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Dove risiede l’ontologia dello Stato-nazione? Una risposta a Pietro Vereni

126126-3x2-originaldi Michael Herzfeld

Lo Stato nazione e i suoi mali è un libro sui problemi derivati dalla stretta connessione che a volte emerge tra lo Stato, struttura amministrativa e legale, e il concetto etnico di nazione. Pietro Vereni ha criticato, in effetti, un’altra cosa, un modello generalizzante dello Stato tout court, sottolineando l’importanza di contrastare ciò che lui chiama “l’ontologizzazione” dello Stato e di scavare dietro la facciata reificata dello Stato per scoprire le molteplici modalità di comportamento dei vari funzionari. (Lascia invece piuttosto indiscusso l’uso del concetto di cultura per nascondere le motivazioni razziali).

Potrebbe forse sembrare paradossale che io condivida l’approccio di Vereni sul carattere dello Stato, ma in realtà non lo è. Non sono io, da autore del libro, sono invece quegli operatori dei meccanismi statali, che stanno ipostatizzando lo Stato attraverso le loro interazioni pubbliche mentre, dietro le porte (ossia dentro l’intimità culturale), si dimostrano agenti attivi e creativi, capaci, ognuno secondo la propria attitudine, di aiutare o di impedire i membri del pubblico. I funzionari sono spesso abituati a citare “la legge”, concetto volutamente vago, per giustificare decisioni chiaramente interpretative e condizionali. La facciata “legalistica” (Herzfeld 2022a), che fornisce sia al pubblico che ai funzionari una fonte ricca di scuse nel caso che fallisca una procedura, fa parte della realtà burocratica, ma non ne costituisce affatto la totalità e io non ho mai sostenuto una tale idea.

Accettando, dunque, la gentile sfida di Vereni  di aprire «una questione epistemologica profonda, che varrebbe la pena di portare alla luce in modo esplicito e condiviso», contrappongo una domanda molto semplice, ossia, «Dove risiede il modello idealizzante dello Stato-nazione, chi lo gestisce, e per quali motivi?» Mi sembra che Vereni abbia scambiato un oggetto etnografico, cioè la rappresentazione ufficiale dello Stato, per la sua teorizzazione in termini antropologici – esattamente lo sbaglio che rimprovera al mio libro. Il testo di Vereni inoltre, non è meno contradittorio del mio approccio teorico, in cui lui richiama di scoprire una “tensione” irriducibile nell’argomentazione del mio libro. Mentre sottolinea la dovuta attenzione ai dettagli specifici che smentiscono le spiegazioni e giustificazioni generalizzanti delle burocrazie, attribuisce allo Stato-nazione quell’entitività e quel valore assoluto su cui esso insiste. Invece, la mia posizione, malintesa in passato da diversi commentatori (ad es. Oberfeld 2022: 4; cfr. Herzfeld 2022b) sulle mie ricerche sulla burocrazia e adesso da Vereni nella sua recensione, è che il formalismo dello Stato fornisce ai cittadini, compresi gli amministratori, lo strumento comune per realizzare, attraverso atti performativi di maggiore o minore efficacia, obiettivi particolari. Quando, comunque, lo Stato comincia a definire il suo compito in termini puramente etnici, “ontologizzando” un’identità etnica labile e sconnessa dai meccanismi burocratici, lo Stato-nazione rischia di scivolare verso l’assolutismo definito esclusivamente in termini etnici, ed è su questa minaccia, già realizzata in diversi casi clamorosi, che volevo concentrare l’argomento del libro.

Vereni trova una certa “tensione” nell’argomento del libro. A mio avviso, la tensione è la componente fondamentale, non solo della vita sociale, ma anche del pensare antropologico il quale, in fin dei conti, ne costituisce una parte integrante. La contraddizione che emerge dal testo di Vereni, pertanto, risale al fatto che anche lui, benché in maniera diversa, riconosce la tensione tra la formalità delle strutture ufficiali e le prassi degli attori sociali. La contraddizione non risiede nel riconoscimento che sia i burocrati sia il pubblico sfruttino i meccanismi dello Stato per realizzare effetti particolari, cosa su cui siamo d’accordo, ma nel fatto che Vereni, antropologo rigorosamente attento ai dettagli etnografici, ignori quelli storici che godono di una simile importanza nel capire il funzionamento dei meccanismi ufficiali. Mentre io ribadisco l’aspetto storico (e quindi processuale) dell’emergenza dello Stato-nazione nel trattato di Vestfalia che nel 1648 creò entità a base di religione condivisa per poi aprire la strada alla loro trasformazione in entità a base di identità etnica nel corso di pochi decenni, Vereni, invece, parla della Serenissima Repubblica e degli Stati nazionali di oggi come se fossero istituzioni identiche e essenzialmente contemporanee e non riconosce, o almeno non menziona, il fatto che la maggior parte degli Stati nazionali in tutto il mondo riflette il desiderio dei poteri coloniali europei di imporre una struttura uniforme a seconda di quella già in vigore in Europa. Certamente ci sono state altre strutture politiche, quale la polis dei Greci e il moeang del Sudest asiatico (Herzfeld 2022c: 113; O’Connor 2000: 442, nota 13), che spesso vengono assimilate al modello statale europeo ma che invece rappresentano altre modalità di strutturazione sociale e politica. Chiamare quest’ultime (eppure la Serenissima) “Stati nazionali” sarebbe sia etnocentrico che anacronistico, come sostengo altrove, mentre invece la comparazione tra i vari tipi di struttura potrebbe rendere ancora più specifica e culturalmente “parrocchiale” quella europea di cui ci occupiamo nel presente dibattito.

becoming-bureaucrats-original-imagk5vkfdktcksnNon metto in dubbio l’importanza del ruolo dello Stato nel combattere la delinquenza a patto che essa venga definita in termini accettabili alla cittadinanza, e non solo a chi governa come accade nelle dittature. Senza diminuire l’importanza del sacrificio di quelli che diedero la vita nella lotta contro la criminalità organizzata, ma anche senza ignorare l’interpretazione più sfumata con la quale Berardino Palumbo (2020) ci presenta la modernità alternativa riflessa nella pratica di “piegare i santi” a cui si riferisce Vereni, è importante riconoscere che un sistema giudiziario emerso da procedure democratiche possa finire, per passi a volte impercettibili, nella strumentalizzazione dello stesso sistema da parte di politici disonesti o antidemocratici. Quest’ultimi, pur invocando i bisogni del “popolo”, riescono a rifare le pratiche giuridiche in tal modo che proteggano solo il proprio e che li liberino dall’impegno di proteggere i gruppi emarginati e minoritari. Si tratta, purtroppo, di una vicenda ripetuta troppo spesso nel corso dei secoli e ancora nei nostri giorni.

Al di là degli aspetti contraddittori, la recensione di Vereni suscita preoccupazioni etiche nonché storiografiche. Come mai, per esempio, un antropologo della notevole sensibilità etica di Vereni può ignorare il fatto che nel periodo più glorioso della Serenissima, gli Ebrei della colonia veneta a Candia si trovavano costretti a comprare qualsiasi cibo o frutta avessero la cattiva fortuna di toccare a un prezzo determinato arbitrariamente dal venditore? (Jacoby 2010: 276). Come mai non riconosce la perplessità del poeta cretese Marinos Tzanes Bounialis (1979 [1681]) che i veneziani fossero stati forse più crudeli dei loro successori ottomani? Dall’altra parte, perché invoca quella repubblica, che non era uno Stato-nazione nel senso preciso dei nostri tempi, per contrastare un’analisi critica dello Stato-nazione moderno?

La storicità dello Stato-nazione, discussa nelle pagine del mio libro, non appare affatto nella recensione di Vereni, e tale assenza, in un discorso che chiama alla specificità degli atti performativi, sembra davvero contradittoria. La storia è innanzitutto l’effetto cumulativo di gesti non meno specifici e performativi di quelli che interessano l’antropologo, e richiedono una non meno minuziosa attenzione ai dettagli che potrebbero smentire le rappresentazioni schematiche delle istituzioni attraverso il passaggio del tempo. Se il mio ritratto dello Stato-nazione moderno può sembrare “generalizzante”, è almeno quello presentato dai funzionari stessi, mentre il ritratto dello Stato, nazionale o altro, che ci propone Vereni è altrettanto statico e stereotipato, e copre una cronologia enormemente più vasta.

Vereni ritiene che lo Stato sia (o possa essere) un’istituzione la cui “bellezza” va apprezzata negli oggetti che indubbiamente meritano la nostra ammirazione estetica. Ci presenta un ritratto dello Stato che lo rende sempre benevolente, protettore degli interessi dei cittadini, ignorando gli atti di esclusione, di schiavitù,  e pure di continui massacri che spesso macchiano quella bellezza. Dall’altro canto, un etnografo dovrebbe stare attento alle sfumature delle espressioni di ammirazione per tali sistemi che incontra in Paesi come la Grecia, dove, infatti, esiste l’abitudine di lodare l’efficacia della burocrazia tedesca ma questo, più per criticare l’attuale sistema greco che per il desiderio di trovarsi sottoposto alla rigidità che molti Greci attribuiscono a quello tedesco. È forse indicativo che per Vereni la parola misellines si riferisca ai Greci che criticano lo Stato nazionale, mentre questa parola viene usata più solitamente per gli stranieri storicamente schierati contro l’indipendenza dello Stato-nazione al tempo della sua emergenza dall’impero ottomano. L’esempio a cui si riferisce Vereni è chiaramente metaforico. Una lamentela molto consueta in Grecia, invece, ritiene che “non abbiamo uno Stato” (δεν έχουμε κράτος), ma guai a chi non riesce a partecipare nelle consuete interazioni con funzionari, mediatori e padroni per le quali lo Stato si rende reale nella vita quotidiana. Anche i contadini che accusano lo Stato di non essere presente nella loro vita, e che invocano così uno Stato idealizzato, non sembrano felici quando, invece, quello stesso Stato si presenta nella sua divisa formale e legalistica invece di quella socievole e interazionale!

Per me, come per Vereni, la tensione tra forme ideali e realtà vissuta costituisce il cuore dell’esperienza umana. Su questo, direi, le nostre posizioni sono piuttosto apparentate, ma sono anche tipiche della stragrande maggioranza degli antropologi contemporanei. Tale tensione sociale emerge, infatti, in tutte le situazioni nelle quali i rappresentanti dello Stato invocano la finta perfezione e l’altrettanto finta immortalità dei suoi strumenti legali ed amministrativi per giustificare atti – a volte a favore dei cittadini, a volte dannosi per loro – che, pure vestiti nel gergo ufficiale, infrangono la lettura testuale, se non lo spirito originale, di quelle stesse ordinanze formali. Nel mio libro ho provato a dimostrare come funziona quella tensione tra l’idealizzazione dello Stato come struttura amministrativa nonché forza protettrice della nazione da un lato, e le esperienze quotidiane subite, soprattutto dalle parti più emarginate della popolazione, dall’altro.

L’errore centrale di Vereni è quello di leggere nell’auto-rappresentazione dello Stato-nazione le pratiche reali degli impiegati di Stato. È un errore molto vicino a quello di altri lettori della mia analisi della burocrazia, secondo il quale l’incuranza dei funzionari corrisponde alla realtà letterale. Invece, riconosco nell’atteggiamento pubblico degli impiegati di Stato la performatività creativa che consente loro di nascondere le loro intenzioni, che siano buone o cattive. Non dimentichiamo che in Italia la parola “civile” può essere applicata anche ad atti formalmente illegali se la motivazione risale a un’etica condivisa. Attraverso il testo di Vereni, inoltre, il malinteso viene rafforzato da una graduale diminuzione dell’elemento “nazione” relativo a quello dello Stato.

Forse avrei dovuto portare l’attenzione del lettore più direttamente sulla distinzione tra “nazionalismo” e “etnonazionalismo”, ma credevo che il contesto testuale la rendesse sufficientemente chiara. L’etnonazionalismo è un’ideologia fuorviante che trascura l’identificazione di un’intera popolazione con lo Stato, il quale riconosce i diritti civici di una singola identità etnica e tende ad escludere, a volte con violenza, tutte le altre. Mentre condividiamo (sempre con quasi tutti gli antropologi contemporanei) il nostro disgusto per il razzismo, Vereni si differenzia dalla maggioranza nel sostenere che le distinzioni chiamate culturali non siano fondamentalmente razziste. Ritiene esclusivamente “culturali” le categorie identitarie che vengono usate dai vari gruppi politici, cadendo così nella trappola semantica della Destra estrema, la quale vorrebbe solo “culturali” i motivi per i quali cercano di sopprimere la presenza di certi gruppi di immigranti e rifiuta di ammettere le radici razziali soggiacenti alla loro tassonomia.

Il discorso di Vereni ignora i modelli di sangue e stirpe, quelle tracce di concetti popolari di identità basati sulla discendenza biologica, che soggiacciono alle presunte difese dell’identità culturale da parte degli Stati di tipo etnonazionale. Il suo argomento, di conseguenza, rischia di rafforzare le tendenze razziste, prestando ad esse la legittimità dell’approvazione di un noto antropologo. Tali confusioni strumentali tra cultura e “razza” sono state individuate e criticate negli Usa già da parecchio tempo, come Vereni stesso nota esplicitamente, e ritengo importante continuare a resistere alla loro presenza sia nel discorso pubblico che in quello antropologico.

kapfererlegendsMentre molte persone di etica forte, Vereni incluso,  inorriderebbero a giusto titolo se le loro idee sull’identità culturale venissero interpretate come espressioni di odio razziale, non dovremmo ignorare un’altra “scoperta” dell’antropologia. Si tratta del fatto che, come ci ha mostrato l’antropologo australiano Bruce Kapferer (2011), le ideologie e le religioni che predicano la pace, l’uguaglianza e la tolleranza vengono spesso trasformate in discorsi di odio sfrenato e in atti di violenza estrema, sempre in nome della difesa degli stessi valori pacifici e di concetti piuttosto vaghi e generali come la cultura, la nazione, la religione e la società. La forma generalizzante di tali concetti apre la porta a molteplici interpretazioni, tutte capaci di rafforzare esclusioni complessive e atti di violenza contro diversi gruppi selezionati. Subentra una sorta di casistica che sembra legittimare, spesso utilizzando la scusa del carattere eccezionale del momento, il capovolgimento dei principi enunziati dai fondatori dello Stato-nazione. Lo Stato-nazione diventa uno Stato etnico, come è accaduto nell’ex-Jugoslavia e in Israele, per citare due casi particolarmente eclatanti, e le loro ideologie ufficiali riflettono questo slittamento concettuale e le sue conseguenze disastrose sia per le popolazioni escluse che per quelle “vincenti”.

Vereni parla delle destre culturali, che cercano l’assimilazione degli elementi culturalmente estranei o importati, come la maggior parte degli immigranti. Ma l’assimilazione, nonché il multiculturalismo sprovvisto di autocritica, riflette una dinamica e una logica che, volutamente o no, presuppongono la presunta superiorità politica e morale degli operatori nei confronti degli assimilati (nel primo caso) o dei tollerati (nel secondo). Dal momento in cui parliamo di “orgoglio culturale”, agevoliamo lo slittamento, spesso inconsapevole ma a volte intenzionale, dall’affetto per un’identità culturale condivisa a processi di esclusione a base di criteri razzisti. Dichiarazioni del contrario non correggono lo squilibrio sociale e politico. Potrebbero anche rafforzarlo, perché i gruppi emarginati in passato per motivi apertamente razziali si sentono costretti ad adottare un’identità razziale e culturale al contempo per contrastare la discriminazione. Lo vediamo nell’attuale situazione negli Stati Uniti, dove ulteriormente viene soppresso ufficialmente, e paradossalmente in nome dell’uguaglianza umana, ogni discorso sull’identità razziale, al momento stesso in cui gli strumenti statali per lo sradicamento dell’estremismo nelle forze armate vengono disarmati per ordine del governo (si veda Makuch 2025).

Quindi, parlare delle differenze culturali non può garantire che il discorso di identità culturale, soprattutto se animato in fondo anche da presupposti pseudo-biologici come quelli accennati sopra, non porti eventualmente ad atti e atteggiamenti spregiudicati. Lo Stato-nazione, nel senso di essere anch’esso una costruzione ideologica, è pertanto capace di essere gestito a fini contrari a quelli dichiarati sin dal momento della sua fondazione. Di conseguenza, la lettura di Vereni è eccessivamente fiduciosa, a mio giudizio, rispetto a quanto detto sul ruolo dello Stato nel linguaggio dell’umanesimo europeo. A mio parere, Vereni si è lasciato ingannare dal discorso seducente di una Destra che ha imparato bene l’importanza dell’equivoco sulla distinzione tra cultura e identità razziale, “ontologizzando” la cultura – una mossa concettuale che l’antropologia ha abbandonato come scientificamente insostenibile e troppo assimilabile a ciò che Vereni suggestivamente chiama “orgoglio culturale” – affinché possa evitare di parlare direttamente di razza.

Gli Stati Uniti, infatti, sono un Paese che si considera erede dei valori europei. Sono anche un Paese dove un presidente già giudicato colpevole di un reato serio, le cui numerose bugie non smettono di sorprenderci, riesce a capovolgere molteplici norme finora vigenti sempre in nome della cultura occidentale e della libertà di espressione. Sotto questa gestione dello Stato, una nazione creata storicamente da onde migratorie respinge i nuovi immigranti, invocando la necessità di proteggere un’identità culturale la quale, in realtà, emerge come prettamente razziale. Quindi, mi sembra pericolosamente utopico credere che un simile slittamento dai principi nobili a pratiche di esclusione non possa accadere in Europa, dove infatti ne esistono già indicazioni preoccupanti, o nei Paesi postcoloniali e criptocoloniali, dove il discorso della civiltà, importato dai poteri coloniali, viene spesso adottato per giustificare la discriminazione contro le minoranze etniche dentro le frontiere dei singoli Paesi.

La forza dello sguardo etnografico, procedendo controcorrente nel senso di non accettare il conformismo dei metodi statistici ma di insistere invece su un percorso aleatorio e esploratorio, risiede nella capacità di scoprire e di spiegare le contraddizioni tra norme e prassi – cosa che è al cuore del pensiero dello stesso Vereni. È per questo motivo che in molti Paesi i gestori del potere trovano particolarmente sconcertante l’antropologia, questa disciplina scientifica tanto “indisciplinata” che cerca di scoprire le incoerenze nascoste dietro la retorica conformista delle istituzioni. Pure nelle università, l’antropologia spesso sfida l’inflessibilità amministrativa, soprattutto quando respinge la rigidità metodologica richiesta dai comitati che devono decidere sugli aspetti etici della ricerca, un problema sia concettuale che amministrativo sul quale ho collaborato con Vereni in maniera coerente e proficua. Gli antropologi scoprono, forse più facilmente degli studiosi di altre scienze sociali, che il formalismo amministrativo, come il conformismo culturale, nasconde una grande scelta di pratiche. Si  tratta di una sorta di “intimità burocratica”. Per simili motivi, i gestori dello Stato sanno strumentalizzare i suoi principi più “umanistici”. È quella la dinamica che si sta svolgendo attualmente negli Stati Uniti; ed è quella che sta emergendo in Europa e altrove.

Vereni crede che io abbia fuso l’immagine ideale dello Stato con la sua pessima gestione, costruendone un mostro burocratico avaro e corrotto. Lui, invece, sta invocando l’ideale concepito in tutta la sua purezza per poi trovarlo nelle pratiche degli Stati nazionali in generale e allargandola per includere strutture amministrativo-politiche di altre epoche e di una brutalità che sembra voler giustificare con la “bellezza” dei loro monumenti. Pure oggi, come ho dimostrato in un contesto molto diverso (quello dell’abbellimento urbano), la bellezza è un concetto prettamente culturale che va indagato nel proprio contesto e che spesso viene strumentalizzata in diverse lotte di classe, diventando il criterio per il quale vengono escluse intere popolazioni perché non condividono l’estetica di chi gestisce il potere  (Ghertner 2015; Herzfeld 2017).

71hcr2zwll-_ac_uf10001000_ql80_Non credo che “la bellezza dello Stato” possa definirsi un bene assoluto, nemmeno un bene comune (si veda Cellamare 2008), e mi sorprende la riluttanza di Vereni a relativizzarla. È importante chiedersi quali inuguaglianze e quali sfruttamenti nasconda quella meravigliosa qualità estetica. La bellezza dello Stato potrebbe risultare una verità brutta e deumanizzante per chi non appartiene ai ceti privilegiati, soprattutto nel caso che lo Stato si definisca in termini rigidamente etnonazionali. Uno Stato beneficente si può avere, ma solo a patto che si distanzi e si distacchi dall’assolutismo etnico. Solo in un tale Stato potremmo vivere secondo i principi di tolleranza e rispetto reciproco, attenti ai rischi dei possibili mutamenti coperti dalle belle espressioni dei “nostri” valori. Lo dice Vereni stesso ricordando gli eccessi della Liga Veneta.

Nelle mie analisi dell’intimità culturale, ho ribadito ripetutamente che la facciata ufficiale di una nazione non è una bugia. È, tuttavia, una copertura che nasconde le realtà quotidiane vissute da gruppi di persone. Per lo stesso motivo, non direi mai che l’immagine ufficiale di uno Stato è necessariamente un inganno (benché possa esserlo). Fa parte, comunque, di una realtà ben più complessa, forse accessibile all’etnografo rispettoso a cui è consentito partecipare ad attività che sembrano smentire quella esposta agli estranei. Il pericolo che minaccia lo Stato-nazione, comunque, non è il rischio che lo spazio intimo venga invaso dagli estranei. È, invece, che gli interessi etnici e spesso maggioritari all’interno della popolazione provino a monopolizzare gli strumenti dello Stato. Vediamo troppo spesso gli orrori suscitati da questo processo.

Verso la fine del mio libro, esprimo la speranza che le scuole comincino ad insegnare la lezione antropologica fondamentale sulla differenza tra eredità culturale e quella biologica o genetica. È un compito difficile, soprattutto quando un governo si schiera contro la mera discussione della discriminazione razziale; ma esattamente per questo motivo, è anche doveroso. La confusione tra i due tipi di eredità, alleata a quella tra Stato e nazione, potrebbe portare danni enormi all’umanità.

Da antropologo con diverse eccellenti ricerche alle spalle, Vereni ovviamente non rifiuta la distinzione tra eredità culturale e eredità genetica. Anzi, si schiera chiaramente contro il razzismo quando scrive, ad esempio, del “fango anti-meridionalista” che portava alla fondazione della Liga. Nessun dubbio, quindi, sui suoi sentimenti anti-razzisti. Al contrario, ha scritto specificamente contro il razzismo, come si può confermare in un suo testo citato a proposito nel mio libro. Sembra, tuttavia, accettare il mito che il culturalismo degli Stati nazionali non abbia mai a che vedere con il razzismo e che invece ci offra una prospettiva affidabile per il futuro. Io, invece, rimango preoccupato dall’idea che gruppi di persone intelligenti ed etiche, attive nella politica dei loro Paesi, rischino di scivolare nella stessa direzione già percorsa da diversi Stati ormai diventati etnonazionali. Nella famosa frase di Virgilio, facilis descensus Averno – da dove, invece, è difficile, forse anche impossibile, il ritorno.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Riferimenti bibliografici 
Bounialis, Marinos Tzanes. 1979 [1681]. Ο Κρητικός Πόλεμος (1645-1669). A cura di Andreas Nenedakis. Atene: pubblicazione privata.
Cellamare, Carlo. 2008. Fare città: Pratiche urbane e storie di luoghi. Milano: Elèuthera.
Ghertner, D. Asher. 2015. Rule by Aesthetics: World-Class City Making in Delhi. Oxford: Oxford University Press.
Herzfeld, Michael. 2017. “The Blight of Beautification: Bangkok and the Pursuit of Class-Based Urban Purity.”  Journal of Urban Design 22: 291-307.
 Herzfeld, Michael. 2022a [2021]. “Legalismo metodologico”. In Roberto Malighetti and Giacomo Pozzo (in cura di), Antropologie giuridiche: Sguardi trasversali sulla contemporaneità (Brescia: Morcelliana, Scholé, 2022): 127-144.
Herzfeld, Michael. 2022b. La produzione sociale dell’indifferenza. Esplorando le radici simboliche della burocrazia occidentale. Milano: FrancoAngeli.
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Jacoby, David. 2010. Jews and Christians in Venetian Crete: Segregation, Interaction, and Conflict. In Uwe Israel, Robert Jütte e Reinhold C. Mueller (in cura di), “Interstizi”: Culture ebraico-cristiane a Venezia e nei suoi domini dal Medioevo all’età moderna (Roma: Edizioni di Storie e Letteratura): 243-279.
Kapferer, Bruce. 2011. Legends of People, Myths of State: Violence, Intolerance, and Political Culture in Sri Lanka and Australia. Nuova edizione. Oxford: Berghahn.
Makuch, Ben. 2025. Fears over Extremism in US military as Soldier Revealed as neo-Nazi TikTok Follower. The Guardian, 14 aprile. https://www.theguardian.com/us-news/2025/apr/14/us-military-extremism-the-base?utm_term=67fcf8c1c7044bccba93ac48a893d170&utm_campaign=GuardianTodayUS&utm_source=esp&utm_medium=Email&CMP=GTUS_email
Oberfield, Zachary W. 2014. Becoming Bureaucrats: Socialization at the Front Lines of Government Service. Philadelphia: University of Pennsylvania Press.
O’Connor, Richard.  2000.  A Regional Explanation of the Tai Muang as a City-State.  In Mogen Herman Hansen (in cura di), A Comparative Study of Thirty City-State Cultures: An Investigation (Copenhagen: Kongelige Danske Videnskabernes Selskab): 431-443.
Palumbo, Berardino. 2020. Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose. Bologna: Marietti

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Michael Herzfeld, è professore emerito   di scienze sociali Ernest E. Monrad  presso il Dipartimento di antropologia dell’Università di Harvard; professore emerito di studi critici sul patrimonio culturale presso l’IIAS presso l’Università di Leida; e membro del programma di dottorato in Beni Culturali, Formazione e Territorio presso l’Università di Roma “Tor Vergata”. Autore di tredici libri (il più recente dei quali è  Subversive Archaism: Troubling Traditionalists and the Politics of National Heritage , 2022, e  Lo Stato nazione ei suoi mali , 2024) e di numerosi articoli e recensioni, nonché produttore di due film etnografici, è stato curatore di  American Ethnologist  (1995-98) e  del Journal of Modern Greek Studies  (2023-24), ed è appena entrato a far parte del collettivo editoriale di  HAU: Journal of Ethnographic Theory . È anche editor-at-large (responsabile di “Polyglot Perspectives”) presso  Anthropological Quarterly ed è co-redattore di “Asian Heritages” (Amsterdam University Press) e “New Anthropologies of Europe” (Berghahn). La sua ricerca (principalmente in Grecia, Italia e Thailandia) ha affrontato la conservazione storica e la gentrificazione, le dinamiche del nazionalismo e della burocrazia, il cripto-colonialismo e l’etnografia della conoscenza. Nel 2021 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria della Repubblica Ellenica.

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