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Il mito del Carnevale: note a margine di un convegno e di un libro

copertina_maschere_exe-1di Mariano Fresta 

Il mio paese natio si trova sul fianco orientale dell’Etna, ed è lì che, per la prima volta, sono stato spettatore di un episodio carnevalesco. Avrò avuto otto o nove anni e quel martedì grasso con mia madre ero andato in chiesa ad assistere alla funzione religiosa svolta in riparazione dei peccati che altri avrebbero commesso durante i bagordi del carnevale. Non credo che a quell’età avessi idea di quali peccati si potessero commettere durante il carnevale che per me, tra l’altro, era una ricorrenza del tutto sconosciuta, perché al mio paese non era uso festeggiarla. Il termine, comunque, non mi era nuovo, perché forse l’avevo sentito rievocare dalla mia nonna materna, o quando ci raccontava di Giufà il quale, per carnevale si abbuffava di maccheroni, o perché riferiva un’antica tradizione (o forse si trattava di un altro racconto?) che voleva che per carnevale si dovesse svolgere un pranzo a base di maccheroni da mangiare comunitariamente, prendendoli con le mani senza l’aiuto della forchetta da un contenitore particolare come la maiḍḍa, ovvero la madia in cui si impastava il pane. Sapevo però che con il termine “carnalivari” si indicava quella persona un po’ stolta che avesse commesso una sciocchezza o che era solita fare pessime figure. Per il resto era il buio assoluto.

Al termine della funzione religiosa, all’uscita dalla chiesa che dava sulla piazza principale, la nostra attenzione fu attratta da un gruppetto di persone che attorniava un asino. Non era, però, un asino vero: si trattava di due uomini, come indicavano i pantaloni lunghi che si intravvedevano sopra i loro piedi, camuffati mediante un’ampia copertura da un lato della quale spuntava una testa di somaro di cartapesta, e che si muovevano come un animale a quattro zampe.

Il finto asino trotterellava e scalciava tra la gente, che intanto era diventata numerosa, facendo scoppiare talora dei petardi tra le gambe degli spettatori, creando panico specie fra le donne e i bambini. Per un paese abitato da proprietari di piccoli, a volte piccolissimi, vigneti, la cui vita era caratterizzata da una sobrietà e da una moralità tradizionale quasi calviniste, quel povero diversivo creato dal finto asino e dai suoi petardi credo che fosse un evento straordinario, mai accaduto prima; e non sarebbe accaduto più in seguito, almeno a mia memoria.

Poi, quando ancora avevo meno di undici anni andai a frequentare la scuola media lontano da casa, ad Acireale, città che allora si avviava ad organizzare il “più bel carnevale” di Sicilia, durante il quale un corteo di carri allegorici per le vie della città faceva a gara, a distanza, con quelli ben più imponenti di Viareggio.

Del carnevale sentivo parlare a scuola, i miei compagni raccontavano di spettacoli mai visti, di fantocci di cartapesta che venivano fatti muovere da persone nascoste dentro il carro, e che, nell’intenzione dei costruttori, dovevano parodiare, deformandoli, personaggi famosi o ironizzare sui difetti della società locale e di quella nazionale. Al mio primo martedì grasso feci, dunque, la nuova esperienza di un carnevale moderno, seguendo il corteo dei carri, camminando su uno strato soffice di coriandoli, guardando altri ragazzi che lanciavano quei pezzettini di carta colorata e le stelle filanti.

Comunque, quello di Acireale, considerato col senno di poi, non era un carnevale “popolare”, perché non era spontaneo, era organizzato e si avviava a diventare uno dei tanti eventi prodotti dalla cultura di massa. Allora non mi resi conto di ciò, né del resto quel carnevale mi coinvolse emotivamente e neppure culturalmente. È così, da allora, a questa festa sono rimasto del tutto indifferente per sempre. Per me era ed è stato un evento a cui potevo fare a meno di assistere o partecipare.

813su8w9wdl-_ac_uf10001000_ql80_Circa venti anni dopo, mi toccò leggere il Ramo d’oro di Frazer e Le origini del teatro di Toschi [1], quindi dovetti informarmi sul carnevale degli altri. Nei primi tempi della mia attività di demologo mi sembrava che quello che leggevo trovasse riferimento nelle indagini etnografiche svolte nella zona della Toscana in cui ero andato a vivere; poi mi accorsi che qualcosa non andava, soprattutto intorno alla nascita della festa, troppo complicata e complessa per avere un’unica origine antica. Quando poi partecipai ai seminari per il numero monografico della «Ricerca Folklorica» su Frazer [2], ebbi quasi la certezza che le origini del carnevale si dovessero cercare in un’epoca vicina a noi, come il lungo periodo medioevale, durante il quale, a poco a poco venne a costituirsi una festa composita in cui, probabilmente, fu uno spirito anti quaresimale a prevalere sugli altri aspetti. Sono ancora di questo parere, tanto da averlo espresso recentemente a proposito della recensione del libro di Duccio Balestracci, Attraversando l’anno:

«… Con aggiunta la considerazione che il Carnevale non è una festa ultra millenaria, ma recente, che ha avuto origine molto probabilmente in periodo medioevale. Nel profondo, tuttavia, deve conservare qualcosa di più antico, se, come sappiamo, qualcosa del genere avveniva nei Lupercalia dei Romani» [3].

Tutti questi ricordi, che riguardano la mia fanciullezza e gli anni in cui cominciai ad occuparmi di folklore, mi sono venuti in mente durante la lettura di un libro collettaneo che parla diffusamente delle feste di carnevale in Italia e in altri Paesi mediterranei. Il volume mi ha sottoposto immagini di feste ricche, complesse, in cui si condensano riti antichi e moderni e in cui si parla di banchetti come quelli fantasticati dai cantastorie quando raccontavano del paese di Cuccagna. Queste immagini, però, sono del tutto in contrasto con il carnevale della mia esperienza diretta risalente alla fanciullezza, e alla convinzione, dettatami dagli studi successivi, che il carnevale di oggi è tutto un evento costruito in epoca moderna, come ho appreso dai carri e dai fantocci di cartapesta di Acireale. Le differenze notevoli tra la semplicità del mio antico carnevale e la complessità di quello odierno, così ben descritto nei contributi del libro, pongono, a mio parere, questioni sia quando si vogliono capire e spiegare le origini della festa, sia sulla molteplicità delle pratiche con cui essa si svolge. Di tali problemi nel libro non si parla, ma tutto viene narrato come se essi non esistessero. Nel commento che farò al libro ne discuterò alcuni.

Il volume è intitolato La maschera e il cibo. Il carnevale e il Mediterraneo [4]; il titolo è quanto mai vago e disponibile ad accogliere contributi eterogenei sul carnevale, sul cibo ed anche sui Paesi mediterranei. Un bel malloppo, con testi anche in spagnolo e in inglese, un po’ ostico a prima vista; ma siccome il tema del cibo festivo mi interessa, ho deciso di leggerlo. Non vi ho trovato, però, a parte qualche accenno fuggevole, quel che pensavo, cioè il tema del cibo come elemento centrale della festa: ci sono, invece, lunghe descrizioni degli aspetti della festa e lunghi elenchi delle “orge” alimentari a base soprattutto di carne di maiale e derivati. La mia vecchia impressione che le feste siano tutte uguali, nonostante le diverse denominazioni e le numerose varianti, mi si è consolidata grazie soprattutto alle particolareggiate descrizioni degli autori dei testi, sia che trattino di eventi reali, osservati e partecipati, sia che riflettano su testi letterari, antichi e recenti, in cui si parla di cibo e di periodi carnevaleschi.

53397840_10156163588633008_7024695372278661120_nIl volume contiene gli atti di un convegno svoltosi tra Puglia e Basilicata nel 2019 che mirava ad una trattazione ampia sulle feste, antiche e moderne, che avessero o abbiano a che fare con le caratteristiche del carnevale presenti nell’area mediterranea. Visto, dunque, che si tratta di un lungo catalogo di feste carnevalesche e relativi usi alimentari, e visto pure che non tutti gli autori hanno condotto le loro analisi entro i temi fissati, non mi pare il caso qui, a parte qualche eccezione, di soffermarmi sui singoli contributi.

Partiamo ab ovo. Naturalmente, quasi nessuno dei saggisti si è trattenuto dal ricordarci che il termine “carnevale” si dice sia derivato dall’espressione, risalente forse al periodo medievale (alto? basso?), carnem levare, cioè, parafrasando, smettere di mangiare carne nei giorni seguenti la festa di carnevale (ma prima di tale denominazione c’era già una festa? E come si chiamava?), quando subentra la quaresima cattolica; e a rinsaldare questa spiegazione etimologica si ricorre a tutti quelli che ne hanno parlato da tempo, a cominciare da Ludovico Antonio Muratori, illustre padre settecentesco della storiografia italiana. Ma siccome il termine ha diversi gemelli, come carnovale/carnevale (cioè carnem vale, “carne addio”, espressione piuttosto malinconica), e carnesciale/carnasciale, eccetera, allora ci si sbizzarrisce a trovare altri etimi, magari non tenendo conto del latino, come nel caso di “carne lasciare” o addirittura di “carne scialo (ma cosa avessero da scialare le genti di qualche secolo fa non è dato sapere).  C’è anche chi vuole ricollegare a tutti i costi il nostro carnevale ad antiche feste greche (come la Garcìa Soler e la Olson.), oppure ad alcune feste romane, come quelle cui partecipavano i Fratres Arvales, per la qualcosa “carnevale” potrebbe derivare semplicemente da carmen arvale; e se questo etimo non ci piace, si può optare per un’altra congregazione religiosa, quella dei Salii, che con il loro carmen saliare ci avrebbero regalato il “carnasciale” (Kezich-Mott).

Di fronte a siffatti esercizi di filologia non posso fare a meno di esprimere il mio dissenso, perché quando si affronta la questione dell’origine del termine, qualunque essa sia, credo che ci si debba basare su profonde analisi linguistiche suffragate da fatti reali e non ci si debba accontentare di approssimazioni, di etimologie varroniane e isidoriane, di improbabili sciarade o altri giochi di parole. E se, mettiamo il caso, i nostri antenati con il termine “carnevale” (da carnem levare) avessero voluto indicare non il periodo che la precede immediatamente, ma la stessa quaresima durante la quale, per i dettami della Chiesa, tutte le carni erano bandite dalle mense? Una filologia superficiale non ci potrebbe mai dare una risposta convincente e finiremmo per domandarci se poi il carnevale sia esistito veramente. Non mi pare, inoltre, necessario andare a cercare le origini di un fenomeno per poterlo comprendere meglio; è questa una prassi di stampo positivistico di cui non riusciamo a fare a meno. Molto meglio porre più attenzione nel descrivere la festa dettagliatamente, in quanto, a volte, i nomina non sunt consequentia rerum: infatti, in Campania, secondo le ricerche di Roberto De Simone e Annabella Rossi il Carnevale si chiamava Vincenzo. 

carnevale-si-chiamava-vincenzoOltre a quello del nome anche il problema della fine riservata al fantoccio di Carnevale è soggetta a innumerevoli varianti, delle quali la più diffusa è quella del bruciamento. D’altra parte, vedere la catasta di legna in fiamme che a poco a poco divora l’icona di cartapesta del Re Carnevale è uno spettacolo molto più divertente e suggestivo che vederla impiccare oppure annegare o addirittura fucilare. Certo si tratta di varianti, di narrazioni diverse una dall’altra che, oltre ad evidenziare la fantasia dei promotori delle feste, possono essere state suggerite da peculiari fattori ambientali e sociali (quali, per fare qualche esempio assurdo: non avere legna sufficiente per il rogo, o festeggiare il carnevale in una comunità di incalliti cacciatori). Oppure esistono perché nate in tempi diversi, quando la memoria collettiva non era più in grado di indicare gli elementi originari della tradizione. Così come, avendo perduto i riferimenti storici utili a individuarne le origini e non essendo capaci di inventarci un nome per una nuova festa, raggruppiamo sincretisticamente nel nome di Carnevale tutti gli eterogenei eventi rituali che si chiamano Testamento, Confessione pubblica dei peccati (probabile dissacrazione medioevale, questa, della confessione del Cristianesimo dei primordi), Capro espiatorio, ecc. [5]. 

Anche per quanto riguarda la preparazione e il consumo di cibi particolari in ricorrenza del carnevale, nei contributi che affrontano la questione non ci si chiede mai se è stato sempre così o si tratta di sovrapposizioni che sono avvenute nel tempo. Nessuno, d’altra parte, può negare che la realizzazione dei sogni relativi al Paese di Cuccagna è avvenuta solo in tempi molto recenti, quando il tipo di sviluppo economico ha permesso a molte decine di milioni di persone di sfamarsi, finalmente! E di organizzare reali pasti pantagruelici.

Da molte testimonianze storiche e letterarie sappiamo che l’umanità ha sempre sentito il bisogno di uscire dalla routine quotidiana, e soprattutto da una vita di stenti e dalla fame cronica; col tempo ha trovato le occasioni e i modi per vivere qualche momento o qualche giorno di gioia sfrenata (semel in anno licet insanire) e per rifarsi sulla lunghissima inedia del passato mai dimenticata. Molti cronisti, storici, letterati, cantastorie e poeti popolari hanno parlato di queste utopie e di alcuni episodi in cui queste si sono in qualche modo avverate. Noi, leggendo e rileggendo queste notizie, a nostra volta possiamo disquisire a lungo su queste feste fuori della normalità per andare a cercare la loro probabile origine. E affidandoci alle nostre letture, senza avere altre prove documentarie, continuiamo a discettare sulle orge carnevalesche, sui riti della fertilità, sui paesi di Cuccagna, mescolando tutto e rischiando di ottenere un minestrone di dubbio gusto come quello descritto in un capitolo dei Tre uomini in barca di Jerome K. Jerome.

Serino, Le Impacchiatrici (ph. Ballacchino, 2011)

Serino, Le Impacchiatrici (ph. Ballacchino, 2011)

Con gli ampi elenchi di alimenti e delle loro preparazioni, che si trovano nei contributi presenti nel volume, si vuole dimostrare che il carnevale si festeggia con grandi mangiate e grandi bevute come quelle create dalla poetica immaginazione di Folengo, di Pulci e di Rabelais e con il richiamare alla nostra memoria tutte le storie fantastiche del Paese di Cuccagna, cioè il sogno di chi quotidianamente soffriva la fame. Ma è veramente così? Non riesco ad immaginare che i miei compaesani, nella ricorrenza della festa, mangiassero “a strippapelle” (avrebbe detto il Collodi) nei tempi precedenti alla mia nascita se ancora negli anni ’50 del secolo scorso, appena prima del boom, le pietanze giornaliere erano principalmente costituite da pasta condita con salsa di pomodoro, pane, ortaggi ed erbe spontanee. E a leggere il contributo di Alessandra Broccolini si viene a sapere che in Irpinia la situazione alimentare non era tanto diversa. E si potrebbe aggiungere che anche nelle altre regioni italiane a tavola si mangiava poco e male. «Che hai mangiato a colazione stamattina?», chiedevo ai miei alunni quando insegnavo in provincia di Brescia. «Polenta e latte»; E ieri sera? Polenta e formaggio.  E a pranzo? Polenta, sempre polenta. Come d’altra parte in Toscana il menu di tutte le stagioni era costituito da: fagioli, minestra di fagioli, fagioli all’uccelletto, tagliatini coi fagioli, ecc..

9788842822394_0_536_0_75È mia opinione che non ci sia un tipico “cibo di  carnevale” (a parte, forse, le cosiddette chiacchiere, altrimenti chiamate cenci o frappe o bugie, oppure le castagnole, i crogetti, ecc.; dolci poveri, in sostanza, a base di farina, acqua e zucchero) e che tutto ciò che si mangia per la ricorrenza non è tradizionale ma moderno ed appartiene ad ogni cucina locale, la quale si preoccupa di dare un nome specifico ad ogni pietanza e di proclamarla come tipica ed unica; semmai, la peculiarità sta nel fatto che in occasione della festa se ne consuma in grande abbondanza. Come ci dicono le grandi inchieste napoleoniche dei primi dell’Ottocento e quelle successive dello Jacini e del Franchetti e i libri di Piero Camporesi [6], le proteine e i grassi erano quasi del tutto assenti nella dieta popolare (solo i ricchi mangiavano troppa carne e si ammalavano di gotta), logico quindi che nelle grandi feste almeno la tavola fosse sovraccarica di pietanze e soprattutto che ci si alimentasse con cibi caratterizzati dall’unto; e siccome il maiale con il suo lardo e le sue salsicce suggerisce “pasti grassi” a basso costo, ecco che le sue carni, col tempo, sono diventate per tutti  il cibo carnevalesco per antonomasia. 

Per carnevale ci si maschera, ci si camuffa, ma dalla maschera di carnevale e dal travestimento festaiolo qualcuno riesce a passare al camouflage operato dai cuochi pluristellati della nouvelle cuisine con un salto triplo mortale di sofisticata sottigliezza concettuale (Marrone). Gli scherzi dei masterchef, dettati da una fantasia piuttosto barocca, rientrano tuttavia nelle pratiche carnevalesche, quindi anche i camuffamenti culinari sono leciti, oltretutto sono anche divertenti. Scoprire che il popolare piatto di “pasta e fagioli” diventa una crema servita in un bicchiere in assenza totale della pasta, sostituita, per ingannare l’occhio, da listarelle di formaggio, può essere sorprendente e piacevole: almeno prima che arrivi il conto.

Nel volume si parla poi di altri camuffamenti, letterari e dall’aspetto piuttosto macabro questa volta, come quelli descritti nel testo di Elisabetta Moro. Si tratta di un contributo a parer mio piuttosto estraneo agli argomenti del libro, visto che è una citazione di un brano del romanzo La pelle di Malaparte, in cui si descrive uno strano e allegorico pranzo a base di un animale marino (sconosciuto alle genti mediterranee) come il lamantino che ha le sembianze di un piccolo essere umano. Cosa c’entri con il carnevale è alquanto misterioso: forse perché l’episodio riguarda Napoli, città collocata su una sponda del Mediterraneo ricordato nel titolo del libro? 

Abbadia san Salvatore, Festa medioevale, 2016 (ph. Beatrice Mancini)

Abbadia San Salvatore, Festa medioevale, 2016 (ph. Beatrice Mancini)

Gli scherzi, dunque, e la satira caratterizzano il carnevale, secondo il detto “per carnevale ogni scherzo vale” che è il programma e la norma di questo periodo; ma gli scherzi, le celie, le parodie e le imitazioni umoristiche rientrano anche nei rapporti sociali di ogni giorno e appartengono a tutti i ceti. Essi sono in sostanza le espressioni con cui nelle comunità umane si attua il quotidiano controllo sociale sul comportamento dei loro membri. Per carnevale questa censura raggiunge il suo punto più alto, va oltre la manifestazione gioiosa degli sberleffi, della satira e delle irrisioni, avvalendosi dello spirito di libertà senza il quale essa non potrebbe esistere ed operare. Così nei testamenti attribuiti ai fantocci che rappresentano il Carnevale si possono castigare sia il malcostume pubblico, sia le persone che si sono comportate male e che hanno violato le regole della comunità. Queste manifestazioni di libertà espressiva avvengono talora anche in periodi in cui il potere politico assume caratteristiche tiranniche o dittatoriali. Esemplare in questo senso era la satira carnevalesca in uso ad Abbadia San Salvatore (SI) i cui abitanti spesso nella storia recente hanno manifestato la loro propensione per una società di persone libere. In questa cittadina mineraria, in tempi di carnevale, la persona che avesse subìto un’angheria da parte di un maggiorente poteva denunciare pubblicamente il fatto raccontando a gran voce per le piazze e le vie principali il sopruso subìto e chiamando per nome colui che glielo aveva inflitto. L’usanza era così forte e radicata che perfino nel 1931 essa fu ripresa da un giovane minatore che riteneva di aver subìto un danno da parte del podestà in carica. Erano gli anni centrali del fascismo, ma nonostante ciò la tradizione sfidò la dittatura e la vinse: il cittadino poté girare liberamente per il paese e far conoscere a tutti che proprio il podestà gli aveva fatto il torto [7]. 

Tra i tanti contributi che compongono il volume, ce ne sono tre che spiccano per l’originalità con cui l’argomento viene trattato. Mi soffermerò qui su due di essi, mentre mi riservo di utilizzare il terzo per le conclusioni.

Vito Teti, antropologo calabrese, in questi ultimi anni si è dedicato alla memoria dei paesi spopolati e lasciati morire lentamente, sia come comunità umana sia come struttura urbanistica; confesso che talora la sua prosa mi sembra troppo impregnata di nostalgia e, forse, di vittimismo (due sentimenti che, purtroppo, sono motivati dal modo con cui tutti i governi susseguitisi dall’Unità nazionale ad oggi hanno trattato le regioni meridionali). Questa volta il sentimento e la ragione sono andati a braccetto e Teti ci regala l’immagine di un Carnevale identificato con un personaggio particolare, Turi, che per molti anni nel suo paese era stato organizzatore ed interprete dell’evento.

Teti, oltre a raccontare la vita di Turi, riesce a darci anche un quadro chiaro delle condizioni di vita e di lavoro degli abitanti di un paese calabrese, della necessità delle loro emigrazioni. In questo ambito Carnevale rappresentava allegoricamente il riscatto sociale e umano, perché alla fine esso rinasce dopo aver espiato, con la sua morte, il male dal mondo. Ma anche per Turi, che ha sempre lottato e che vede nello scioglimento del PCI la fine delle sue utopie politiche, arriva la fine di tutto con la sua morte corporale. Così Teti commenta: «I funerali di Turi sono gli ultimi funerali dell’Imperatore Carnevale. Muore con lui non solo il vecchio Carnevale, ma anche l’illusione della sua rinascita. Non si torna mai, una volta che si è partiti. L’identificazione di Turi con il Carnevale è fortemente simbolica di un paese del Sud i cui abitanti hanno lottato a lungo e duramente, ottenendo poco o nulla tanto da provare a sfuggire alla miseria con l’emigrazione; poi, sono tornati al paese con la speranza che qualcosa fosse cambiato; ma subito dopo sono ripartiti perché le cose non erano cambiate né cambiano e non cambieranno mai. La fine di Turi è anche la fine del carnevale tradizionale e coincide pure con la fine di una società contadina che non riesce a riscattarsi dalla miseria.

61ii5uhydml-_ac_uf10001000_ql80_Un ulteriore e lungo contributo che si distacca notevolmente dagli altri è quello di M. Melotti (319-366) che sviluppa considerazioni originali su come il tema del carnevale e del camuffamento sia usato e strumentalizzato dai produttori di beni materiali e di beni effimeri con modi e accorgimenti comunicativi adeguati a quella sensibilità culturale dei cittadini e dei consumatori che si è formata nell’ultimo cinquantennio.

L’intervento di Melotti si apre con l’analisi del significato assunto da un vassoio di “chiacchiere” attorno al quale siedono a discutere di problemi importanti un capo di governo e due ministri italiani. Da qui, l’articolata e lunga discussione si sposta dal carnevale tradizionale al rapporto tra politica e cittadini, dalle trasmissioni televisive che trattano di gastronomia e di cibi tipici locali alla spettacolarizzazione a fini commerciali di prodotti alimentari, come le giornate e le attività di FICO-Eataly di Farinetti, e la pubblicità, talora al limite della pornografia, di Dolce&Gabbana. Non mancano figure di politici che si adeguano a questo andazzo di “cibo-spettacolo-carnevalizzazione”, come gli Italiani Renzi e Salvini e l’Americano Trump; ma le loro performance non divertono né tanto meno fanno ridere.

Il contributo di Melotti, tuttavia, mi sembra più interessante se guardato non dal punto di vista antropologico ma con un’ottica che osservi il fenomeno nei suoi aspetti culturali e politici, perché a me sembra che i “persuasori occulti” del marketing [8] siano stati e sono bravissimi a indagare nel profondo della psiche umana e a capirne i comportamenti culturali. Il suo testo suona, pertanto, come un monito etico e politico necessario ad un pubblico distratto e indifferente, oltre ad essere un’analisi originale sulla “carnevalizzazione” di prodotti di consumo.

Serino, I Brutti (ph. A. Broccolini, 20215)

Serino, I Brutti (ph. A. Broccolini, 20215)

A leggere i contributi in cui vengono descritte minuziosamente tutte le pratiche  che si fanno a carnevale viene in mente, se mi è permesso fare certi paragoni, Frazer e il suo diluvio di notizie provenienti da tutto il mondo: un turbinio di miti, di usi, di credenze accumulate sotto l’insegna della magia, mentre in questi interventi il perno attorno a cui tutto gira (circostanze, cibo, cerimonie varie, bruciamenti testamenti e coriandoli) è solo una gran scorpacciata di cibi su cui signoreggia sua eccellenza il porco. Nessuno degli autori, tranne Pietro Clemente, però, si è chiesto se il Carnevale studiato e descritto abbia a che fare con quello, storicamente vero, di anni e di secoli fa. Tutte le notizie che ci sono arrivate attraverso opere scritte su questa ricorrenza, secondo me, sono dovute all’immaginazione e alla fantasia di persone che, a dispetto della miseria comune, si costruivano un carnevale immaginario nel quale avrebbero voluto vivere ed agire come i loro personaggi.                                                                                                                 

Il carnevale che conosciamo oggi è forse il risultato di molteplici contaminazioni di tante singole feste che si sono prima frammentate, per motivi storico-culturali, e poi sono state riaggregate senza badare alle loro origini, secondo le esigenze del momento. In esso sono confluiti antichi riti agrari di fertilità, giri di questua, parodie di riti religiosi, dissacrazioni di ruoli come quelli del prete, del medico e del notaio tipiche di spettacoli comici; ma a questi elementi della cultura contadina e popolare se ne sono aggiunti altri appartenenti a quella dei ceti urbani e delle classi egemoni, come i canti carnascialeschi del sec. XV, i Trionfi della Firenze medicea, l’antico carnevale di Venezia, quello di Viareggio (nato nel 1873) e chissà cosa altro ancora, percepibili ed evidenti in molte delle feste ascritte al Carnevale. Nel 1912 una festa di carnevale sui generis fu celebrata ad Acquaviva di Montepulciano (SI) e poi riproposta nello stesso luogo circa venti anni dopo. C’era una sfilata di carri su cui si affollavano maschere di vario genere e che seguivano un carro più grande dove era sceneggiata la morte di Carnevale. L’aspetto più importante, però, consisteva nel fatto che i dialoghi dell’azione scenica erano tutti cantati su arie che riprendevano gli stilemi del Barbiere di Rossini e qualcosa dell’Elisir d’amore di Donizetti [9].

Ovviamente tutto è lecito, tutto tranne fare di ogni erba un fascio e etichettarlo sotto un’unica denominazione. Hobsbawm [10] ci ha insegnato che molte tradizioni, indicate come “nate nella notte dei tempi”, non sono altro che invenzioni recenti e alcune recentissime; però, oltre a ripeterlo come un mantra, occorre ricordarsi sempre che le cose sono andate avanti proprio così. Negli anni ’70 del secolo scorso nacque la moda delle sfide ludiche di quartieri e rioni di città grandi e piccole, ad imitazione dell’antico Palio di Siena: spesso e volentieri si trattava di narrazioni che poco avevano a che fare con la storia, ma erano così ben congegnate da far credere che si trattasse di vere feste nate tra Medioevo e Rinascimento. E così, probabilmente, è stato anche per il Carnevale che conosciamo oggi. 

Combattimento tra Carnevale e Quaresima, di Pieter Bruegel il Vecchio, 1559

Combattimento tra Carnevale e Quaresima, di Pieter Bruegel il Vecchio, 1559

Come ho accennato appena più sopra, tra tutti gli autori solo Pietro Clemente ha manifestato dubbi al posto delle certezze di altri. Con molto sobria e bonaria ironia ha ricordato che poco hanno a che fare le feste di antichi Greci e Romani con le nostre feste di fine inverno e che il carnevale degli ultimi due secoli non è che una ricostruzione ipotetica di feste medievali di derivazione poco popolare e soprattutto funzionale alla moderna cultura di massa.

In sostanza, si potrebbe ipotizzare che originariamente il carnevale abbia avuto una semplicità simile a quella dell’episodio del finto asino visto da me da bambino. Sarebbe, dunque, compito degli storici e degli antropologi separare il suo nucleo primitivo dalle successive superfetazioni: operazione piuttosto difficile senza dubbio, e se si volesse fare, occorrerebbe, suggerisce implicitamente Clemente, avere una visione diversa da quella con cui gli studiosi e i ricercatori di una volta si interessavano al folklore. Suggerimento che mi sembra privo di nostalgie per il passato e di qualsiasi popolarismo romantico; se gli organizzatori del convegno, i cui atti costituiscono il volume qui recensito, avessero tenuto conto degli studi precedenti di Clemente sul carnevale, forse oggi non avremmo da recriminare su alcune analisi un po’ démodé. 

Con questo non voglio dire che il libro sia inutile. Nessun libro è inutile e questo ci presenta, d’altra parte, una panoramica molto estesa e ricca di informazioni sulle feste dedicate nell’area del Mediterraneo al carnevale, presunto o vero, con tutte le usanze e le pratiche relative [11], oltre che con i racconti favolosi di pranzi e bevute straordinarie; con i costumi tipici, quelli eleganti delle città e quelli rustici delle comunità agro-pastorali, con l’illustrazione fotografica dei dolci e dei cibi tipici; ancorché non tutto sembra essere genuino come vogliono farci credere gli autori degli articoli e come difatti non è e non può essere. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024 
Note    
[1] J. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 2012; P. Toschi, Le origini del teatro italiano, Bollati Boringhieri, Torino 1969. 
[2] I frutti del Ramo d’oro”, a c. di P. Clemente, in «La Ricerca folklorica» n. 10, Ed. Grafo, Brescia 1985. 
[3] M. Fresta, Le scadenze calendariali delle feste e dei riti, in «Dialoghi Mediterranei», Ist. Euroarabo, Mazara del Vallo, n.65, 1 Gennaio 2024 (rivista on-line). 
[4] Il libro è a cura di Pietro Sisto e Piero Totaro, Ed. Museo Pasqualino, Palermo 2024. 
[5] Su tutti questi riti di purificazione si vedano i due volumi di J. Frazer, cit., per una visione generale del tema e quello di Paolo Toschi, cit., per la situazione italiana, il quale ad essi attribuisce una caratteristica teatrale. 
[6] G. Tassoni, Le inchieste napoleoniche sui costumi e le tradizioni nel regno italico, Bellinzona 1973; S. Jacini, I risultati dell’inchiesta agraria 1884, Einaudi, Torino 1976; L. Franchetti-S. Sonnino, La Sicilia nel 1876, Barbera, Firenze 1877; di P. Camporesi basta ricordare il solo Il pane selvaggio, Il Mulino, Bologna 1980. 
[7] L’episodio fu ricordato da  Aldo Bisconti, detto Aldu del Governu, minatore in pensione di Abbadia San Salvatore, durante un’intervista del 1974 sullo spettacolo tradizionale del Bruscello Nerone, di cui era uno degli interpreti. 
[8] I persuasori occulti è il titolo del celebre libro di V. Packard (Einaudi, Torino 1979) che denunciava le manipolazioni del nostro comportamento di acquirenti. Da allora, però, la pubblicità commerciale è diventata molto più raffinata ed è stata fatta propria anche dalla comunicazione politica. 
[9] Ne ho pubblicato il testo (Carnevale in Val di Chiana) su «Lares», XLIII, Aprile-Giugno 1977. 
[10] E. Hobsbawm – T. Ranger, L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1987. 
[11] Quando si finisce di leggere il libro, ci si rammarica che tra i tanti Carnevali antichi e moderni ricordati non ci sono riferimenti a quelli della Sardegna. 

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici. É stato edito nel 2023 dal Museo Pasqualino il volume, Incursioni antropologiche. Paesi, teatro popolare, beni culturali, modernità.

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