CIP
di Giuseppe Mrozek Eliszezynski
Nell’Abruzzo della seconda metà dell’Ottocento, un medico nativo di Gessopalena approfittava delle visite che lo spingevano a raggiungere i propri pazienti nelle contrade più sperdute e nelle campagne più isolate per fare delle piccole interviste alla gente del posto, quasi sempre totalmente analfabeta, per indagare gli usi e i costumi popolari, espressi attraverso riti, canti, novelle, filastrocche e vari tipi di simboli e immagini. A quel medico, che poi nella sua vita finì con l’essere molte altre cose, è dedicato un recente libro a cura di Lia Giancristofaro e Fabiana Dimpflmeier, entrambe antropologhe culturali presso l’Università di Chieti-Pescara: Gennaro Finamore tra luoghi e mondo, che raccoglie i contributi presentati in occasione del convegno internazionale Gennaro Finamore tra ricerca folklorica, dialettologia e impegno educativo, tenutosi l’8 e il 9 luglio 2023 tra Pescara e Gessopalena. Il volume è stato pubblicato nel 2024 a Pescara, nella collana di Storia della Fondazione PescarAbruzzo.
Noto principalmente per la sua attività di studioso delle tradizioni popolari, di etnologo e quindi di precursore della disciplina che oggi chiamiamo antropologia culturale (ma che il diretto interessato e i suoi contemporanei chiamavano piuttosto demopsicologia), Gennaro Finamore (1836-1923) costituisce in realtà un esempio efficace di quell’ideale di intellettuale che è stato protagonista della repubblica delle lettere europea a cavallo tra Otto e Novecento. Come Benedetto Croce, tanto per fare l’esempio di una personalità certamente più celebre di lui, Finamore declinò il suo “multiforme ingegno” in vari ambiti, mai sconfinando nel dilettantismo o in tentazioni da “tuttologo”, ma sempre cercando di approfondire le sue intuizioni e i suoi interessi attraverso lo studio metodico e la ricerca sul campo.
Dopo la laurea in medicina ottenuta all’Università di Napoli (riferimento ineludibile per tutti i giovani abruzzesi dell’epoca che avessero a cuore una formazione universitaria di alto livello), esercitò la professione medica per oltre vent’anni, coltivando allo stesso tempo i suoi interessi verso la cultura popolare in tutte le sue forme e mostrando attitudini che andavano al di là della sola demoetnografia e che lo portarono anzi a occuparsi di storia del territorio, di linguistica e di dialettologia. Ormai ultracinquantenne e già sposato con la poetessa perugina Rosmunda Tomei, Finamore ebbe la forza e il coraggio di cambiare radicalmente la propria vita, molto amareggiato per la mancanza di riconoscimenti, soprattutto economici, che riteneva di meritare per i suoi studi: abbandonata Gessopalena e la professione medica e ridotta quasi a nulla l’attività di demoetnologo, Finamore trascorse i suoi ultimi trent’anni di vita a Lanciano, come docente e poi preside del locale Liceo Classico, soddisfacendo le proprie ambizioni culturali non solo attraverso l’attività educativa e la rete di contatti europei costruita negli anni precedenti, ma anche collaborando con diverse riviste abruzzesi e, soprattutto, con la casa editrice Carabba, all’epoca molto attiva sul mercato nazionale sia nel settore della narrativa, sia in quello nascente, ma già molto remunerativo, della manualistica scolastica.
Da una personalità così complessa e sfaccettata non poteva che derivare una produzione bibliografica assai varia: dal saggio di storia economica Delle condizioni economico-agricole di Gessopalena (1872) ai suoi testi più celebri incentrati sulle ricerche demoetnografiche, come, solo per citare alcuni esempi, Canti popolari abruzzesi (1886), Botanica popolare abruzzese (articolo del 1889), Curiosità e credenze, usi e costumi abruzzesi (1890). Esemplificativo invece dell’ultima fase della sua vita, votata per lo più alla pedagogia, è invece il manuale Dialetto e lingua. Avviamento dell’italiano nelle nostre scuole (1898).
Dopo la prefazione di Nicola Mattoscio, presidente della Fondazione Pescarabruzzo, e la nota delle curatrici, il volume si apre con il saggio introduttivo di Lia Giancristofaro, che riassume gli eventi biografici di Finamore immergendoli nel contesto abruzzese otto-novecentesco e in quell’insieme di conoscenze sulla cultura popolare regionale cui il padre della studiosa, Emiliano Giancristofaro, ha dato un riconosciuto contributo.
Il volume è diviso in quattro parti. Nella prima si ricostruisce il contesto storico e antropologico in cui visse Finamore, con i suoi contatti italiani e in particolare (come racconta Ferdinando Mirizzi) con il siciliano Giuseppe Pitrè, anche lui medico con la passione per la demologia e punto di riferimento per tanti studiosi dell’epoca, italiani e non solo. Pur vivendo per tutta la vita in una periferia d’Europa dalla “identità sfuggente”, per dirla con Costantino Felice, qual era l’Abruzzo, in un’epoca in cui stava emergendo un nuovo gruppo dirigente, quello dei notabili (Carmelita della Penna) e che comunque lo spinse a occuparsi di tematiche relative alla storia del territorio e delle sue attività produttive (Costantino Felice), Finamore fu anche al centro di una rete europea di studiosi e intellettuali, che gli permise di non confinarsi nel ruolo di erudito locale, ma di essere invece ben consapevole degli studi e delle ricerche che si conducevano su scala internazionale (Laurent Fournier).
Nella seconda parte il focus si sposta proprio sulla rete di relazioni di Finamore, dal rapporto a distanza con altri fondatori della scienza demoetnoantropologica come Lamberto Loria (Fabiana Dimpflmeier), al suo interesse per i costumi sessuali popolari al centro della raccolta Kryptadia, che tuttavia Finamore non pubblicò mai, forse per pudore o forse per timore che potesse non essere considerato argomento di studio scientifico (Maria Concetta Nicolai); fino al carteggio con Francesco D’Ovidio (Giacomo de Crecchio) e al contenuto di alcune sue carte manoscritte tutt’oggi conservate presso la biblioteca “A.C. De Meis” di Chieti.
La terza parte è dedicata alle numerose novelle popolari raccolte da Finamore nelle sue ricerche sul campo, spesso dettategli da “contadine analfabete”, che rispecchiano un mondo a metà tra mito e scienza (Mario Cimini), che rappresentano le divisioni e i disequilibri della società abruzzese dell’epoca (Eide Spedicato Iengo) e che costituiscono una ghiotta occasione per accurate analisi linguistiche e dialettologiche (Luigi Murolo, Francesco Avolio).
Infine, nella quarta parte, spazio al Finamore studioso di folklore (Eugenio Imbriani) e di medicina popolare (Fabio Dei, Pier Luigi Sacco), con approfondimenti sulle sue ricerche relative ai vari usi popolari delle acque, curativi e non solo (Silvia Scorrano), e alla scienza agroalimentare (Nicolantonio D’Orazio). Nella postfazione, Pietro Clemente chiude idealmente il cerchio, tornando al luogo da cui tutto ebbe origine per Finamore, la natia Gessopalena, per riaffermare un principio: «porre il centro in periferia», ovvero soffermarsi anche sulle piccole realtà di provincia e non solo sui centri, sulle città o sulle capitali, proposito che spesso gli storici fanno fatica a concretizzare, ma che invece è ancora al centro dell’attività demoetnoantropologica.
Molte osservazioni e molti spunti potrebbero partire da un volume così ricco e denso di contenuti. La parabola intellettuale e personale di Finamore si inserisce in un periodo della storia abruzzese spesso sottovalutato, ma in realtà eccezionale, da vari punti di vista. Tra la seconda metà dell’Ottocento e gli anni Trenta del Novecento, l’Abruzzo non fu solo la terra di Gabriele d’Annunzio e Ignazio Silone, per citare i due esempi letterari più celebri, né solo il luogo natio e la destinazione di periodici soggiorni per Benedetto Croce: fu anche l’Abruzzo di Francesco Paolo Michetti e del suo circolo francavillese, delle composizioni musicali di Francesco Paolo Tosti, di filosofi come Bertrando Spaventa, di poeti e pedagogisti ante litteram come Cesare De Titta, nonché di studiosi di costumi e tradizioni popolari che furono anche intellettuali a tutto tondo, come appunto Gennaro Finamore, ma anche Antonio De Nino e Giovanni Pansa.
Dell’Abruzzo, contesto costante delle sue ricerche, Finamore ha peraltro fornito spesso un’immagine che, dal punto di vista di uno storico, non si faticherebbe a definire distorta, o quanto meno stereotipata, idealizzata, a tratti caricaturale. L’Abruzzo di Finamore è quello dei contadini e dei pastori, poverissimo, isolato, “primitivo”: una caratterizzazione che ha finito con il coincidere per lungo tempo con la stessa identità regionale, di cui alcuni segni sono giunti fino ai nostri giorni, se pensiamo che ancora adesso, nell’immaginario collettivo, l’Abruzzo è associato soprattutto alle sue montagne e campagne, al suo verde, all’attività pastorale e ai suoi prodotti più famosi (ormai gli arrosticini ben più della lana). Se questa caratterizzazione di un Abruzzo selvaggio, aspro, isolato dal mondo esterno e povero è figlia soprattutto delle opere letterarie, ad esempio dei celeberrimi “cafoni” di Ignazio Silone, è pur vero che studiosi come Finamore hanno contribuito a una certa costruzione dell’identità regionale, basata anche sull’immagine di un passato, più presunto che reale, in cui l’Abruzzo avrebbe vissuto una sorta di “lungo medioevo”, lontano da quel “moderno” che invece sarebbe comparso ben prima in molte altre parti d’Italia e d’Europa.
Come la storiografia ha messo ormai in evidenza da alcuni decenni, l’Abruzzo non fu solo terra di contadini e pastori (e pescatori): vi furono città e patriziati urbani, non così dissimili da quelli ben più noti del centro-nord della penisola; vi arrivavano uomini, merci e beni provenienti non solo da Napoli o da Roma, ma anche da Venezia e dalla Lombardia, dalla Francia e dalla Germania, così come dall’Adriatico e dai Balcani; e le province di Abruzzo Ultra e Abruzzo Citra non rimasero affatto isolate dalle grandi correnti di pensiero e di cultura che attraversarono l’Europa nei secoli della cosiddetta età moderna, nell’arte come nella letteratura, nella filosofia come nella politica o nell’economia.
Nei confronti di questo Abruzzo ritratto come povero e “primitivo”, coincidente in realtà con la specifica realtà di Gessopalena e dei territori circostanti, Finamore mostrò un atteggiamento ambivalente, che rispecchia i due grandi movimenti culturali che segnarono l’Ottocento e da cui egli fu influenzato, seppure in maniera diversa. È certamente il Finamore romantico quello che parla della gente d’Abruzzo sua contemporanea con uno sguardo non privo d’affetto, che vede in quei modi di vita e in quelle tradizioni il nucleo originario e più puro del carattere di un popolo, e proprio per questo essi andavano studiati e preservati. Il Finamore positivista, probabilmente quello predominante, ha invece assoluta fiducia nel progresso, crede che la sua gente viva ancora la fase aurorale di una crescita che necessariamente si svilupperà per tappe, eppure mostra spesso nei suoi scritti un malcelato fastidio nei confronti di una comunità che quasi testardamente sembra rifiutare il progresso e preferire continuare a vivere come nei secoli passati. Nei confronti di questa gente, Finamore ha un atteggiamento spesso paternalistico, verso persone che da un lato vanno difese in quanto portatrici di una cultura popolare a rischio di scomparsa e che riflettono stadi antichissimi nell’evoluzione della lingua o della medicina; dall’altro lato, si tratta però di individui che vanno guidati, come si farebbe con dei bambini, verso il progresso, certi di fare il loro bene.
Per quanto riguarda la cultura popolare, autentica protagonista del libro, esiste un ricco dibattito in sede storiografica che prende le mosse, in Italia, dagli studi di Carlo Ginzburg, in particolare da Il formaggio e i vermi, e, a livello internazionale, da altri grandi studiosi come Peter Burke e Natalie Zemon Davis. La convinzione secondo cui il “popolo” fosse depositario di una cultura antichissima, di origine pagana più che cristiana, tramandata oralmente e non priva di elementi magici ed esoterici, pur fortemente ridimensionata negli ultimi decenni, emerge con evidenza anche dalle pagine di Finamore. Una cultura popolare, tuttavia, che non va analizzata sotto l’esclusiva lente socio-economica, come a volte pare emergere dal libro in questione. Non erano cioè solamente i contadini e gli strati più umili della società (il “volgo”) a conoscere taluni rituali, certe filastrocche o novelle, o a credere in un uso “magico” di elementi naturali a fini medici. Né la nobiltà, né i notabili ottocenteschi, i ceti emergenti, erano estranei a quella cultura, così come, viceversa, nel mondo popolare non tutti erano parte di quella cultura tradizionale indistintamente. Essere poveri e analfabeti non era condizione sufficiente, né esclusiva, per conoscere e comprendere quel mondo, e d’altra parte la stessa figura di Finamore (medico, poi professore, intellettuale a tutto tondo) ce lo dimostra.
In conclusione, il libro chiarisce in modo limpido, dopo averne terminato la lettura, le ragioni per cui risulta utile e importante tornare a parlare della figura di Gennaro Finamore. Al di là della ricorrenza dei cent’anni dalla morte (1923-2023), egli rappresenta uno dei “padri” di discipline all’epoca non ancora codificate, ma oggi centrali nel quadro degli studi umanistici, quali l’etnografia e l’antropologia. Oltre a ciò, Finamore può rappresentare un modello: quello di uno studioso che, pur non allontanandosi mai dalla sua regione d’origine, non si è rinchiuso nel localismo e nell’isolamento, ma ha saputo viceversa dialogare con la migliore cultura italiana ed europea, contribuendo al progresso delle conoscenze in svariati ambiti del sapere e apportando il proprio contributo, notevole e continuativo, alla crescita civile e intellettuale della sua terra.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
_________________________________________________________________________________
Giuseppe Mrozek Eliszezynski, è ricercatore di Storia Moderna presso l’Università “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. È uno specialista di storia politica e culturale dell’Europa del XVI e XVII secolo, con particolare riferimento alla monarchia spagnola, al governo dei ministri-favoriti e ai rapporti tra la corte di Madrid e i territori italiani, specialmente il regno di Napoli. Su questi temi ha pubblicato vari contributi in rivista e in volume, oltre a quattro monografie: Bajo acusación: el valimiento en el reinado de Felipe III. Procesos y discursos (Madrid, Polifemo, 2015); Ascanio Filomarino. Nobiltà, Chiesa e potere nell’Italia del Seicento (Roma, Viella, 2017); Una fedeltà sempre in bilico. Favoriti e aristocratici tra Madrid e Napoli (secoli XVI-XVII) (Roma, Aracne, 2021); Nobili inquieti. La lotta politica nel regno di Napoli al tempo dei ministri favoriti (1598-1665) (Roma, Viella, 2023). Ultimamente si è interessato anche al tema dei graffiti, in particolare dei graffiti carcerari di età moderna, quali fonti per la ricerca storica: su questo tema è in uscita, a sua cura, il volume Tracciare il passato. I graffiti come fonte per la storia medievale e moderna (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura.
______________________________________________________________
