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Principi e pratiche della nonviolenza. Ovvero possibilità di costruire la pace con mezzi pacifici (una risposta a Neri Pollastri)

gandhidi Andrea Cozzo 

1.  Nonviolenza e uso della violenza “in ultimissima istanza” 

Intendo qui di seguito riflettere sullo scritto di Neri Pollastri sulla nonviolenza (e sulla praticabilità o meno di quest’ultima nel caso della guerra in Ucraina) a partire dalla critica da lui fatta alle mie pagine dedicate allo stesso tema [1], dove, a suo dire, il pensiero espresso dal sottoscritto «finisce per arrampicarsi sugli specchi e cadere in conflitti di valori e pragmatiche contraddizioni». Spero che chi sta leggendo abbia già preso conoscenza dell’articolo di Neri Pollastri; in ogni caso citerò ampiamente suoi passi sì da rendere il mio testo anche indipendente dal suo (di cui, comunque, raccomando la lettura).

Dico subito, per eliminare un primo equivoco, che, davanti all’esperimento mentale proposto dall’autore delle osservazioni critiche (esperimento che io, come lui, trovo non retorico ma solo paradossale) di cosa ha il compito di fare chi abbia repulsione etico-intellettuale ad uccidere ma si trovi di fronte a un terrorista uccidendo il quale egli può evitare la morte di trenta bambini che quello stia minacciando, il nonviolento – una volta arrivato alla conclusione di non potere salvare i bambini senza sparare al primo e, aggiungo, dopo avere escluso anche la possibilità di salvarli, per esempio, semplicemente ferendo il terrorista – non ha dubbi: pur a malincuore, ucciderà chi attenta alla vita degli innocenti (e ciò anche se questi non fossero bambini ma adulti). A rifiutarsi di uccidere potrà essere il pacifista assoluto, non il nonviolento.

Se nelle esposizioni sulla teoria della nonviolenza si tende più o meno a sottacere questa possibilità (che effettivamente è un caso paradossale ma non per questo è da trascurare), è solo per evitare un malinteso. Moltissime persone, infatti, scambiano questa possibilità di ricorrere alla violenza (di difesa) in ultimissima istanza con ciò che esse già fanno abitualmente (in effetti, adoperano la violenza solo quando si sentono costrette a farlo) e non credono di avere bisogno di sviluppare una cultura che le metta in grado di diminuire il numero di volte in cui sentiranno quella costrizione; anzi, non credono che quella cultura esista. Insomma, essendo per loro chiaro che non aggrediscono (ma in quel «chiaro» c’è già un inconsapevole presupposto, la riflessione sul quale invece la nonviolenza include nella sua teoria), pensano in buona fede che, in quella specifica circostanza x in cui abbiano usato la violenza per difendersi, fosse necessario ricorrervi; pertanto, trascurano l’importanza della nonviolenza come teoria della scoperta della difesa attraverso mezzi pacifici (che non sono semplicemente quelli del dialogo…) in tantissimi casi che, appunto senza la conoscenza di essa, vengono ritenuti impossibili da risolvere se non sconfiggendo l’Altro.

Con Neri Pollastri. si è verificato il malinteso opposto a quello solito, probabilmente anche per mia responsabilità dato che ho insistito sulle pratiche alternative alla violenza dando solo per scontato il ricorso alla violenza in ultimissima istanza (in un’eventuale ristampa del mio libricino, sarà opportuno spendere qualche rigo in più sull’argomento … e, temo, ahimè, reinnescare l’equivoco contrario, quello di chi dirà “ma lo faccio già! Non sono stato io ad aggredire, io sono stato costretto a usare la violenza per la difesa!”). In ogni caso, ringrazio Neri Pollastri per avermi dato modo di capire che, appunto, è il caso di chiarire meglio, e ribadisco: per un nonviolento, utilizzare la violenza, come ultimissimo mezzo per la difesa (a maggior ragione per la difesa di terzi), è ammissibile (e va insieme, tuttavia, all’obbligo di cercare di accrescere le proprie competenze culturali e pratiche per gestire i conflitti con mezzi pacifici).

2Un ben noto esempio fatto dallo stesso Gandhi, a questo proposito, è quello della necessità di uccidere un pazzo che stia compiendo una strage in un villaggio e che non si sappia come fermare se non uccidendolo [2]; l’esempio è spesso citato, appunto per legittimare l’uso della violenza, ma dimenticando di aggiungere una concreta precisazione di Gandhi, quella secondo cui, però, «la nonviolenza è la legge suprema. Durante il mio mezzo secolo di esperienza non mi è mai capitato di trovarmi in una situazione che mi obbligasse a dire che ero impotente, che non avevo alcuna risorsa in termini di nonviolenza» [3].

Pertanto, in nonviolenza non c’è nessun principio assoluto: neanche quello del “non uccidere” che viene così formulato, quando lo è, soltanto nel senso di “non pensare che sia ovvio fare ricorso alla violenza” per difendere o difendersi. D’altronde, Pollastri ha inteso bene che la nonviolenza ha come presupposto della sua validità l’efficacia nell’impedire atti di sopraffazione – diversamente, essa ammette il ricorso alla violenza secondo quello che è chiamato “principio di gradualità delle lotte”: dalla meno pesante alla più pesante «man mano che quelle precedenti si rivelino inefficaci») [4]. Beninteso: va tenuto sempre presente che anche la violenza può rivelarsi inefficace – considerazione di cui mi sembra che Neri Pollastri non tenga abbastanza conto, presupponendo anzi, forse, qui e non solo qui, il contrario, cioè che funzioni sempre o abbia sempre maggiori probabilità di funzionare.

2. Previsioni e realtà 

Infatti, egli critica la pretesa della nonviolenza di essere efficace, in quanto 

«l’efficacia è una cosa sulla quale – essendo previsionale – nessuno può avere certezze: la sua stima muta non solo di situazione in situazione (non è cioè la stessa se dobbiamo fronteggiare disarmati un plotone di militari di un esercito in ritirata o una squadra di carri armati di un esercito che sta attaccando), ma è anche dipendente da parametri arbitrari e soggettivi, quali l’estensione temporale della stima». 

3Concordo pienamente con queste parole (d’altronde non ho mai affermato il contrario); solo, è opportuno sottolineare che esse valgono, esattamente allo stesso modo, nel caso del ricorso alle armi: che questo sia efficace è soltanto una previsione. E, sia detto non a margine, ad oggi, dopo più di tre anni, per la guerra in Ucraina risulta una previsione sbagliata: l’Ucraina ha perso diversi territori, è in buona parte distrutta e ha avuto (come pure la Russia) centinaia di migliaia di vittime umane.

Anche lasciando la questione sul piano teorico (cioè astraendo da ciò che sappiamo essere accaduto in Ucraina), direi non solo che il carattere previsionale è comune sia alla nonviolenza sia al ricorso alle armi ma anche che quest’ultimo risulta meno conveniente (pure per l’aggredito) della prima. Basti paragonare cosa può succedere con l’una e con l’altro.

Se si adotta la violenza (sempre presupposta di difesa), nel caso che questa abbia successo, si avrà il rintuzzamento dell’attacco dei ‘nemici’ ma si avranno anche molte vittime tra i propri soldati e tra i propri civili; nel caso di insuccesso, si avrà la sconfitta e moltissime vittime sia militari sia civili.

Adottando, invece, la nonviolenza, se questa ha successo, i ‘nemici’ cesseranno l’attacco e le vittime nonviolente saranno poche (necessariamente meno di quelle che ci saranno se si sia utilizzata la violenza: i ‘nemici’, non essendo minacciati da armi, non hanno motivo di utilizzare le loro armi; lo si vedrà anche alla luce di considerazioni successive, cf. par. 3.); se non avrà successo, le vittime saranno sempre poche e si subirà un’occupazione del territorio, che però non coincide con la sconfitta e con la cessazione della possibilità di continuare a condurre la lotta in modo nonviolento (la convenienza, peraltro, non sta solo nel risparmio di sangue versato ma anche nell’assenza di almeno altri dodici tipi di danno di cui farò menzione tra pochissimo).

Neri Pollastri precisa inoltre: 

«la stima può includere la mera conclusione del conflitto, ma può (e, personalmente, aggiungerei deve) allargarsi anche alle possibili conseguenze successive: estendersi cioè dai morti, feriti e perseguitati dopo un’eventuale invasione, fino a quelli che potrebbero seguire nel caso di un ampliamento del dominio del vincente in altri Stati, quali Estonia, Lituania, Lettonia, Romania, Finlandia, eccetera. Cambiando i criteri sui quali effettuare la stima, cambiano necessariamente anche la stima di efficacia e, con essa, la convinzione per la scelta nonviolenta». 

La prima parte della sua frase non mi fa alcun problema, anzi… Tant’è che il sottoscritto, nel suo testo, non prende in considerazione «la mera conclusione» della guerra bensì, appunto, allarga il quadro delle possibili conseguenze dannose di essa (durante e posteriori ad essa) includendovi le seguenti: 1. parecchie centinaia di migliaia di morti che continueranno ad aumentare, 2. feriti, 3. stupri, 4. torture e violenze di ogni tipo, 5. milioni di profughi, 6. devastazione di città, 7. inquinamento ambientale, 8. rischio di guerra nucleare totale o parziale, 9. prospettive di crisi alimentare mondiale, 10. eredità di odio reciproco tra Russi e Ucraini che avrà bisogno di chissà quanto tempo per scomparire (Cozzo 2022: 31; si possono aggiungere, almeno un punto 11., cioè la circolazione di armi nel territorio che, dopo ogni guerra, vanno puntualmente a finire nelle mani di organizzazioni criminali; un punto 12., ovvero i campi minati e gli ordigni inesplosi che uccidono anche nel periodo post-bellico, e un punto 13., cioè i traumi di guerra che inesorabilmente colpiscono soldati e civili in tutte i conflitti armati).

Pechino, piazza Tienanmen, 1989

Pechino, piazza Tienanmen, 5 giugno 1989

Come vediamo, le conseguenze negative individuate dal sottoscritto nella difesa violenta (anche nel caso che alla fine questa funzionasse) sono molte di più di quelle considerate da Neri Pollastri nel caso di fallimento della difesa nonviolenta, le quali ultime comunque continuano a sussistere anche nel caso che si usi la difesa violenta, e comunque, per quanto già detto più sopra, molto più nel secondo che nel primo. E si tenga presente che, delle conseguenze da me citate che investono il futuro, praticamente nessuna ha carattere previsionale incerto. Diversamente, l’unica conseguenza specifica presentata da Pollastri (l’invasione di altri Stati da parte di Putin) – e siamo qui alla seconda parte, per me non persuasiva, della sua frase – è tutta ipotetica e interamente fondata su sospetti o su un’interpretazione delle cause della guerra in Ucraina che non tiene in alcun conto quel che è stato  sempre dichiarato da Putin (cioè il timore di un’ulteriore espansione della Nato a est) e su cui avevano peraltro avvertito, e qualcuno da decenni, anche diversi analisti americani, fra i quali basterà qui menzionare il ben noto Henry Kissinger, ministro degli Esteri degli Stati Uniti dal 1973 al 1977) [5]!

Insomma, se non sbaglio, alle realtà presenti e certezze future da me citate (e delle previsioni ipotetiche fatte in passato da americani ma diventate pure esse realtà nel 2022) vediamo contrapposte da Neri Pollastri una semplice previsione incerta di un futuro cui la propaganda giustificatrice dell’invio di armi all’Ucraina ci ha abituato in questi ultimi tre anni e passa. Faccio questa precisazione perché Pollastri ci tiene di tanto in tanto a specificare che, invece, sarebbe in me o negli altri da lui criticati «molta speranza e poco realismo» (corsivi suoi) e «fuga dalla realtà». Se quanto ho fin qui scritto è condivisibile, sia chi legge a decidere chi è dentro e chi è fuori della realtà. 

3. Limiti (?) e punti di forza della nonviolenza 

Ancora, secondo Neri Pollastri, le ‘previsioni’ (quelle, appena richiamate, della propaganda di questi ultimi anni e che mi sembrano siano state da lui fatte proprie) spiegherebbero 

«non solo perché la cultura nonviolenta sia stata coltivata e diffusa soprattutto in tempo di pace, o comunque all’interno di Stati già invasi (nei quali prende più la forma di guerra civile che non di vera e propria guerra, che è quella tra Paesi) ma anche perché l’azione nonviolenta non sia mai stata realmente praticata di fronte a eserciti schierati per un’invasione o una conquista (nell’elenco di azioni nonviolente storiche riportato da Cozzo non c’è nemmeno un esempio): perché in quelle ben diverse situazioni mutava la stima della sua efficacia». 

6Se risulta corretto quanto ho detto prima, la spiegazione di Pollastri non va bene, e bisogna allora prendere in considerazione altri fattori per dare ragione del fatto che – questo, sì, mi trova d’accordo – la nonviolenza sia stata utilizzata soprattutto nel caso di lotte civili e di lotte con eserciti che abbiano già invaso un Paese (non già, però, «in tempi di pace», come Pollastri sostiene riducendo la portata della nonviolenza). Resti fermo innanzitutto, sia pure incidentalmente, che tra gli esempi da me citati anche le guerre civili hanno talvolta previsto, da parte del dittatore di turno, l’impiego di fucili e carri armati (come nelle Filippine dove Marcos dovette, però, infine abbandonare il potere nel 1986, o nell’Indonesia da dove Suharto fu costretto a fuggire nel 1998).

Quanto poi alla spiegazione del fatto che la nonviolenza si sia affermata in Paesi occupati (preciso: anche sotto il nazismo) [6], essa mi pare abbastanza semplice. Poiché le guerre sono ‘prese in carico’ dai Governi che non hanno nessuna Istituzione di difesa nonviolenta (diverso sarebbe il caso in cui i Governi istituissero già in tempi di pace, strutturalmente, una formazione dei cittadini alla difesa nonviolenta) e, all’interno di un paradigma culturale militarista, l’azione di resistenza alle aggressioni è basata sui mezzi bellici, le azioni nonviolente, portate avanti ‘dal basso’, sono inevitabilmente poche e per di più osteggiate dai Governi che vorrebbero arruolare i nonviolenti nell’esercito. Soprattutto, coloro che compiono azioni nonviolente agiscono in un contesto in cui proprio la presenza degli eserciti ‘guasta’ la loro efficacia in quanto vengono visti dai ‘nemici’ come strumenti per così dire mediatici delle azioni militari e dunque diventano anch’essi oggetto di attacchi armati. Questo è, d’altronde, anche il pretesto con cui, in contesto bellico, i semplici civili anche non nonviolenti vengono spesso presi di mira (in realtà spesso per creare panico e indurli a fare pressione sul proprio esercito a deporre le armi): essi, e addirittura luoghi come chiese e ospedali, vengono accusati di ospitare combattenti (accusa che sarebbe impossibile se a far uso di armi non ci fosse nessuno e l’unica difesa attuata fosse quella nonviolenta).

Ignorare tutto ciò, cercando la spiegazione della poca utilizzazione della nonviolenza interstatale altrove, per me significa non avere sufficiente conoscenza delle dinamiche di ogni guerra e non rendersi pienamente conto che la guerra è un meccanismo cui si contribuisce proprio col prendere le armi, sia pure per difendersi. Significa anche dare per scontato – è quella pretesa che tutto sia «chiaro» che più sopra dicevo appunto inconsapevole presupposto di chi ritiene la guerra un buon mezzo per difendersi e che la nonviolenza prende invece in considerazione appunto come pre-supposto la cui validità va prima verificata – che si è dalla parte della ragione e che i ‘nemici’ sono e sanno di essere nel torto (laddove bisognerebbe prendere in considerazione, ancor prima dello scoppio del conflitto armato, le loro ragioni, e dunque comunicare ponendosi in posizione di ascolto).

1_wjlvryhctaxpri2xiwoghqPiù in generale, significa per me non avere chiaro che la nonviolenza è una disciplina scientifica, che si costituisce all’incrocio e con gli strumenti della sociologia, della psicologia e della storiografia etc. Non a caso esistono ormai, fattisi strada a fatica nel mondo che dà per scontato che le aggressioni si combattono con gli eserciti, corsi di laurea – in Italia, a  Pisa e a Firenze; a Palermo, il sottoscritto stesso, per 8 anni, ha tenuto all’Università un Laboratorio di “Teoria e pratica della nonviolenza”, con tanto di esame finale e assegnazione di 3 Crediti Formativi Universitari; in Norvegia, uno dei più grandi studiosi e mediatori di conflitti di tutto il mondo, Johan Galtung, ha fondato il Peace Research Institute of Oslo, nonché il “Journal of Peace Resarch”; e sono solo pochissimi esempi di un ambiente scientifico, anche strettamente universitario, che, pur contrastato dalla cultura e dalle politiche governative dominanti e in qualche misura attraversato da contraddizioni esso stesso, si va espandendo sempre più. Ma la mentalità comune pensa ancora che la nonviolenza sia un invito alla bontà d’animo da sermone paternalistico.

Faccio presente, inoltre, che: 1. il Parlamento Europeo già nel 1995 (seduta del 17 maggio), ribadendolo poi più volte, ha approvato la “Relazione Bourlanges–Martin” che, su proposta di Alex Langer, affermava l’opportunità di creare «un Corpo Civile Europeo di Pace (comprendente gli obiettori di coscienza) assicurando la formazione di controllori, mediatori e specialisti in materia di soluzione dei conflitti»; 2. la risoluzione della Commissione Esteri del Parlamento Europeo (29/11/2023) ha promosso «l’istituzione di un Corpo Civile Europeo di Pace, che riunisca le competenze degli attori istituzionali e non istituzionali in materia di prevenzione dei conflitti, risoluzione e riconciliazione pacifica dei conflitti, al fine di rendere la gestione civile delle crisi dell’UE più credibile, coerente, efficace, flessibile e visibile». Ma nella cultura bellica, quando non anche bellicista, dominante, tutto ciò fatica a diventare visibile e a mostrare così che la nonviolenza a livello interstatale non è che non venga attuata, come crede Pollastri, «perché mancano le condizioni perché essa sia efficace» bensì solo perché precise scelte politiche la osteggiano ostinatamente, anche facendosi promotrici di quella stessa cultura di guerra.

Faccio presente pure che il riconoscimento dell’idea di difesa civile nonviolenta è avvenuto in Italia da tempo anche a livello istituzionale. Per esempio, la legge 147/2013 ha previsto l’istituzione, in via sperimentale, di un contingente di Corpi Civili di Pace di 500 giovani volontari da impegnare in azioni di pace non governative in aree di conflitto o a rischio di conflitto (che però sono stati incardinati non nell’ambito della Difesa ma in quello, più ‘innocuo’ dal punto di vista culturale, delle Politiche Giovanili) [7], e nel 2015 è stata presentata una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’istituzione del Dipartimento della Difesa civile non armata e nonviolenta. Di nuovo: se oggi la nonviolenza non viene molto praticata nei conflitti interstatali è solo per mancanza di volontà politica a dare seguito concreto a ciò che già è stato riconosciuto. E la mancanza di volontà politica, in un circolo vizioso, tiene la gente all’oscuro dell’efficacia della nonviolenza ed è sostenuta dall’ignoranza che essa determina. Ad interrompere questo circolo dovrebbero essere gli studiosi, i giornalisti, gli intellettuali, insomma le figure cui una volta era assegnato il compito di contribuire alla formazione di un’opinione pubblica critica nei confronti del potere e della violenza – innanzitutto del potere e della violenza dominanti nel proprio Paese.

Comunque, al di là di tutto questo, mi pare che, appena si ammette (come Neri Pollastri fa, anche perché i casi storici da me citati non sono pochi e molti altri ne sono rinvenibili nel recente e ricco studio di Erica Chenoweth) [8] che la nonviolenza almeno in regime di occupazione tendenzialmente funziona, ne consegua che allora basterebbe che, al limite, il Paese aggredito si facesse occupare per dare inizio alla resistenza nonviolenta.

8È opportuno chiarire, inoltre, che il sottoscritto, nel libricino, dava un insieme di indicazioni (necessariamente generali, perché gli interessava mostrare che un’altra teoria, quella nonviolenta, avrebbe portato ad altre pratiche) non solo sul versante ‘dal basso’ ma, presentandolo per primo, anche su quello governativo. Qui principalmente sarebbe stato possibile mettere in atto l’ascolto delle istanze del ‘nemico’ di cui dicevo più sopra e che, è il momento di dirlo, avrebbe significato garantire a Putin, come questi chiedeva, che l’Ucraina non sarebbe mai entrata nella Nato; ed era possibile anche mettere in atto interventi creativi come la diffusione di sedi di ambasciate in tutto il territorio ucraino, in modo da porvi intorno uno “scudo umano” istituzionale di portata internazionale.

Quindi concentrarsi soltanto sulle azioni ‘dal basso’ non sarebbe eventualmente in nessun caso sufficiente per invalidare la teoria. Ma non importa; continuiamo pure a seguire il Nostro sull’unico piano che egli, deresponsabilizzando in tal modo i Governi e presentando un quadro molto riduttivo rispetto a quello da me fornito, ha scelto di considerare – ma ha parzialmente mescolato con l’altro quando ha ritenuto opportuno.

Dunque, per l’opposizione nonviolenta ‘dal basso’ Neri Pollastri cita un passo in cui faccio riferimento alla possibilità che aveva l’Ucraina di agire «diversamente da come ha fatto» (Cozzo 2022: 30) – quindi mi sto riferendo alle pratiche ucraine alternative alla presa delle armi nel momento dell’invasione – schierando ai confini «non esercito e carri armati ma decine di migliaia di civili (donne, uomini, bambini), con i satelliti e tutti i media internazionali, soprattutto le televisioni, puntati su di loro. Riusciamo a immaginare uno scenario che preveda bombardamenti su di loro?». Neri Pollastri aggiunge: 

«che la domanda conclusiva sia posta in forma retorica, come se per Cozzo fosse del tutto scontato un bel “no”, a mio parere è prova del suo avere una forte componente di speranza e uno scarso realismo. Personalmente, tutto al contrario, non solo risponderei che sì, possiamo ben immaginarlo, ma che addirittura lo abbiamo anche visto realizzarsi (quasi) in diretta, nei bombardamenti israeliani su Gaza, giustificato dall’accusa alla parte avversa di aver usato quei civili innocenti come “scudi umani”. Ma, anche senza far riferimento a quell’orrore che abbiamo davanti tutti i giorni e che i governi di tutto il mondo continuano a far finta di non vedere, non ci bastano le mostruosità che l’uomo è stato in grado di fare nella storia per farci riconoscere che la speranza che quei civili schierati non vengano ignorati e schiacciati sia ben poco fondata? Mi par già di sentirlo, il simpatico Ministro degli Esteri russo Lavrov, accusare il corrotto e decadente Occidente di aver mandato al macello degli innocenti per il cinico obiettivo di far fare loro da scudo ai nazisti del battaglione Azov… Del resto, perché mai chi è pronto a spegnere vite armate dovrebbe arretrare di fronte alla necessità di fare la stessa cosa con vite non armate? Anzi, se si tiene conto della violenza psicologica cui accennavamo in precedenza, il militare che la subisce può persino diventare più cinico e aggressivo». 

Ora, in primo luogo, lungi dall’avere il senso retorico attribuitole da Pollastri, la mia domanda proseguiva senza alcuna pretesa di certezza bensì, esattamente al contrario, con una dichiarazione di soggettività: «Personalmente, al massimo, riesco ad immaginare i soldati russi (in grandissimo numero) e i carri armati che si fanno strada a fatica tra costoro» (ivi: 30). «Personalmente» è anche l’avverbio che, come si sarà notato, utilizza Pollastri – forse avendolo conservato nell’orecchio proprio dopo aver letto la mia frase – subito di seguito per se stesso.

In secondo luogo, la considerazione dei bombardamenti israeliani su Gaza per provare che avremmo visto addirittura realizzato ciò che il sottoscritto diceva di avere difficoltà a immaginare mi pare fondata su un’analogia scorretta tra i civili ucraini del mio esempio/proposta e quelli palestinesi della realtà di Gaza tirata in ballo da Neri Pollastri. Il massacro dei civili palestinesi, infatti, semplicemente non ha nulla a che fare con quanto ho scritto. Infatti, a. i palestinesi non si espongono volontariamente alla violenza israeliana ma la subiscono, b. vivono in un contesto che è già bellico, c. hanno in mezzo a loro i combattenti di Hamas e ciò permette a Israele di dire (falsamente o no, non importa), per esempio, che nell’ospedale X o nel negozio Y che ha bombardato erano nascosti dei “terroristi”.

Il paradosso è che ad ammettere che il bombardamento dei civili di Gaza sia giustificato da Israele con la presenza armata di Hamas che dei civili si farebbe scudo è lo stesso Pollastri, senza accorgersi che in tal modo non viene provato ciò che sostiene lui bensì, esattamente, ciò che sostiene il sottoscritto: è Hamas, in quanto organizzazione armata, il bersaglio, non i civili privi di armi; se quella non ci fosse, lo Stato di Israele non potrebbe (non avrebbe ragione di) colpire i civili perché gli mancherebbe la giustificazione. Ergo: sono proprio gli armati che, contrariamente a come vorrebbe Pollastri, una buona teoria di contrasto (‘sgonfiamento della violenza’) dell’aggressore deve rimuovere, non i disarmati.

Il celebre scatto di Bernie Boston, realizzato il 21 ottobre 1967 davanti al Pentagono durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam

Il celebre scatto di Bernie Boston, realizzato il 21 ottobre 1967 davanti al Pentagono durante una manifestazione contro la guerra in Vietnam

Dunque, i tre elementi prima citati, nella loro singolarità e a maggior ragione nel loro insieme, rendono nettamente diverso il contesto di Gaza (che infatti nessuno definisce nonviolento) da quello suggerito dal sottoscritto, e il fatto che i civili non vengano colpiti in quanto tali ma in quanto volontari o involontari supporti dei combattenti avvalora ciò che ho sostenuto.

Quanto alla «storia» – le cui «mostruosità» nessuno si sognerebbe mai di negare ma non hanno nessuna relazione con ciò che dice il sottoscritto benché secondo Pollastri provino anch’esse che «la speranza che quei civili schierati non vengano ignorati e schiacciati sia ben poco fondata» – vorrei capire a quali casi di azione nonviolenta (che, per come l’ho suggerita, sia fallita) l’autore. stia pensando.

Suppongo che, in linea con lo stesso equivoco di prima, egli stia pensando a tutti i massacri di civili inermi e passivi (ma non nonviolenti) di cui le guerre – cioè i contesti in cui agiscano forze militari da entrambi i fronti (il che il sottoscritto, nella sua ipotesi, aveva proprio escluso) – sono, ahinoi, piene. Come ho appena detto, tutto ciò non confuta nulla della teoria della nonviolenza. A questo punto, l’ironica affermazione di Neri sul comportamento del «simpatico Ministro degli Esteri russo Lavrov» risulta fuori luogo e ancora una volta basata sull’idea (non corretta) che Pollastri, trascurando completamente quanto ho scritto nel libricino, si è fatto dell’azione nonviolenta. Infatti, Pollastri crede che il sottoscritto preveda che i civili possano essere schierati per fare (come secondo lui direbbe Lavrov) «da scudo ai nazisti del battaglione Azov». Tuttavia, nella mia ipotesi i nazisti (anche i nazisti) non sarebbero stati affatto impiegati in battaglie per il semplice motivo che ho escluso qualsiasi battaglia. Invece, a loro proposito, ho espressamente detto nel mio testo (Cozzo 2022: 27), trattando degli interventi governativi, che «si poteva proporre una inchiesta internazionale per accertare la fondatezza o meno delle accuse di Putin»: non siamo forse tutti interessati a scoprire e processare dei nazisti? 

Assisi, Marcia della pace

Assisi, Marcia della pace, 2024

4. Una (per me) strana nozione di “violenza psicologica”

Infine, l’idea di Neri Pollastri secondo cui i militari che si vedono davanti resistenti disarmati e nonviolenti potrebbero addirittura diventare più crudeli perché si sentirebbero vittime della violenza psicologica dei nonviolenti, che ai miei occhi è un’affermazione veramente strana, si fonda sulla sua precedente considerazione (nella sua nota 5) di un singolare concetto di violenza psicologica (come, d’altronde, era singolare anche il suo concetto di nonviolenza): 

«che altro è lo schierare donne e bambini di fronte ai carri armati invasori, come proposto nel caso dell’invasione russa in Ucraina, se non una violenza psicologica nei confronti di chi quei carri li guida, stringendolo tra l’incudine di sparare sugli inermi e il martello di essere fucilato dai suoi superiori nel caso non lo faccia? Va benissimo che lo si faccia, è chiaro, ma si riconosca che comunque di violenza psicologica si tratta». 

Così, l’evidente appello alla coscienza dell’avversario finisce per diventare, nel suo modo di pensare, una violenza psicologica. A questo punto, se non sbaglio, saremmo obbligati a considerare una violenza psicologica anche il fatto di non dare il nostro portafogli a un rapinatore che, avendo una famiglia oppressa dalla fame e dalla povertà, ci minacciasse a mano armata: per evitare di “stringerlo tra l’incudine di ucciderci e il martello far morire di fame la sua famiglia”, dovremmo consegnargli il denaro, oppure, se non glielo volessimo proprio dare e lui esitasse a spararci, dovremmo strappargli la pistola e spararci da soli. Per uscire dall’ambito scherzoso, col criterio di Neri Pollastri forse dovremmo dire che gli ebrei richiedenti al nazista Eichmann di disobbedire agli ordini e di non metterli nelle camere a gas gli imponevano una terribile violenza psicologica (com’è noto, lui risolse la sofferenza del problema – obbedire agli ordini o rischiare di essere fucilato per avervi disobbedito – scegliendo il primo corno del dilemma). Credo, e credo di essere sostenuto da qualsiasi psicologo, che il non consegnare il portafogli o il non spararci da soli e, ancora più chiaramente, il chiedere ad Eichmann di non obbedire agli ordini non costituiscano violenze psicologiche. 

1668768130-97888949840955. Qualche mio altro dubbio

Quanto a quei «numerosi sedicenti pacifisti nonviolenti» ai quali Neri Pollastri dice di aver proposto egli stesso interposizioni disarmate in Ucraina (dunque ne era convinto? o era una sfida che egli rivolgeva loro provocatoriamente?) e di essersi «sistematicamente sentito rispondere che ci andassi io a farle», desidererei conoscerne anche uno solo. Soprattutto, desidererei sapere se glielo avevano detto loro di essere “pacifisti nonviolenti” e, se così fosse, se adoperavano la parola “nonviolento” con consapevolezza oppure senza fare differenza tra essa e “pacifista” (cioè come, se ho capito bene, era per lo stesso Neri Pollastri prima di aver letto le mie pagine dalle quali, appunto, dice di aver tratto come prima considerazione interessante «la distinzione di “pacifista” e “nonviolento”». Lo chiedo perché uno dei guai odierni è che la parola “nonviolenza” sta diventando di moda ma in un’accezione impropria – un po’ come è capitato alla parola “relatività” di Einstein che viene spesso serenamente tirata in ballo nel linguaggio comune come sinonimo di “relativismo”. Comunque sia, l’idea che le interposizioni, come sembra credere Neri Pollastri, consistano nel fatto che qualcuno si alzi una mattina e si rechi in Ucraina («Perché chi le promuove e le presenta come “alternative” non le ha messe in atto?») e vada a «opporsi a mani nude» (come viene detto in seguito, con una rappresentazione ridicolizzante e fuorviante che fa immaginare uomini disarmati intenti a dar pugni a soldati che sparano e tirano granate) non ha niente a che fare con ciò di cui ha parlato il sottoscritto, nel cui testo si può leggere «…ad opera di migliaia di civili, che, col consenso ucraino e sotto i riflettori internazionali, si mettessero in mezzo alle parti» (Cozzo, La nonviolenza cit.: 29). Andare a improvvisare una interposizione con qualche amico come si improvvisa una bella scampagnata sarebbe semplicemente segno di irresponsabilità, oltre che, soprattutto, un’impossibilità tecnica.

Pertanto, quando Neri Pollastri afferma che «oggi manca affatto la preparazione per far sì che i cittadini siano pronti a prender parte a simili opposizioni nonviolente», da un lato dice una cosa corretta – motivo per cui tale preparazione va attivata mediante l’istituzione di un Dipartimento di Difesa Civile non armata e non violenta (come sostenuto dal movimento nonviolento), da un altro trascura che le interposizioni ‘dal basso’ hanno una fattibilità più immediata ma che non può essere priva di un’organizzazione pur sempre complessa (a partire da un’intesa col Governo ucraino stesso che dovrebbe concedere l’attraversamento dei confini etc.!). La circolazione delle idee contenute nel mio libricino (se comprese ed esposte in forma non banalizzata) ha per l’appunto la possibilità di contribuire a quella cultura che lo stesso Pollastri ritiene che debba prima diffondersi perché la nonviolenza sia efficace. Diversamente, abbiamo un gatto che si morde la coda…

Lo stesso vale per la questione “transarmo”, che andrebbe affrontata nei termini di una sua gradualità (è per questo che non si chiama disarmo!). Quando Pollastri scrive che «tutto questo, e altro ancora, oggi non c’è» dice una cosa ovvia e da me altrettanto ovviamente presupposta. Invece, quando immediatamente di seguito aggiunge «e in sua assenza appellarsi ad azioni non violente per opporsi all’invio di armi o alla riorganizzazione di un esercito europeo che difenda il continente in attesa del completamento del transarmo e del Dipartimento di Difesa Civile, è o ingenuo, o demagogico», mi pare che stia semplicemente mancando il bersaglio: chi si è mai appellato a queste istituzioni per opporsi all’invio di armi? L’invio di armi trova la sua opposizione oggi nella realtà della sua scorrettezza previsionale e nella sua inefficacia, nonché, già prima, nella sua non convenienza sul piano delle vite messe in pericolo e di tutti gli altri danni che ho già segnalato più sopra.

Leggendo lo scritto di Neri Pollastri provo grande perplessità davanti a molte altre considerazioni. Ad esempio davanti a quelle sulla voce “Pacifismo” del vocabolario Treccani online dove, secondo lui, «non c’è nessun riferimento diretto all’antimilitarismo o al rifiuto assoluto delle armi». Suppongo che per «diretto» egli intenda la presenza della parola, in quanto il senso della definizione mi pare invece rinviare proprio anche all’antimilitarismo. Non saprei infatti come l’antimilitarismo possa non essere compreso nella definizione treccaniana del pacifismo come pensiero «che rifiuta e condanna il ricorso alla guerra e a ogni tipo di scontro armato o di aggressione come mezzi per risolvere le controversie internazionali, e vuole dimostrare la necessità del mantenimento o ristabilimento della pace tra i popoli, da raggiungere solo attraverso trattative o arbitrati» (corsivi miei). Ho perplessità, per aggiungere solo un altro, esempio, anche davanti a ad alcune parole su Tucidide che penso stupirebbero qualsiasi studioso di storia greca. Il quale Tucidide, poi, (1) non è il quinto Vangelo ma un’utile fonte storica per istituire analogie e differenze tra passato e presente, che, oltre che presentare su base congetturale (e non già «riportare», come afferma Pollastri) il ben noto dialogo tra i Meli e gli Ateniesi, (2) scrive pure che, della guerra del Peloponneso, «la giustificazione più vera (…) è che gli Ateniesi, divenuti grandi e offrendo motivo di paura agli Spartani, costrinsero a fare la guerra» (I, 23, 6) e che essa fu grande perché «il resto della Grecia si schierò con gli uni o con gli altri» (I, 1, 1), cioè creò una polarizzazione fra schieramenti molto ampi (il filosofo e storico Plutarco svilupperà quest’ultima considerazione mostrando quali potevano essere i concreti scenari alternativi rispetto all’intervento militare delle terze parti: ateniesi e spartani «si scontrarono in guerra, sobillati dai demagoghi e dai guerrafondai che volevano la guerra reciproca, senza che ci fosse nessuno ad interporsi per separarli» (Vita di Cimone XIX, 3) [9]. Il che assomiglia straordinariamente a quanto accaduto nel caso della guerra in Ucraina: con il linguaggio di Tucidide, si potrebbe dire che la Nato, divenuta grande (12 Paesi membri nel 1949; 16 nel 1991; 30 nel 2022, prima del 24 febbraio!), ha offerto motivo di paura alla Russia ‘costringendola’ a fare la guerra (il che è una spiegazione, non una giustificazione), e che i Paesi terzi si sono schierati con l’una o con l’altra parte polarizzando la situazione (per giunta inducendo Zelensky a rifiutare i negoziati quando Putin gli proponeva nel marzo 2022), anziché mediare.

Ho già preso troppo spazio e non mi è possibile dire di tutto il resto che nell’articolo di Neri Pollastri non trovo del tutto persuasivo. Chiudo pertanto con il sincero ringraziamento al mio critico interlocutore per il tempo che ha voluto dedicare alla lettura del mio testo.

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] A. Cozzo, in collaborazione con A. Cavadi e M. D’Asaro, La nonviolenza oltre i pregiudizi, Di Girolamo, Trapani 2022 (ad esse mi riferirò nel prosieguo con l’abbreviazione Cozzo 2022 e il numero di pagina)). Lo scritto di Pollastri è quello pubblicato in questo stesso numero di “Dialoghi Mediterranei”.
[2] M.K. Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza, Einaudi, Torino 1996: 69.
[3] M.K. Gandhi, Per la pace. Aforismi, Feltrinelli, Milano 2002: 50 (corsivo mio).
[4] A. Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi, Di Girolamo, Trapani 2022: 17.
[5]https://www.washingtonpost.com/opinions/henry-kissinger-to-settle-the-ukraine-crisis-start-at-theend/2014/03/05/46dad868-a496-11e3-8466-d34c451760b9story.html
[6] Cf. J. Sémelin, Senz’armi di fronte a Hitler, (1989) tr. it. Sonda, Torino 1993.
[7] Sul sito governativo
https://www.politichegiovanili.gov.it/comunicazione/news/2024/11/ccp_approvazione_elenchi/ si può vedere l’elenco dei progetti approvati nel 2024.
[8] Cf. E. Chenoweth, Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile, Sonda, Torino 2023.
[9] Per tutto questo si permetta il rinvio a A. Cozzo, La logica della guerra nella Grecia antica. Contenuti, forme, contraddizioni, Palermo University Press, Palermo 2024 (ed. riv. e corr.).

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Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca, presso l’Università di Palermo, dove, dall’a.a. 2001-02 al 2008-2009, ha tenuto anche il “Laboratorio di teoria e pratica della nonviolenza”. Ha tenuto seminari e corsi sulla nonviolenza in scuole, associazioni e centri sociali, nonché per le Forze dell’ordine. Si occupa di storia, teoria e pratica della mediazione e gestione dei conflitti. Sulla storia della mediazione e della nonviolenza nella Grecia antica (che costituisce il suo specifico ambito di lavoro accademico) ha pubblicato i volumi: «Nel mezzo». Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (Pisa University Press, 2014); Riso e sorriso e altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia antica (Edizioni Mimesis, 2018). Sulla teoria e la pratica della nonviolenza e della mediazione in ambito odierno ha pubblicato i volumi: Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Edizioni Mimesis 2004); Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine (Gandhi Edizioni 2007).

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