò possa ripetersi.
Ciononostante, da pacifista che non si oppone all’invio delle armi a scopo difensivo e che propugna l’istituzione di un esercito europeo, ho comunque grande rispetto per chi, invece, tutto questo non lo vuole e soffre per le vittime ingegnandosi a cercare un modo diverso per aiutarle: credo sbagli, ritengo faccia danno, ma lo capisco e lo rispetto perché le sue intenzioni sono buone e a essere sbagliato sono la sua convinzione e la sua stima dell’efficacia degli strumenti che propone, alterate dal suo eccesso di speranza e dal suo scarso realismo. Non lo condanno, perciò, e chiedo a lui di fare altrettanto. Restiamo uniti: siamo entrambi pacifisti. Collaboriamo e dialoghiamo: non c’è una strada sicuramente giusta per arrivare alla pace, spesso la scelta dipende dagli umori di chi la fa, talvolta anche dal non aver capito, o voluto accettare, cose che magari attraverso un dialogo sereno tra chi ha le medesime intenzioni possono arrivare a modificare la sua convinzione. Né gli uni ostacolano gli altri, perché le azioni nonviolente possono stare accanto alla resistenza armata e le trattative, lo si sa bene, si fanno anche avvalendosi tanto del teatrino delle bellicose dichiarazioni ufficiali, che spesso non hanno nulla di vero, quanto dei rapporti di forza, che in guerra è inevitabilmente quella armata.
Restiamo uniti anche perché, invece, i veri guerrafondai possono approfittare delle divisioni tra i pacifisti: come sta accadendo in Parlamento Europeo, ove le spese per il riarmo stanno per essere indirizzare nella direzione peggiore – ovvero facendo riarmare gli eserciti nazionali, pronti così a confliggere tra loro, invece che dando vita a un esercito europeo – grazie anche al fatto che i voti dei pacifisti si dividono. E ricordiamo sempre che non può esserci pace se si abbandonano le vittime della guerra al loro destino, se alla fine del conflitto non c’è giustizia, se chi ha scatenato la guerra sa di poterlo rifare e tornare a vincere. La pace, lo si è visto sopra, ha le sue condizioni di possibilità e tra queste c’è il principio dei rapporti di forza: perciò oggi, a malincuore, dobbiamo riconoscere che il pacifismo non si sposa con l’antimilitarismo. Quel matrimonio è un ideale regolativo, che dobbiamo perseguire in tempo di pace, per giungere nel lungo periodo all’eliminazione degli Stati Nazionali e/o a un disarmo multilaterale, ma che dobbiamo saper abbandonare temporaneamente quando la guerra infuria, per impedire che il potere sia tutto nelle mani di chi la forza armata la vuol esercitare a proprio vantaggio su chi è pacifico.
Quando quell’ideale – oggi lontano, ma non irraggiungibile – sarà realizzato, pacifismo, antimilitarismo e nonviolenza finalmente coincideranno. Fino ad allora difendere la pace senza le armi non può che avere per esito l’infausto dominio della guerra.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
[*] Parti di questo articolo erano apparse su Filosopolis, il blog dell’autore, https://filosopolis.wordpress.com.
Note
[1] Su come il famigerato “algoritmo” non sia altro che un modo per creare echo chambers e comunità settarie, così da alzare il livello dello scontro e con esso la spettacolarizzazione che richiama followers, vedi Walter Quattrociocchi e Anteonella Vicini, Polarizzazione. Informazioni, opinioni e altri demoni dell’infosfera, Franco Angeli, Milano 2023, e Antonio Pavolini, Unframing. Come difendersi da chi può stabilire cosa è rilevante per noi, Ledizioni, Milano 2020.
[2] Ovviamente trascuro qui la guerra nei Balcani, in parte perché riconducibile a una guerra civile (si è svolta durante la disgregazione della Jugoslavia, tra quelle che erano delle sue “regioni”, e gli interventi esterni, giusti o sbagliati che fossero, avevano di mira il suo contenimento e non un’invasione), in parte perché estranea a l’organizzazione che ha reso possibile quel lungo periodo di pace, cioè la progressiva unificazione degli Stati europei.
[3] Andrea Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi, Di Girolamo, Trapani 2022: 11–12.
[4] Op. cit.: 14.
[5] In realtà Cozzo , nel testo citato, si dichiara contrario anche alla violenza verbale e psicologica (Op. cit.: 15–16), ma quest’ultima è di fatto presente in molte delle sue proposte di lotta nonviolenta: che altro è lo schierare donne e bambini di fronte ai carri armati invasori, come proposto nel caso dell’invasione russa in Ucraina, se non una violenza psicologica nei confronti di chi quei carri li guida, stringendolo tra l’incudine di sparare sugli inermi e il martello di essere fucilato dai suoi superiori nel caso non lo faccia? Va benissimo che lo si faccia, è chiaro, ma si riconosca che comunque di violenza psicologica si tratta.
[6] Op. cit.: 29.
[7] Per inciso, anche quel conflitto atroce è impensabile interromperlo senza una forza terza, armata, che divida i contendenti obbligandoli a disarmarli. Settant’anni di fallimenti diplomatici, tuttavia, pare non siano stati sufficienti a farlo capire.
[8] E non lo è, perché la Nato è un’organizzazione difensiva che, anche quando ha svolto operazioni quantomeno discutibili, non ha mai invaso alcun Paese. Su questo punto sono molte le mistificazioni, che giungono a annoverare persino le guerre statunitensi in America Latina come opera della NATO (sic!).
[9] Cfr. Marta Ottaviani, Brigate russe. La guerra occulta del Cremlino contro l’Occidente, Bompiani, Milano 2023.
[10] Cfr. Mara Morini, La Russia di Putin, Il Mulino, Bologna 2020.
[11] Laterza, Bari 2012.
[12] Tucidide, Le guerre del Peloponneso, V, 84–114.
[13] https://www.repubblica.it/cultura/2025/03/04/news/guerrieri_europa_scurati_guerra–424041770/, La Repubblica, 4 marzo 2024,
[14] https://www.la7.it/la–torre–di–babele/rivedila7/la–torre–di–babele–anno–i–le–regole–delletica–11–03–2025–585484
[15] Dizionario Treccani online, https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/imbelle/.
[16] È chiaro infatti che un esercito europeo non può avere che un comando comune, per costituire il quale diventa indispensabile una federazione degli stati europei oggi ancora da realizzare.
[17] È singolare come la NATO venga oggi accusata da più parti di aver scatenato guerre in ogni dove e di aver invaso Paesi: lungi da me ritenerla un ente benefico e puro, ma tutto ciò è semplicemente falso. Le sole azioni di guerra in cui era coinvolta la NATO erano azioni decise dall’ONU, non da lei, con l’esclusione dell’intervento in Serbia, il quale – discutibile quanto si vuole – non era un’invasione.
[18] Come abbiamo visto sopra, anche chi propugna la nonviolenza riconosce la sua subordinazione alla giustizia e alla difesa di chi viene attaccato.
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Neri Pollastri, filosofo, è nato, vive e lavora a Firenze. Dal 2000, primo in Italia, svolge la professione di consulente filosofico, privatamente e in strutture pubbliche. Sulla materia ha pubblicato tre libri e una cinquantina di articoli, l’ha insegnata in diverse Università ed è stato relatore in convegni italiani e internazionali. Si è occupato attivamente anche del pensiero di G.W.F. Hegel, sul quale ha pubblicato un libro, di filosofia della scienza, filosofia politica e di estetica musicale. Scrive sul blog Filosopolis (filosopolis.wordpress.com), il suo sito Internet è www.neripollastri.it, quello del suo istituto di ricerca e formazione www.istitutodiconsulenzafilosofica.it.
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