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La tradizione della memoria

Briganti di Maremma

Briganti di Maremma

CIP

di Paolo Nardini 

I Briganti: un coro o una banda? 

Il nome non inganni: c’è una lunga tradizione di “briganti” in Maremma, il più delle volte “briganti buoni”. Negli anni settanta e nei primi ottanta era attiva a Grosseto una radio del gruppo “radio libere”, denominata “Radio Brigante Tiburzi”, in memoria e onore di quello che popolarmente veniva definito “il brigante livellatore”: immagine falsa e romantica di uno spietato bandito, al servizio dei signorotti locali che all’occorrenza non deve aver lesinato sporadici aiuti a qualche contadino, che ha “regnato” per decenni fra Montebottigli e la Selva del Lamone. Alla Marina di San Rocco (antico nome di una fortezza costiera a difesa della città, diventata nel dopoguerra una località turistico-balneare, e infine oggi un paese a residenzialità anche invernale) troviamo una “Locanda dei Briganti”. A Manciano un ristorante si chiama “Il covo dei briganti”, a Capalbio un hotel-residence ancora più localizzato: “I briganti di Capalbio”. A Chiusdino uno wine-bar è intitolato al più noto dei briganti, già citato prima: “La grotta di Tiburzi”. L’elenco di certo non è esaustivo, ma è giusto per dare l’idea di quanto sia radicata, nella semplificazione popolare, l’immagine che un fenomeno complesso come il brigantaggio nell’Italia centrale, localizzato soprattutto fra Toscana meridionale e Lazio settentrionale, nei decenni immediatamente successivi dell’Unità d’Italia.

Nel 2009, in occasione del festival del primo maggio che si tiene dai primi anni Duemila a Braccagni (Grosseto), fece il suo esordio un coro di musica popolare che si era dato il nome di “Briganti di Maremma”. La giovane età dei componenti (tutti al di sotto dei trent’anni, allora), l’entusiasmo che manifestavano nell’esibirsi, il ritmo vivace dato alla musica tradizionale, sorprese il pubblico presente al “Campo alla fiera”, l’oliveto in cui veniva allestito il palco per l’esibizione dei cori e un piccolo stand che distribuiva gratuitamente (o a offerta) vino, formaggio e fave. Stupì anche la numerosità del coro: oltre quaranta elementi, fra uomini e donne, alcuni giovanissimi. Nell’arco del quindicennio appena trascorso il coro si è ridimensionato, qualche “brigante” e alcune “brigantesse” hanno abbandonato il gruppo, alcuni sono subentrati ad altri, e oggi il coro è composto da circa la metà dei componenti di origine.

Una osservazione più attenta e ravvicinata delle dinamiche del coro, ha messo in evidenza la presenza di uno “zoccolo duro” di partecipanti, che non cambia nel tempo, l’asse intorno al quale ruotano tutti gli altri. Si tratta di poche persone, se ne individuano otto-dieci al massimo, quasi tutte con una formazione universitaria e di conservatorio dal punto di vista musicale: fra questi un pianista, un bassista, due chitarristi, un fisarmonicista e le compagne o mogli dei precedenti. Al vertice, leader riconosciuto e rispettato da tutti, Gianmarco “Gipo” Bragagni, professionista agronomo e direttore di un’azienda turistica.

Ma ciò che è interessante notare è che il coro si impegna anche in attività di ricerca e di promozione culturale. A cinque anni dalla sua formazione, il gruppo, che si era dato la veste giuridica di associazione culturale, organizzò una ricerca sugli “antichi mestieri”: professionalità che si erano quasi del tutto perdute, di cui restavano rari residui nell’attualità, attività artigianali come quella del liutaio, del falegname, del maniscalco, del ceramista, del sellaio. Gli improvvisati ricercatori riuscirono a scovare, nella città e nei borghi della provincia, questi sperduti professionisti, produssero delle interviste sulla vita e le modalità di lavoro. Al termine realizzarono, nella sala esposizioni della Camera di commercio di Grosseto, una mostra di attrezzi e prodotti di queste attività, e un convegno in cui esposero i risultati della ricerca. Coinvolgendo gli studenti del Liceo artistico cittadino, stimolarono la progettazione di oggetti di design sulla base dei mestieri che erano stati oggetto dell’indagine. Non si trattò quindi solo di una ricerca retrospettiva, della ricerca del passato come “l’esotico di casa nostra” non più attuale: dal passato si può immaginare il futuro, si possono scoprire percorsi inattesi.

Oltre a questa iniziativa, che esulava dagli scopi principali dell’associazione, il coro non è mai mancato, nemmeno in tempo di covid (pur con le tutele adeguate) alle principali scadenze del calendario tradizionale della Maremma: la Befanata, la festa della liberazione del 25 aprile, il Canto del Maggio.

Ha rispettato, il coro dei Briganti di Maremma, le modalità di svolgimento di queste attività che costituiscono il fulcro della tradizione maremmana? La risposta è: assolutamente no. Hanno attinto alla tradizione, ma l’hanno trasformata e adeguata ai tempi che corrono. Hanno introdotto nuovi elementi, nuovi testi, nuove musicalità, insieme a quelli storici; innovazione nei costumi indossati, nei quali si riconosce l’origine portata dalla tradizione accanto al nuovo. 

Briganti di Maremma

Briganti di Maremma

Le feste

Forse vale la pena descrivere brevemente le modalità cristallizzate nella tradizione delle principali scadenze festive di cui si sta trattando: la Befanata e il Canto del Maggio. A sé parleremo della festa della liberazione, che il coro dei Briganti ha inventato, inserendoci elementi tradizionali, chiamandola “Festival resistente”.

In estrema sintesi, la Befanata e il Canto del Maggio, o Maggiolata, diffuse la prima principalmente nell’area del monte Amiata, la seconda lungo la fascia costiera della Maremma, possono essere definite come una forma di “teatro popolare itinerante con questua”: sia nell’uno che nell’altro caso, infatti, abbiamo una scena, che non è né il palco di un teatro, né la piazza dei paesi e tanto meno del capoluogo, ma l’interno delle abitazioni dei contadini sparse per la campagna, una rappresentazione che segue un copione ben preciso che si ripete di anno in anno, una richiesta di doni solitamente formulata in poesia estemporanea e i doni stessi (tradizionalmente costituiti da beni alimentari: formaggio, salsicce, uova; più di recente denaro), secondo forme ritualizzate e calendarizzate.

I Briganti hanno introdotto diverse novità, pur mantenendo alcuni aspetti rappresentativi di queste tradizioni. Nel caso della Befanata realizzano la loro performance a cominciare da un bar cittadino. Distribuiscono caramelle ai bambini presenti, accettano dal gestore del bar un bicchiere di vino ciascuno, non richiedono altri doni. 

Befanata tradizionale Befanata dei Briganti
Area del monte Amiata. In alcuni casi vengono visitati agriturismi, ma prevalentemente la performance è dedicata alle famiglie Città capoluogo e uno o due paesi. La performance viene eseguita nei bar e nelle piazze
Uscita in un unico tempo (sera e parte della notte del 5 gennaio) Uscita in due tempi: sera e notte del 5 gennaio (canto itinerante), pomeriggio del 6 gennaio (festa di piazza)
Richiesta rituale (in ottava rima improvvisata) del permesso di poter cantare Non c’è richiesta di poter cantare: quando il gruppo è al completo inizia la sua performance
Canto della canzone della Befana; ogni coro ha la propria canzone, che ripete ogni anno. Le melodie delle canzoni dei vari gruppi sono molto simili Canto della canzone della Befana, che viene modificata ogni due o tre anni. Oltre al testo anche la melodia differisce notevolmente da quella della tradizione
Il testo fa riferimento a Maria (“E col nome di Maria vi si viene a salurar”) e ai doni portati dalla Befana alla famiglia visitata Il testo fa riferimento agli avvenimenti importanti avvenuto nell’anno appena trascorso, ai provvedimenti del governo, sempre in senso oppositivo e denigratorio
Ogni coro ha la sua territorialità, e non si realizza mai una invasione del territorio di un coro diverso dal proprio Non è riconosciuta alcuna territorialità: Il coro si muove da un luogo all’altro della città, si reca nei paesi della provincia secondo accordi preventivi. Le destinazioni possono cambiare di anno in anno
Nessuna iniziativa è svolta il giorno successivo Nel pomeriggio del 6 gennaio il coro svolge una festa di piazza in città: viene allestito un palco sul quale si esibiranno alcuni cori, oltre ai Briganti, dopo aver cantato per le vie del centro storico; al centro della piazza viene allestita una piramide di legna che col calar del buio sarà incendiata. La festa finisce con l’estrazione dei numeri di una lotteria popolare i cui premi (cesti con generi alimentari) sono forniti da alcuni commercianti locali
Richiesta ritualizzata (e formulata in poesia in ottava rima) di doni Nessuna richiesta di doni

Ho utilizzato una griglia per evidenziare in maniera sintetica gli aspetti che differenziano maggiormente la “nuova tradizione” dei Briganti rispetto alle forme più conservative. 

Il Festival resistente

Ma l’iniziativa degna di menzione del coro è il Festival resistente. In collaborazione con l’ARCI provinciale, viene organizzata in città una festa che dura due o tre giorni, fra i quali è compreso il 25 di aprile, festa della Liberazione, in cui, oltre all’usuale stand che fornisce alimenti (panini imbottiti, primi piatti, carne alla griglia) e bevande (fra le quali spiccano la birra e il vino), si esibiscono gruppi musicali locali che propongono musica “non di tradizione” (rock, heavy-rock, metal, eccetera), si tengono incontri e dibattiti, e al termine i cori tradizionali che sono stati invitati propongono brani della tradizione anarchica e di contestazione, con l’immancabile “Bella ciao” che chiude la serata e dà l’avvio al termine del festival, intonata insieme dai cori e dal pubblico presente.

L’idea che sta alla base del Festival è il ricordo e l’affermazione dell’importanza che ha avuto la Resistenza nella costruzione della democrazia in Italia, e anche evidenziare nuove forme di “resistenza”: all’omologazione, alla sottomissione al potere, ogni forma di potere, all’affermazione dell’importanza delle diversità, alle modalità alternative di fare musica, di affrontare i temi sociali, di sperimentare nuove forme di solidarietà e di socialità. 

screenshot_20250421_222151La vicenda rappresentata

Ancora legata alla scadenza del 25 di aprile, è la performance teatrale che ha avuto luogo, in prima rappresentazione, il 16 di aprile scorso al teatro degli Industri di Grosseto [1] in occasione dell’ottantesimo anniversario della Liberazione. Anch’essa è ideata e realizzata dal coro del Briganti di Maremma, con la collaborazione di una regista (Silvia Luzzi), di un direttore musicale (Luca Giacomelli), di una attrice professionista (Alessandra Gigli). È stata messa in scena “La vita bella che ci cresce intorno. L’eccidio di Maiano Lavacchio”, una piece di Marco Cosentino e Alessandra Gigli. Si tratta di un atto unico per voce, coro e musica, che «intesse una trama di parole intorno alle canzoni dei Briganti», come recita il volantino distribuito all’inizio dello spettacolo. Ma qual è il tema della performance rappresentata magistralmente da Alessandra Gigli e dal coro dei Briganti?

Scrivono Corrado Barontini e Fausto Bucci in un libro del 1995 (riedito nel 2003): «I fatti che narreremo si svolsero sessant’anni fa a Maiano Lavacchio, una frazione collinare di Magliano [in Toscana (GR)], in parte ancora coperta dalla vegetazione di Monte Bottigli, in parte coltivata e punteggiata di poderi» [2]. Si tratta della vicenda di una decina di “pacifisti”, definiti dalla legislazione dell’epoca “disertori”, “renitenti”, “clandestini” [3], che rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò, e si nascosero nella macchia nel febbraio del 1944. Determinati a non combattere, senza armi e in assenza di qualsiasi forma organizzativa, quei ragazzi si tenevano lontani sia dall’esercito repubblichino, sia dalla lotta di liberazione. Quella zona di poderi e di bosco accoglieva sbandati, renitenti e alcuni disertori, che vi erano confluiti dopo l’otto settembre, e che si mescolavano agli sfollati grossetani e a quelli romani fuggiti dalla capitale per paura dei bombardamenti, già prima dello sbarco di Anzio. I contadini li ospitavano e questi, quando era possibile, li aiutavano nei lavori della campagna e della stalla.

Per alcuni mesi la permanenza nella zona risultò abbastanza tranquilla, ma alla metà di febbraio del 1944 la minaccia di essere scoperti dai fascisti indusse i ragazzi e un disertore austriaco, anch’egli lì rifugiato, a spostarsi dalle case dei contadini alla macchia di Monte Bottigli, per essere più sicuri e per non mettere in pericolo la vita dei contadini che li ospitavano. Infatti il Prefetto di Grosseto aveva fatto affiggere sui muri in tutta la provincia, il decreto che avvertiva che sarebbe passato per le armi qualsiasi partigiano che venisse trovato, e anche le famiglie che l’avessero ospitato.

La decisione dei giovani di trasferirsi alla macchia fu contrastata dai contadini, che li ritenevano inesperti per la vita nel bosco, e che vedevano più sicuri nelle loro case, dove forse li avrebbero potuti nascondere meglio. Certo che il rischio era grande. Alla fine di febbraio gli undici “ragazzi[4]” si trasferirono nelle capanne che alcuni contadini e un boscaiolo avevano preparato per loro. Si ritenevano al sicuro, nelle capanne al margine del bosco, confidavano sul fatto che anche se li avessero trovati i nazifascisti, non li avrebbero soppressi, essendo persone inermi.

Alice Ercolani prefetto e capo della provincia di Grosseto

Alice Ercolani prefetto e capo della provincia di Grosseto

Innocenti e ingenui, quei giovani mal sopportavano la permanenza forzata alla macchia, che avrebbe messo alla prova persone di maggiore esperienza e ben più abituate alle privazioni e all’isolamento. Perciò a ogni occasione andavano verso i poderi e verso Istia (GR), per non rinunciare a passare un po’ di tempo alla luce del sole, agli incontri con le proprie fidanzate, alle relazioni sociali. Ma questi spostamenti mettevano a rischio i giovani: qualcuno, che sapeva e vedeva, deve aver spifferato qualche frase di troppo con le persone sbagliate.

Il 19 di marzo, infatti, un incaricato della Prefettura di Grosseto fece una strana visita a qualche podere, simulando di essere un fuggitivo antifascista, con l’intento di raccogliere notizie sui renitenti presenti nella zona. In quell’occasione i giovani renitenti scesero dalla macchia e si recarono al podere Appalto, dove si teneva la festa danzante di San Giuseppe. Altri inviati dalla prefettura, sempre dissimulando il proprio status, avvicinarono i giovani e carpirono la posizione delle capanne e la consistenza numerica degli occupanti, oltre che della presenza del disertore austriaco.

Alcide Mignani

Alcide Mignani

Alfieri Grazi

Alfieri Grazi

La notte del 21, due giorni dopo, quindi, un nutrito gruppo di fascisti, accompagnato da alcuni soldati tedeschi, raggiunse la zona, occupò un podere facendo prigionieri i contadini che vi abitavano, malmenandone poi diversi e infine costringendo due di loro ad accompagnarli alle capanne. Dietro di loro, lungo il sentiero, si muovevano circa centoquaranta uomini: una colonna di guardie nazionali repubblicane, un plotone di polizia, un nucleo di carabinieri e qualche soldato tedesco.

Alfonso Passamanti

Alfonso Passamanti

Alvaro Minucci

Alvaro Minucci

Procedevano con le armi spianate nel silenzio più assoluto per cogliere di sorpresa il gruppo dei giovani alloggiati ai capanni nella macchia [5]. Intanto gli altri poderi della zona vennero accerchiati dai repubblichini, per evitare che qualcuno andasse ad avvertire i renitenti, e allo stesso tempo per scovare eventuali rifugiati. In alcuni casi i contadini riuscirono ad avvertire i loro ospiti e a farli fuggire. Qualcuno cercò di raggiungere i giovani alle capanne per avvertirli, ma il tentativo fallì.

Antonio Brancati

Antonio Brancati

Attilio Sforzi

Attilio Sforzi

Era ancora notte quando i fascisti raggiunsero le capanne, le accerchiarono e intimarono agli occupanti di uscire. Questi non opposero alcuna resistenza, e vennero fatti incamminare verso Maiano Lavacchio. Il disertore austriaco tentò la fuga, gettandosi in un punto in cui la macchia era più fitta. Alcuni lo seguirono. I fascisti allora intimano loro di tornare, minacciando, in caso contrario, di uccidere gli altri.

Mario Becucci

Mario Becucci

Corrado Matteini

Corrado Matteini

Gli italiani rientrarono, invece l’austriaco continuò la fuga e si dileguò mentre i repubblichini gli sparavano, senza colpirlo. Giunti al podere Lavacchio, percossero chi trovarono: un garzone, un contadino. Uno dei fascisti a un certo punto prese la mira per sparare ad alcuni operai che stavano lavorando per una impresa di legnami, ma qualcuno dei suoi lo fermò. 

Rino Ciattini

Rino Ciattini

Silvano Guidoni

Silvano Guidoni

I fascisti divisi in due gruppi, raggiunsero il podere Appalto, dove c’era la scuola, e la maestra fece uscire in anticipo gli scolari: l’aula doveva servire per il processo improvvisato, i cui imputati erano alcuni contadini cui furono trovati dei fucili e i giovani renitenti. I primi vennero assolti, mentre i giovani renitenti furono condannati alla fucilazione. Uno dei fratelli Matteini ebbe modo di lasciare, scritto sulla lavagna, un messaggio per la sua mamma: “Mamma, Lele e Corrado, un bacio”. A nulla valsero le proteste dei contadini e delle donne raccolte lì intorno, anzi, vennero represse violentemente.

lavagna_martiri_distiaScelti i componenti del protone d’esecuzione, i giovani furono fatti uscire dall’aula. Poco dopo, la scarica.  Uno del plotone si mise a esultare, depose il mitra e iniziò una danza fra i cadaveri dei giovani appena uccisi. E poi, rivolto a uno dei suoi: “Hai visto? Siamo vecchi, ma ancora in gamba. E come si sa tirare dritto!”. Poi i repubblichini se ne andarono, cantando, facendosi sentire finché non erano lontani, dai contadini che, sgomenti, piangevano i giovani martiri.

Dopo la liberazione, fra il 1944 e il 1945, alcuni repubblichini, ritenuti a torto o a ragione implicati nell’eccidio di Maiano Lavacchio, furono uccisi. Altri furono condannati a morte dalla Corte d’Assise di Grosseto. Le condanne a morte non furono mai eseguite, vennero annullate e convertite in ergastolo dalla Corte Suprema di Cassazione di Roma nel 1948. Tutti i responsabili beneficiarono poi dell’amnistia e vennero rilasciati dopo pochi anni.

locandina-la_vita_bella_che_ci_cresce_intornoIn teatro

L’atto unico che il coro dei Briganti ha portato sulla scena, rappresenta una maestra elementare che si trova proprio nella scuola che è stata teatro del processo farsa, di fronte alla lavagna dove i fratelli Matteini hanno scritto “Mamma, un bacio, Lele e Corrado”; a distanza di venti anni dall’eccidio, riflette sul fatto che nessuno dei responsabili della strage di Maiano Lavacchio abbia pagato per il male commesso. Siamo alla metà degli anni sessanta, quando si comincia ad assaporare il benessere: nelle case arrivano gli elettrodomestici, ci si muove in automobile, si può andare perfino al cinema in città. Ma qualcosa rode l’anima della maestra: si chiede se non è forse un’ingrata, verso la vita, verso “la vita bella che ci cresce intorno”, che è la frase che dà il titolo all’intera rappresentazione. La rode il pensiero che ci sia una profonda ingiustizia nel fatto che nessuno abbia pagato, che i colpevoli siano tutti liberi. L’intero monologo si gioca intorno a questi pensieri nefasti: “oggi non è un buon giorno”, ripete l’insegnante, sfogliando libri, leggendo documenti, spostando oggetti e se stessa da una parte all’altra del set. È una scena straziante, la disperazione della donna, e risuonano nella sua mente, e lei le ripete più e più volte, le parole dell’anziano componente del plotone d’esecuzione: “Hai visto? Siamo vecchi, ma ancora in gamba. E come si sa tirare dritto!”. 

Processo a Grosseto per i crimini della RSI

Processo a Grosseto per i crimini della RSI

Interviene il coro a spezzare il lungo monologo: brani che cantano la libertà, la speranza, l’amore, la volontà di pace e di giustizia, di vivere pacificamente, come quei ragazzi che per la loro voglia di vivere in pace, per il loro rifiuto non di una parte, ma di entrambe, furono barbaramente uccisi. “Sono povero, ma disertore, recita uno dei brani più toccanti portati sulla scena, del repertorio dei Briganti, e disertavo per la foresta, quando un pensiero mi venne in testa di non fare mai più il soldà”.

Siamo a ottanta anni dalla Liberazione, sono stati otto decenni durante i quali si è ritenuto impossibile tornare a rivivere situazioni di bellicismo fra gli Stati, pur con le tensioni che si sono viste: i blocchi contrapposti, il mondo spartito in due grandi zone di influenza, quella socialista e quella liberale, o forse si dovrebbe dire meglio sovietica e americana, una città come Berlino divisa in due, i soprusi perpetrati dalla CIA e dalla Stasi, insomma, sebbene tutto questo, si era convinti di aver sconfitto ogni possibilità di guerra almeno in Europa, in quella parte di mondo che chiamiamo Occidente. E invece, dopo il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’impero sovietico, cosa che ci faceva sperare ancora di più di aver sconfitto la guerra, esplodono i Balcani: il conflitto si fa etnico, economico, religioso, in un groviglio di interessi e visioni contrapposte difficile da dipanare. E più di recente l’aggressione dell’Ucraina, di fronte alla quale, nonostante la massiccia quantità di armi messa in campo, ci sentiamo disarmati, e l’Occidente che ritiene se stesso così avanzato non riesce a trovare più gli strumenti che sembrava consentissero un’esistenza in pace. Il commercio, la libera circolazione di merci e di persone fra gli Stati, sembrano diventati il motivo e allo stesso tempo lo strumento di nuove conflittualità.

Per questo io credo che sia necessario che i cori che propongono musiche tradizionali, canti anarchici, di lotta, di libertà, d’amore, continuino a farlo, a diffondere il loro messaggio benefico. E che si aprano ad altre forme di rappresentazione, che non si cristallizzino in una ripetizione della tradizione immobilizzata nel suo passato. Perché il loro ruolo è analogo a quello degli intellettuali, che con un loro saggio, un articolo, un libro, o, volendo, una rappresentazione teatrale, un film, un documentario, inducono all’attività didattica del ragionamento.

Cappella di Maiano

Cappella di Maiano

Memorie 

È importante che se ne parli, che se ne scriva, che in qualsiasi modo si rappresenti il dolore subito dalle popolazioni inermi a causa della furia nazista e fascista. Che questo dolore sia rappresentato soprattutto alle giovani generazioni. In molti casi sono stati i nazisti in ritirata che hanno compiuto gli eccidi, spesso con la connivenza o la complicità dei fascisti. Un libro dedicato alle stragi e alle violenze nazifasciste in Toscana ne elenca 61, degli 822 censiti dall’“Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia”, per la stessa regione. Colpisce il fatto che il libro raccolga i post di FaceBook scritti, si direbbe con linguaggio quasi arcaico, o con il neologismo “postati”, in occasione della ricorrenza di ciascuna strage.

screenshot_20250421_222452Alcuni esempi: a marzo del 1944 a Vicchio, in Mugello, viene ordinato un rastrellamento per la cattura dei partigiani: non riuscendo a catturare i partigiani, vengono catturati trenta renitenti alla leva. Cinque di essi vengono condannati a morte. La sentenza venne eseguita a Firenze alla presenza, forzata a scopo intimidatorio, di gruppi di cittadini. Alla fine dello stesso mese quattro giovani renitenti furono fucilati a Pistoia. A Vallucciole, in provincia di Arezzo, avvenne la prima grande strage eliminazionista: uomini, donne, bambini massacrati, stupri, sequestri, esecuzioni. Spesso, oltre ai saccheggi, le case vengono date alle fiamme, come nel caso di Manciano: a maggio un contadino antifascista che aveva ospitato dei soldati inglesi, viene catturato e, insieme a questi, fucilato due giorni dopo a Montemerano; i cadaveri, sotterrati sul posto, saranno ritrovati a settembre.

In alcuni casi si trattava di rappresaglie contro i civili a seguito di azioni partigiane, civili che a quelle azioni non avevano preso parte. Ma la strategia era proprio quella di dividere la popolazione, di fare in modo che si colpevolizzassero i partigiani per aver “provocato” la rappresaglia. Una strategia che in diversi casi sembra aver funzionato, come dimostra Santino Gallorini nel libro La memoria riunita. Oltre 200 civili alla fine di giugno vengono massacrati dai soldati tedeschi, le case vengono date alle fiamme, in alcuni paesi in provincia di Arezzo. Poco tempo dopo i superstiti imputano ai partigiani di aver “provocato” la rappresaglia tedesca. Le accuse reciproche di una “memoria divisa”, orientata in direzioni opposte, dureranno decenni, finché Gallorini, basandosi sui documenti italiani, inglesi e tedeschi, non riuscirà a ricostruire gli accadimenti che portarono a quella strage. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Note
[1] Nato nei primi anni dell’Ottocento dopo la costituzione dell’Accademia degli Industri, il teatro fu inaugurato il 3 gennaio 1819. Pur non essendo un teatro di vaste dimensioni, rappresentò fin dai primi anni il centro della vita culturale della città. Rivelatosi insufficiente e fuori norma, alla fine dell’Ottocento fu riedificato più capiente e a norma con le leggi di sicurezza del tempo. L’ultimo restauro risale alla fine del secolo scorso.
[2] Corrado Barontini e Fausto Bucci, A Monte Bottigli contro la guerra: dieci ragazzi, un decoratore mazziniano, un disertore viennese, Grosseto, ANPI, 1995 (seconda edizione La Ginestra, Follonica, 2003), pag. 9. Il riferimento temporale (“sessant’anni fa”) è relativo all’anno di pubblicazione del libro.
[3] Il “Bando Graziani”, emanato il 18 febbraio 1944 dal Ministro della Difesa della neonata Repubblica Sociale Italiana, Rodolfo Graziani, fu il secondo bando di reclutamento militare obbligatorio destinato ai giovani italiani (classi 1923, 1324 e 1925) per la costituzione del nuovo esercito della RSI. Chiunque non si fosse presentato alla chiamata alle armi sarebbe stato punito con la pena di morte “mediante fucilazione al petto“. Questo bando costrinse i giovani ad una scelta difficile: dei 180mila richiamati alla leva, solo 87mila si presentarono. Tutti gli altri disertarono e spesso fuggirono raggiungendo le prime formazioni partigiane. «Gli iscritti di leva arruolati e i militari in congedo che durante lo stato di guerra e senza giustificato motivo, non si presenteranno alle armi nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico, ai sensi dell’articolo 144 C.P.M., e puniti con la morte mediante fucilazione al petto»
[4] Si trattava di Alcide Mignarri, Alfiero Grazi, Alfonso Passannanti, Alvaro Minucci, Antonio Brancati, Attilio Sforzi, Corrado Matteini, Emanuele Matteini, Mario Becucci, Rino Ciattini, Silvano Guidoni, cui si era aggiunto Gunter Frichugsdord, il soldato austriaco della Wermacht.
[5] Barontini, Bucci, A monte Bottigli, cit: 16. 

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Paolo Nardini, laureato in filosofia con indirizzo demo-etno-antropologico presso l’Università di Siena, è giornalista dal 2006, scrive per Il Tirreno. Ha pubblicato su Maremma Magazine, il Manifesto e La Nazione. Dal 2015 al 2020 ha organizzato con cadenza annuale i “Laboratori di musica popolare”, a Grosseto, in collaborazione con il Circolo ARCI Khorakhanè. Nel 1986 iniziò una collaborazione con il Comune di Grosseto per la realizzazione del Museo della Maremma di Alberese, con la guida di Maria Luisa Meoni e il coordinamento di Pietro Clemente. Da allora, e fino a oggi, si occupa dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma, un centro di ricerca e di riproposizione delle attività tradizionali. Negli anni 2009-2011 ha partecipato alle iniziative del progetto transfrontaliero INCONTRO (INterventi CONdivisi Transfrontalieri di Ricerca sull’Oralità), che metteva in relazione, per uno scambio culturale sull’oralità, le province costiere della Toscana, la Sardegna e la Corsica. Fra le pubblicazioni, tutte edite da Effigi di Arcidosso (Grosseto), si segnala: Improvvisar cantando: Atti dell’incontro di studi sulla poesia estemporanea in ottava rima, a cura di, con Corrado Barontini (2009); Monticello Amiata. Una ricerca etnografica intorno alla Casa Museo (2011); Il Cerchio Magico: Atti del convegno sulle figure magiche nelle narrazioni di tradizione orale in Maremma (2011); Don Luigi Rossi e il rifugio Sant’Anna (2013); Il Sessantotto in Maremma: un figlio dei fiori non pensa al domani (a cura di, con Flavio Fusi) (2018); Sant’Antonio Abate. La benedizione degli animali a Castell’Azzara (2019).

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