di Simone Valitutto
In tutti i balli popolari poi, si può osservare come costantemente due o più danzatori muovono un piede in avanti e subito dopo lo ritraggono per andare all’indietro. Tale mimica ha chiaramente una simbologia sessuale anche se inerente ad una rappresentazione magica connessa al mondo dei morti. […] Si mima insomma l’atto sessuale ma anche il tentativo di passare una soglia che respinge continuamente.
Roberto De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo.
Pathos ab aeterno
Perché un ex voto a Roberto De Simone?
Per dirgli “grazie”. Non per un voto fatto ma per il suo lavoro di ricerca, raccolta, riflessione, narrazione e traduzione che, partendo dalla musica, ha lasciato impronte profonde. Queste tracce hanno guidato (e spaesato) chi si muove attraverso i molteplici campi che lo hanno visto, a partire dalla sua giovinezza alla recente scomparsa, presenza imprescindibile, autorevole, maestra. Questi campi sono teorici ma soprattutto intesi in quanto luoghi di ricerca, feste, pratiche coreutico-musicali, comportamenti rituali, saper fare artigiani, costruzioni simboliche e artistiche… Se volessimo trascrivere tutto su uno spartito la chiave musicale sarebbe Napoli, che ritorna ad ogni pentagramma a fissare il significato delle note che si susseguono dando forma a suoni, melodie, ritmi che durerebbero ore e ore, giorni, anni solari e anni lunari. In un gioco di opposti, in realtà, il tempo per raccontare Roberto De Simone è, riprendendo una riflessione sull’ex voto di Lello Mazzacane, quello «metastorico del paradiso folklorico» (Mazzacane 1989: 128). Riportare per intero questo passaggio aiuta meglio a comprendere perché l’impossibilità di tratteggiarne un profilo completo, esaustivo e – sardonicamente – da lui stesso condiviso obbliga alla dedicazione di un ex voto pittorico che evochi Roberto De Simone.
«Dunque il miracolo è altrove, non avviene, non può avvenire nell’ex voto, non può essere rappresentato dentro il manufatto umano; ad esso si può solo alludere, e immaginare-ricordare che è avvenuto, fuori dallo svolgersi cronologico degli avvenimenti, in un orizzonte metastorico congruente all’agire divino.
La scena dell’ex voto resta ancora saldamente legata alla vicenda umana, di cui ribadisce la temporalità e la contestualità […]; l’apparizione della divinità, essa sola, ci trasporta, diremmo con Propp, in un altro regno, che, se non è quello metastorico della fiaba, è certamente quello altrettanto metastorico del paradiso folklorico» (Mazzacane 1989: 128).
Ora, dopo anni da anima purgante, il Maestro è nel “paradiso folklorico”, qui ritrova i suoni e i gesti che tanto affannosamente ed epicamente ha ricercato per tutta la vita, con le Sette Sorelle in paranza alla guida del “popolo” che con tanta nostalgia e rabbia ha voluto distogliere dalle acque del fiume Lete per non fagli abbandonare la lotta e la festa, il canto e la preghiera, l’origine e il corpo, la rinascita e il simbolo. In questa tavoletta di legno dipinta c’è la catastrofe della perdita e della dimenticanza degli elementi più deboli della tradizione: la voce, il gesto, la festa, la favola, beni volatili nel mirino del cacciatore dell’omologazione teorizzata da Pier Paolo Pasolini (uno dei suoi riferimenti culturali principali), con le loro simbologie e ritualità arcaiche e di opposizione al potere egemonico. La tempesta della Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione tedesca, gli Alleati, il boom economico, l’emigrazione, tutte le trasformazioni che passavano dalle sue mani, che dal clavicembalo del Conservatorio “San Pietro a Majella” iniziano a battere sul tamburo a cornice ai pellegrinaggi mariani (De Simone 2014), hanno spinto De Simone a documentare, registrare, indagare biblioteche e archivi, partecipare osservando, intervistare, scrivere, riprodurre e comporre per non perdere il suo “popolo” che, come ripeteva spesso, si è trasformato in “gente”. L’indagine etnomusicale ed antropologica sono stati alcuni strumenti per tentare il miracolo, come una vera e propria metodologia di riproposta filologica che ha spaziato dal folk-revival alla composizione di opere, la produzione scientifica e discografica.
Il miracolo sperato non è avvenuto. Il Maestro, nonostante gli strali rivolti ai cambiamenti, perdita di senso, censure e scomparse del tempo in cui «era la memoria a guidare il presente, una memoria lingua viva dei morti» (De Simone 2010: 7) e che avrebbe desiderato fermare, è sempre stato consapevole che sarebbe diventato la carismatica guida de «la celebrazione dell’assenza» (De Simone 2010: 9). Quando Napoli non conserva trova ciò che cerca nella Campania interna, come quando deluso dalla “nuova” Piedigrotta s’inginocchia davanti alle cantrici contadine di Montemarano (De Simone 2007) le cui voci lo riportano a culti antichi, carichi di pathos ab aeterno. Ciò che col tempo viene a mancare riempie ciò che crea, novello Benino che – col sogno – occupa lo spazio del presepe napoletano di cibo, storie, simboli e persone senza lasciare l’arrivo del Bambinello perso nel vuoto.

Roberto De Simone, Quant’è bello lu murire acciso (1975), colonna sonora del film omonimo di Ennio Lorenzini
Benino e l’Addolorata
Nell’omelia del cardinale Battaglia il 9 aprile, durante il funerale cattolico del Maestro al Duomo di Napoli, il presepe appare non solo uno dei più fervidi campi di studio desimoniani (De Simone 2004) ma presenza quotidiana, sempre allestito nella camera da letto della casa-museo descritta da giornalisti e amici, novelli “pastori della meraviglia”, negli incontri degli ultimi anni. Questa presenza chiarisce un legame non solo affettivo o religioso, ma rappresenta bene l’immagine di De Simone che – col sogno e la ricerca musicale – mette in piedi la sua città, la sua Napoli, nell’attesa dell’assenza. Altro passaggio del cardinale, che ben descrive De Simone non solo negli ultimi tempi della malattia ma nella sua vita intellettuale, è il riferimento alla Madonna Addolorata, fervidamente cercata e accompagnata al Calvario. Tra gli esempi di campi etnografici frequentati si può citare il rapporto intessuto con i Battenti di Minori (De Simone 1999, 2009b), l’exemplum è Stabat Mater opera del 1986 che dal San Carlo di Napoli arrivò anche a New York [i]. Irene Papas nella prima parte impersonifica il pianto di Maria, il riferimento demartiniano non è casuale (De Martino 2021).
Roberto De Simone, infatti, rifuggendo dal «crociano manierismo di scrittura» aspirava al «lucido e distante occhio demartiniano» (De Simone 2019: 7). La lettura di Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria ha fortemente influenzato il compositore [2] che ritrova nei gesti e nelle formule del cordoglio quell’espressione perduta la cui ricerca lo avrebbe occupato per tutta la vita, ritrova nella ricerca demartiniana una metodologia di lavoro d’equipe multidisciplinare che lui stesso avrebbe perseguito, ritrova la centralità dell’elemento musicale nell’analisi di un fenomeno magico-religioso che parte dalla sua documentazione (Adamo 2012) per indagare su più piani temporali e geografici, storici ed etnografici la decadenza di una pratica culturale. Ernesto de Martino gli fornisce formule contadine, letterarie, iconografiche alla creazione di un quadro operistico complesso che attinge anche da un nuovo “Atlante musicale del pianto”. Compaiono, negli abiti di Odette Nicoletti, riferimenti alle Confraternite vestite di rosso, ai “Battenti” con la tunica e il cappuccio bianchi, candele e catene accompagnano le Addolorate in nero con ricami d’oro portate in processione. Le laudi medievali in dissonanza a evocare la crisi della presenza di un ordine culturale ormai sovvertito, Jacopone da Todi cantato dai Confratelli che girano i Sepolcri e supportano, accusano, consolano, mettono Maria di fronte alla Morte. E Maria Addolorata/Irene Papas, «figura mediatrice interamente umana […] simbolo di un unico cordoglio per un morire che cancellava la morte dal mondo» (de Martino 2021: 317) si batte il petto, colpisce le tavole del Teatro San Carlo con i pugni, melodia il lamento in morte del Figlio. Gli stessi gesti che, racconta il Maestro riportando una delle tante leggende che circolano intorno al compositore barocco, aveva visto Pergolesi in Piazza Mercato: una madre che piangeva il figlio e che lo hanno ispirato nella stesura della sua ultima opera. La crisi, per il regista De Simone, non si risolve con la Resurrezione ma con Giovanni Battista Pergolesi e il suo Stabat Mater (1736), con il ritorno a un autore della scuola musicale napoletana che lo ha intimamente influenzato, tanto che del suo funerale ne è stato l’ouverture.
Questo lavoro teatrale, insieme a tutta la vastissima produzione compositiva e scientifica, racconta quanto Roberto De Simone incarni un rapporto strettissimo e innegabile: Napoli e il Mezzogiorno sono il risultato culturale della convivenza di popolare e colto, alto e basso, subalterno ed egemonico. Ernesto de Martino l’aveva già dimostrato parlando di magia, i contadini lucani e gli illuministi napoletani dialogano con lingue non dissimili (de Martino 2015), Roberto De Simone fa continuare questo dialogo in teatro allestendo opere come L’osteria di Marechiaro di Giovanni Paisiello (del 1768, in italiano e in napoletano), facendo ritrovare al pubblico La Cantata dei Pastori di Andrea Perrucci (Il Vero Lume tra l’Ombre, ovvero la Spelonca Arricchita per la Nascita del Verbo Umanato, 1698), celebrando Maradona con Nicolò Paganini e un inno appositamente composto per El Diego – concerto n. 10 (2010), rendendo immortale il cunto de La Gatta Cenerentola (De Simone 1977). Impossibile approfondire ora tutto, ma La Gatta è un passaggio necessario, non solamente perché l’opera più famosa e incisiva, ma frutto degli anni di ricerca più intensi, trascorsi sul campo. Le direzioni di ricerca, impastate l’una all’altra nella cronologia e nella pratica, possono essere sintetizzate in quattro punti cardinali: la voce, il gesto, la festa, la favola.
La voce
Nel 1967 dall’incontro tra Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Roberto De Simone, Giovanni Mauriello, Patrizio Trampetti nasce ufficialmente la Nuova Compagnia di Canto Popolare [3]. De Simone suona il tamburo a cornice e fa delle loro voci uno strumento.
«Quello che ho tentato di fare con gli elementi della [Nuova] Compagnia di Canto Popolare è che esprimessero le frustrazioni, l’angoscia, il senso di repressione che esiste in tutta la gente che ha avuto una determinata esistenza. Di modo che, in questo senso, ognuno individualmente esprime il proprio dramma. Per esempio, Giuseppe, Giovanni hanno, conservano, hanno avuto un’infanzia difficile, hanno avuto quelle stesse repressioni, quella stessa angoscia che c’ha il mondo proletario e sottoproletario napoletano, il mondo contadino. Il linguaggio dei canti popolari permette di esprimere queste tensioni, questa angoscia. Un canto si può imparare, un modo di cantare si può anche imparare. Ciò che non si può imparare è esprimere un dramma che internamente non si ha» [4].

Figurini dei costumi di Odette Nicoletti per lo Stabat Mater (1985), Archivio Storico e Museo della Fondazione Teatro di San Carlo.
Il discorso politico intorno alle voci della NCCP che “danno voce” al “popolo” non vuole qui sembrare riduttivo, non mettere in luce le competenze musicali e polistrumentali dei componenti del gruppo, le loro singolarità e talenti artistici non vuol dire negarle, così come parlare solo di voci non vuol dire non dare merito alla ricerca musicale che, in alcuni casi, ha svolto un lavoro filologico e compositivo intorno all’unica traccia che rimaneva di quei brani: il testo. De Simone aveva intuito che la voce, strumento non solo musicale ma politico, tecnica di canto, espansione dei suoni dal corpo all’ambiente circostante quale veicolo di messaggi linguistici (spesso improvvisati) e simbolici (messi in azione in momenti rituali o festivi), scala di note e di emozioni che dal ventre scuro della Napoli dei Bassi saliva alle colline del sole e del mare, era lo strumento in pericolo. La canzone napoletana aveva edulcorato e omologato le voci (De Simone 1975, 1983, 2017; Giuriati 1996), nuovi generi musicali le avevano alterate, la televisione silenziate. Le voci della NCCP, incise su dischi [5] o nell’acustica dei teatri, emergono da manoscritti vivi, restituiscono stili personali appresi tradizionalmente o maieuticamente incoraggiati. «Nel mondo popolare spesso un pezzo non viene eseguito più proprio perché non c’è più chi è in grado di rifarlo» rispondeva De Simone a Diego Carpitella specificando la necessità di partire dallo stile vocale (Plastino 2016: 667) ma le voci della NCCP sono diventate modello per tanti, pur restando inimitabili [6]. Importante, in questo campo, anche il rapporto di scambio costruito con alcuni esecutori e cantori incontrati sul campo che, con e grazie a De Simone, sono stati conosciuti al di fuori dei contesti festivi o relazionali di riferimento, si veda ad esempio la figura di Giovanni Caffarelli (Pizza 2017). Queste voci, più che classi sociali, tradizione, suoni, sono corpi e sono corpi in quanto contengono tutti e tre. Diego Carpitella conia, infatti, per la NCCP l’espressione “somatizzazione della musica”.
Il gesto
«I componenti della Nccp, nella scia della tradizione, sono più che esecutori, ricreatori della musica che eseguono. Questo senso di “somatizzazione” si avverte per totale aderenza fisica e psicologica dell’esecutore alla musica che esegue e che permette una identificazione della musica con il cantante stesso. […] La nostra ricerca perciò, orientata verso l’assoluta fedeltà allo stile, ha volto particolare attenzione al gesto oltre che alla fonicità della musica tradizionale, e per gesto intendiamo sia il gesto fisico sia la posizione che l’esecutore assume nei confronti della realtà del momento».
Nel dialogo tra i due etnomusicologi, la risposta di De Simone continua rimarcando la potenza della verità del gesto popolare in opposizione a quello “castrato” borghese (Plastino 2016: 667). Entrambi proprio in quegli anni e in Campania, tra i diversi campi comuni, s’interessano alla cinesica.
«Sulla base di questo testo classico [La musica degli antichi investigata nel gestire napoletano del canonico Andrea De Jorio del 1832 N.d.A.], è stata compiuta una verifica cinematografica attraverso un’espediente narrativo-gestuale: è stato proposto un racconto gestuale, improvvisato, su Pulcinella ad alcuni alunni di una scuola elementare di un quartiere popolare di Napoli (i Quartieri). L’esperimento proposto concretamente da Roberto De Simone, può considerarsi riuscito, in quanto circa 30 gesti già annotati da De Jorio più di un secolo fa, sono stati ritrovati ancora attuali e funzionali, riconfermando così, che il modello cinesico, in un particolare contesto (la c.d. «fascia folkloristica») può continuare a sopravvivere al di là dei cambiamenti di altri contrassegni tradizionali folklorici, come il dialetto, il costume, il tipo di abitazione, ecc» (Carpitella 1981: 62).
Un capitolo di Cinesica 1. Napoli, il documentario di Diego Carpitella del 1973, vede così il racconto di Roberto De Simone intervallato dai gesti che Peppe Barra ha preso in prestito dalle rilevazioni gestuali raffigurate nel volume ottocentesco, ulteriore collaborazione in tal senso tra i due, compreso dai bambini napoletani nati negli anni ’60. Il modello cinesico resiste ai cambiamenti, ma è anch’esso strumento del lavoro di riproposta e ricerca del Maestro e della NCCP.
La NCCP, anche per questo, ha un immediato successo al di fuori della regione Campania, travalicando i confini nazionali. Ascoltandone i dischi, anche a distanza di anni e, per chi ha potuto, assistendo agli spettacoli teatrali, partecipando ai concerti, si avverte che di fronte si ha un performer, unico e ripartito allo stesso tempo. Un animale mitologico con tante braccia quanti sono gli strumenti, tanti volti quante sono le voci, tanti gesti quanti sono i sentimenti, le emozioni, le rivendicazioni. Una paranza che suona con complicità o conduce lo stesso ritmo per trasportare una macchina votiva. Siamo di fronte a un performer che:
«Agendo, influenza le sensibilità incorporate dei presenti, quelle acquisite inconsapevolmente e quotidianamente esercitate nella vita in comune, attraverso le forme del percepire, muoversi, agire, immaginare» (Apolito 2014: 223).
La voce si muove dal corpo immerso in un contesto per comunicare e raccontare, cantare e testimoniare la propria “presenza” riuscendo a coinvolgere anche chi non appartiene a quel contesto di significato, ma venendo interpretato, incorporato, percepito. I gesti, privi di stereotipo, sono quelli dei vicoli, dei venditori ambulanti, degli esecutori musicali non professionisti, degli attori della commedia dell’arte e del melodramma, dei fujenti, degli eredi di Antonio Petito, di Sergio Bruni, delle guarattelle (De Simone 2003) e dei pastori del presepe [7]. Ritorna il sogno di una città popolata da scene teatrali cariche di significato, ma è soprattutto fuori Napoli, nel resto della regione, che si muovono ritualmente i corpi che interessano De Simone.
«Al gesto, poi, che è una delle componenti più importanti del nostro filone tradizionale, la Nuova Compagnia di Canto Popolare fin dall’inizio ha rivolto particolare attenzione, sia attraverso la totale partecipazione fisica al canto e all’impiego di strumenti tradizionali, sia attraverso lo studio cinesico dei modelli di danze e delle manifestazioni di teatro popolare connesso alla ritualità» (Plastino 2016: 665).
Il campo di ricerca, lo spazio nel quale i corpi danzano e mettono in scena sacre rappresentazioni e farse carnascialesche, piegati dalla fatica e rinvigoriti dal rito, è la festa.
La festa
Non possiamo immaginare cosa sarebbe stato dello sguardo sulle feste di Roberto De Simone se non avesse incontrato Annabella Rossi. Il sodalizio tra i due, oltre alla condivisione di occasioni di ricerca in diversi contesti festivi campani, scambi intellettuali, produzione scientifica a due voci (De Simone – Rossi 1977a, 1977b), allestimento di mostre (De Simone – Rossi 1973), è qualcosa di più profondo: «gemelli intellettuali» li definisce Paolo Apolito, che insieme a loro ha frequentato e osservato carnevali e pellegrinaggi, periferie urbane e montagne. Lo sguardo di Rossi e l’orecchio di De Simone s’intrecciano come in un ballo di Carnevale, si muovono con postura politica oltre che intellettuale per circa un decennio in diverse province campane segnando una fase importante della ricerca antropologica in Italia. Negli stessi anni, in particolar modo tra il 1972 e il 1976, alle stesse feste, sono attive le campagne di documentazione in Campania di Diego Carpitella e Lello Mazzacane e il Nuovo Politecnico (Ricci 1997, 1999/2000; Valitutto 2024), si incrociano gruppi di ricerca con esiti scientifici e analisi dei dati raccolti differenti ma che condividono un approccio marcatamente sonoro e visuale nelle proprie campagne etnografiche. L’equipe De Simone – Rossi vedrà, tra gli altri, l’adesione di Paolo Apolito, Enzo Bassano, Michele Gandin, Marialba Russo, Mimmo Jodice, insieme agli studenti dell’Università di Salerno dove Rossi insegnava, in particolare in occasione del periodo carnevalesco, e ad alcuni componenti della NCCP. I Poveri (Rossi 1969; Faeta 2006) sono scorti nei loro riti di travestimento (Russo 2016), negli anni cruciali dell’impegno antropologico (Lombardi Satriani – Mazzacane 1974) dell’impoverimento simbolico e della scomparsa delle maschere legate agli elementi selvatici o naturali soppiantate da nuovi modelli culturali di mascheramento. L’inversione dell’ordine, i generi, i corpi danzanti e fioriti liberi dalle imposizioni borghesi o cattoliche almeno per un giorno, rendono l’anti-quotidiano terreno fertile di ricerca di tracce metateatrali e musicali che ispireranno notevolmente il regista.
Ad oggi è impossibile mappare dettagliatamente quei giorni di ricerca condivisi. Per quanto riguarda De Simone possiamo solamente leggerne alcuni risultati pubblicati in Carnevale si chiamava Vincenzo (1977), ascoltarne alcune tracce dal vero o in studio dei dischi allegati ai volumi Chi è devoto (1974) e Canti e tradizioni popolari in Campania (1979, rieditato nell’edizione ampliata Son sei sorelle. Rituali e canti della tradizione in Campania del 2010), sfogliare alcune delle fotografie di chi lo ha seguito dalla Madonna Avvocata o ai Gigli di Nola stampate nei libri, ormai introvabili, rintracciare quei suoni in alcuni dischi della NCCP o nelle opere del Maestro.
Queste pubblicazioni, oggi, sembrano investite da un’aura. Pur conservando limiti, imprecisioni, riferimenti spesso oggetto di critica in ambito accademico si collocano nell’epoca che li ha concepiti ma sono tutt’oggi, in tempi notevolmente diversi, imprescindibili. Ritornare in quei luoghi senza tener conto del passaggio di De Simone renderebbe il novello ricercatore monco non solo di dati di carattere ormai storico ma aumenterebbe la distanza (non) giusta nei confronti degli interlocutori locali che conoscono le interpretazioni simboliche, analisi, visioni desimoniane, a volte rimanendone affascinati altre leggendole in maniera critica (Ballacchino – Broccolini 2016). Le sue letture influenzate dalla psicoanalisi o dalla storia delle religioni nelle quali, ad esempio, l’atto sessuale inconsciamente e collettivamente viene riproposto nella danza o la crisi si supera attraverso il travestimento in anime dei morti, enunciate così non descrivono a fondo i fenomeni osservati, ma denunciano la vitalità che De Simone ascoltava nei comportamenti, forme di resistenza contemporanea ed eredità arcaica che intendeva valorizzare.
Anche il rapporto di De Simone con la festa non è facile, lineare, organico, ma la figura del Maestro in tempi di patrimonializzazione è essa stessa elemento patrimonializzante [8]. Perché? Perché, probabilmente, che si trattasse della Zeza di Bellizzi o di Carlo Gesualdo (De Simone 2013) ha disposto – come un regista – entrambi sullo stesso piano: colto e popolare, alto e basso, dentro e fuori, immobile e fluire, il potente e l’ultimo: il punto d’incontro di questi opposti sono le tavole del teatro. Analogamente, in un gioco di reticenze e affabulazione, partendo spesso dallo studio archivistico più che dalle fonti orali, riesce a far emergere dalle macerie della Storia storie minute, testimonianze silenziate o scartate dalla storiografia che diventano architrave per comunità patrimoniali. Roberto De Simone ha scritto pochissimo di omosessualità e femminielli (De Simone 1982) eppure senza queste poche parole e, soprattutto, la comparsa in scena durante La Gatta del femminella e del suo Suicidio il processo di patrimonializzazione in corso ai piedi di Mamma Schiavona non avrebbe una delle voci più ripetute (Vesce 2017).
Ué Maronna, Maronn e quanta figlie ten ‘sta Mamma…
(Roberto De Simone, Suicidio del femminella)
La favola
«La leggenda
Maria Boccia D’Aquino, contadina di Boscoreale (Salerno), riferisce la leggenda delle sette Madonne della Campania: “Esse erano sette sorelle, sei belle e una brutta e nera. La brutta andò a confinarsi sulla montagna di Montevergine ed ebbe inizio il culto alla Mamma Schiavona che è la più bella di tutte”. All’introduzione, desunta da una documentazione del 1966, fa seguito il canto e la danza per Montevergine» (De Simone 2010: 49).
Uno dei primi documenti dell’archivio di registrazioni raccolte sul campo dal Maestro che conosciamo è una leggenda. Anzi, “la” leggenda. Mamma Schiavona, nigra sed formosa, è la settima sorella delle madonne campane. Le altre, secondo la testimonianza raccolta, sono la Madonna di Pompei, la Madonna di Mugnano del Cardinale, la Madonna del Carmine, la Madonna dei Bagni, la Madonna del Piano… nell’elenco ne manca una, le interviste a volte mirano l’attenzione su ciò che realmente interessa al ricercatore. Nel 1966 Roberto De Simone si concentrò sulla più bella, la Madonna di Montevergine, al cui pellegrinaggio avrebbe partecipato diverse volte, anche con Annabella Rossi e Paolo Apolito in occasione delle due feste annuali del 2 febbraio e del 12 settembre. La leggenda delle Sette Sorelle, ancora oggi, varia da paese a paese perché ciascuno, nella rete dei propri pellegrinaggi mariani v’inserisce i santuari di afferenza, prossimità, influenza. Su questa leggenda, il Maestro, avrebbe costruito una delle figure più dense del suo immaginario: le sorellastre della Gatta.
Son sei sorelle, son tutte belle, son tutte belle per far l’amor.
(Roberto De Simone, Son sei sorelle)
A Macerata Campania, in provincia di Caserta, una delle mete delle ricerche del Carnevale, ancora oggi i versi resi eterni da De Simone vengono intonati al ritmo di botti, tini e falci per la festa di Sant’Antuono dalle Battuglie di Pastellessa (Valitutto 2020). Come succede spesso nel gioco in cui colto e popolare s’inseguono innescato non solo in Campania, ora è difficile capire chi abbia ispirato chi. Come nelle favole, non si sa chi l’abbia iniziata né terminata, nei differenti passaggi d’oralità domestica attivi per generazioni. La favola come tecnica narrativa e interpretativa è, probabilmente, uno dei terreni più importanti del lavoro desimoniano, la voce e il gesto che nella festa costruiscono la relazione con il reale (anche riferendosi al soprannaturale) nella favola ne alterano la veridicità attraverso un processo di travestimento per giungere allo stesso grado di realtà. Come il teatro.
Giambattista Basile, con le sue 50 storie raccolte nel Meridione Barocco, consente a De Simone di raccontare “realmente attraverso la favola” la miseria e la grandezza della sua città, tra soldati stranieri, munacielli, lavandaie, principi e matrigne. L’interesse intellettuale (De Simone 1994, l’edizione critica del Pentamerone del 2002) accompagna una necessità personale, la tensione mai sopita di fare i conti con la propria madre/matrigna: Napoli.
«Fu così che diventai il cavaliere Giambattista Basile e imparai che la matrigna la si può decapitare troncandole la testa in una cesta da biancheria. In ciò il cavaliere Basile aveva ragione: basta sapere usare le parole per esprimere lo stesso gesto: solo così si ammazzano tutte le matrigne del mondo e tutti lo capiscono e alla fine sono contenti e felici» (Media Aetas 1997).
Il testo è tratto dal libretto de La Gatta Cenerentola del 1976. Uno dei cunti della tradizione narrativa meridionale torna, dopo la “grimmizzazione” e “disneyzzazione”, crudele e di sogno, tra messaggi colti nascosti e riferimenti alla musica del popolo. Le riscritture della storia di Zezolla è una storia a parte, il riscatto della sorella di nerofumo ma più bella diventa universale, che venga raccontata accanto al braciere per dissolversi, che venga registrata da un’antropologa [9], che diventi opera teatrale iconica e “metastorica”.
“Io ritengo di aver agito sempre nel presente”
«La parola kyrie ha migliaia di significati, compreso quelli di Dio. E la parola eleison non significa soltanto “dacci aiuto” ma deriva dall’Eleuterio e significa “sollevaci”, cioè “alzaci al tuo livello”, dunque rompi il livello storico che viviamo e che non possiamo vivere contemporaneamente al momento metastorico, il momento sacro, perché due momenti insieme non possono convivere, dacci la forza di giungere al terzo gradino dell’elevazione divina e rendici degni della comunicazione con te. È la stessa cosa che si fa con i Gigli, perché gli unici che possono salvare sono loro, chi viene investito di questa mania del trasporto del Giglio e sono coloro che attendono questo momento proprio per rompere il tempo storico e instaurare il tempo metastorico. Questo non è facile e tende a diventare impossibile perché la civiltà dei consumi bada sempre più ad ammazzare il tempo metastorico che non suscita il desiderio di comprare qualche cosa di nuovo ma impone il bisogno di avere a disposizione tutto il retaggio passato della memoria. La televisione tende a memorizzare l’individuo, l’individuo è memorizzato per sé. Ma noi siamo in grado di memorizzare un solo anno? Se la storia ci porta in questa direzione la festa dei Gigli morirà, ma morirà con i collatori, che saranno gli ultimi testimoni della “festa”» (De Simone 2009a: 139).
Parafrasare questi passaggi così densi, rivolti al contesto nolano con cui – ancora una volta – De Simone ha “alzato” un rapporto complesso, riporta a un tempo altro, quello della festa e dell’eternità, in cui si muore se non ci si eleva a qualcosa di alto. Come nelle note finali dello Stabat Mater che risolvono la crisi del Quando corpus morietur con un Amen la cui potenza di toni e intensità squarcia i cieli, il kyrie eleison di questo ex voto arriva dopo che il corpo di Roberto De Simone è entrato perfettamente nella scarpetta, trasformandosi da carne a favola.
Sulla vastità del suo lavoro arriverà il tempo per riflessioni mature, mi preme ora accodarmi all’appello di non disperdere la sua eredità, mi riferisco al suo archivio sonoro e documentario, agli oggetti, ai libri raccolti in questi decenni e che da anni avrebbe voluto organizzare in un museo per renderli indietro alla città, alla regione, agli eredi di chi gli ha insegnato cosa può la voce, cosa possono i gesti. Restano vivide le immagini dei suoi ultimi testi, in questi racconta le vicende di Giovanna D’Arco che non fu creduta e invita i napoletani ad onorare i morti (De Simone 2024a, 2024b). Resta vivido il j’accuse del Maestro Riccardo Muti comparso su «Il Mattino» dell’8 aprile 2025 sulla solitudine subita negli ultimi anni dal suo collega e amico. Sull’eredità intellettuale e artistica del Maestro De Simone sono meno pessimista. Consciamente o meno, nel campo dello studio, della ricerca, della scrittura, della composizione, della rielaborazione della cultura popolare ha lasciato un modello d’ispirazione, una guida, una favola da continuare a narrare. Voglio solo citare uno degli esempi ultimi: Furèsta, lavoro discografico de La Niña, cantautrice che compie un viaggio sonoro tra la vegetazione di un racconto di formazione e di passaggio, evocando suoni, immagini, ritmi che senza De Simone non avrebbe/avremmo conosciuto e conservato.
Ritorno, chiudendo il cerchio, alla citazione dell’inizio, aggiungendone altre due, tutte del 1977, che descrivono per l’ennesima volta la poliedricità, la poesia, il rapporto con la morte e la vita di De Simone:
Oi meh, cà sì dannate,
tu sì muorte e già t’hanna sutterrate,
ma si ‘na cosa ancora ce vuò dare,
l’anima toja nun fà alluntanare!
Và, cù ‘sta varca r’anime rannate,
ma lu spririte lassa a ‘sta cittate
e à la tempesta mannata da la Spagna
mo’ la Maronna pure c’accumpaga!
Versi recitati da Isa Danieli nei panni dell’Arcangelo in Mistero napolitano. Opera successiva a La Gatta Cenerentola, cuce intorno alla Cantata dei Pastori la storia del contrasto tra il popolo di Ciulla della Pignasecca, attrice e meretrice, e i gesuiti, il potere omologante. La tempesta non deve far perdere la speranza, con l’aiuto della Madonna, che la città non perda il proprio “spirito”.
Aggiungo il ritornello della Ballata della colpa, una delle dieci canzoni di Io Narciso Io, disco composto e cantato da Roberto De Simone. La sua voce, nell’elenco delle colpe della Storia, mostra l’umanità di chi ha fatto i conti con i propri sensi di colpa, di chiunque sia la colpa.
Un, due, tre la colpa di chi è?
Infine, ricongiungendo la fine all’incipit, l’interpretazione etnocoreutica e esistenzialista della tarantella di Carnevale si chiamava Vincenzo. La soglia non si valica mai definitivamente.
V.F.G.A.:
«Non ho commesso errori. Io ritengo di aver agito sempre nel presente, nella proiezione da un lato verso il passato e con una proiezione verso il futuro, lasciando però aperti tutti i valichi delle probabilità. Di modo che io di definitivo non ho mai asserito nulla, ho sempre asserito quella cosa che era relativa a quel momento in cui avevo scritto quella composizione, in cui avevo detto quella frase, in proiezione di un futuro con il mio bagaglio retrospettivo di quello che sapevo» (Roberto De Simone, intervistato nel settembre 2011).
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] Rappresentazione Sacra su testi di Jacopone da Todi «Passione di Cristo e pianto della Vergine» e le «dissonanze» ispirate da laudi popolari italiane con Irene Papas e Francesca El Kozeh, Caterina Robin, Lucilla Galeazzi, Adria Mortari, Franco Castiglia, Gianni Lamagna, Jonathan Barry, Giulio Liguori, con l’Orchestra del Teatro San Carlo diretta da Alberto Zedda.
[2] Innegabilmente, anche le altre ricerche meridionalistiche demartiniane. A tal proposito, il ricordo di Isa Danieli, la lavandaia tarantata de La Gatta Cenerentola: «Fu lui che mi tolse il terreno da sotto ai piedi (copione, convenzione teatrale) con quel sogno erotico di quella lavandaia del terzo atto di Gatta Cenerentola. Mi spinse in un territorio fino allora inesplorato: dovevo “perdermi” in un sabba mediterraneo, tarantolato».
[3] Si aggiungeranno nei primi anni Peppe Barra e Fausta Vetere, insieme ad altri musicisti e voci, alcuni provenienti direttamente dai contesti festivi o di ricerca frequentati, come nel caso di Franco Tiano di Pagani (Sa). La composizione del gruppo – che è ancora in attività – segue fasi complesse, caratterizzate da allontanamenti che ne segnano le fasi. La più importante è segnata da La Gatta Cenerentola (Bennato e D’Angiò lasciano il gruppo prima del 1976 fondando Musicanova, De Simone e Barra nel 1978). Per approfondire: Fanelli 2017.
[4] Queste parole di Roberto De Simone sono estrapolate da un’intervista, presumibilmente degli anni ’70, comparsa su Facebook con la seguente didascalia: «Il più importante punto di riferimento per noi che siamo partiti dalla musica popolare per continuare la Tradizione e renderla sempre viva. Il Maestro De Simone ha lasciato questo mondo ma non potrà mai lasciare i nostri cuori. Che l’Altissimo ti accolga nel suo modo migliore caro Maestro Roberto De Simone.» A condividerla è Officina Zoè, formazione pugliese che da decenni lavora sul patrimonio musicale del Salento; ciò mette in evidenza l’influenza di Roberto De Simone anche al di fuori del contesto campano e l’ondata di ricordo e commemorazione innescata dalla sua morte.
[5] Il primo del 1971, non ha un titolo come il secondo del 1972. Fino al 1978 la NCCP pubblica un disco all’anno, alternando l’attività concertistica a quella teatrale. Questi dischi consentono la scoperta di repertori ritenuti perduti (villanelle, laudi, strambotti) e la diffusione di brani della tradizione campana raccolti (e rielaborati adeguandoli alle voci dei componenti) soprattutto in occasioni festive o «la tradizione è già stata lacerata […] (attraverso N.d.A) testimonianze superstiti» (Plastino 2016: 665; la citazione riporta parole di Roberto De Simone).
[6] Molte voci valorizzate da De Simone hanno continuato la propria carriera musicale o teatrale con diversi progetti solisti, sperimentando con testi inediti o continuando a ricercare nell’alveo delle sonorità mediterranee (l’elenco sarebbe lungo, Antonella D’Agostino e Pino Di Vittorio a titolo esemplificativo per ricordare anche alcuni non componenti ufficiali della NCCP). Analogamente, da esperienze più strettamente teatrali arrivano altre voci che si confrontano con la ricerca artistico-musicale del maestro (Concetta Barra, Isa Danieli, Antonella Morea).
[7i] Su questo solco s’inserisce la polemica con Eduardo De Filippo. «È indiscutibile che Eduardo sia stato un grandissimo artista. Ma, forse inconsapevolmente, ha contribuito alla morte del teatro napoletano più autentico. Lui non si rivolgeva più alla Napoli popolare, ma a quella piccolo-borghese. Guardava le cose del mondo da Palazzo Scarpetta, con l’occhio del borghese progressista. E lei da dove guardava le cose? Da Pignasecca e Montesanto: dalle zone popolari. Scrissi La Gatta cenerentola in contrapposizione alla visione di Eduardo» (intervista di Antonio Gnoli a Roberto De Simone pubblicata da «La Repubblica» del 29 dicembre 2013). Il ritratto di Eduardo De Filippo era l’unica fotografia presente nella casa-museo di Roberto De Simone, testimonianza di un rapporto di stima duraturo (a titolo esemplificativo: il teatro San Ferdinando ospitò le prove della NCCP nel 1971 e la messa in scena de La Gatta Cenerentola, le musiche della trasposizione televisiva della commedia eduardiana De Pretore Vincenzo sono firmate da De Simone) seppur complesso.
[8] Interessante l’elenco dei commenti alla notizia della morte di De Simone che provengono dall’Irpinia su un giornale della provincia di Avellino, consultabile nella sitografia.
[9] Il riferimento è a Jatta Cennerella, favola raccolta da Aurora Milillo nel 1969 a Rionero in Vulture (Pz), AELM 65 Basilicata: Raccolta dell’Archivio Etnico-Linguistico-Musicale della Discoteca di Stato, serie BAS 3, brano 9. Per approfondire: Milillo 1983.
Riferimenti bibliografici
Adamo, G. (a cura di) (2012) Musiche tradizionali in Basilicata. Le registrazioni di Diego Carpitella ed Ernesto de Martino, Roma, Squilibri.
Apolito, P. (2014) Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità, Bologna, il Mulino.
Ballacchino, K., Broccolini, A. (2016) Le nuove ‘comunità patrimoniali’ del Carnevale. Le mascarate di Serino e i Carnevali irpini tra permanenze, mutamenti e conflittualità, in Ballacchino K., Broccolini A. (a cura di) «Carnevali del XXI secolo», «Archivio di Etnografia», n. 1-2, XI, Bari, Edizioni di Pagina, pp. 105-140.
Basile, G. (2002) Il cunto de li cunti (nella riscrittura di Roberto De Simone), Torino, Einaudi [ed. or. 1634].
Carpitella, D. (1981) Cinesica 1. Napoli. Il linguaggio del corpo e le tradizioni popolari: codici democinesici e ricerca cinematografica, in Minervini E. (a cura di) «Antropologia visiva. Il cinema», «La ricerca folklorica», n. 3, Brescia, Grafo, pp. 61-70.
de Martino, E. (2015) Sud e magia, Roma, Donzelli [ed. or. 1959]
de Martino, E. (2021) Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Einaudi [ed. or. 1958].
De Simone, R. (1974) Chi è devoto. Feste popolari in Campania, con introduzione di Carlo Levi e fotografie di Mimmo Jodice, Napoli, Edizioni scientifiche italiane.
De Simone, R. (1975) Testo verbale e strutture musicali nei canti popolari, in Carpitella D. (a cura di) «L’etnomusicologia in Italia», Palermo, Flaccovio, pp. 153-158.
De Simone, R. (1977) La Gatta Cenerentola. Favola in musica in tre atti, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (1979) Canti e tradizioni popolari in Campania, Roma, Lato Side,
De Simone, R. (1982) Il Segno di Virgilio, Pozzuoli, Puteoli.
De Simone, R. (1983), Appunti per una disordinata storia della canzone napoletana, in «Culture musicali», II, 3, pp. 3-40.
De Simone, R. (1994) Fiabe campane. I novantanove racconti delle dieci notti, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (1999) L’opera buffa del Giovedì Santo. Commedia per musica in tre atti e quattro quadri, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (2003) Le guarattelle fra Pulcinella, Teresina e la Morte, Napoli, F. Di Mauro.
De Simone, R. (2004) Il presepe popolare napoletano, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (2007) Il canto antico della Madre, «Il Mattino» del 1 Ottobre 2007.
De Simone, R. (2009a) Il piede metrico del Giglio, in Ballacchino K. (a cura di) «La festa. Dinamiche socio-culturali e patrimonio immateriale», Nola, l’arcael’arco, pp. 131-139.
De Simone, R. (2009b) Il canto dei Battenti di Minori, in «Atti della 1a Giornata di Studi: I Riti della Settimana Santa. ‘Una Passione che si rinnova’ – Minori 30 marzo 2009; Atti della 2a Giornata di Studi: I Riti della Settimana Santa. ‘Dal Barocco ad oggi’», Maiori, Terra del Sole edizioni, pp. 203-209.
De Simone, R. (2010) Sono sei sorelle. Rituali e canti della tradizione in Campania, Roma, Squilibri.
De Simone, R. (2013) Cinque voci per Gesualdo. Travestimento in musica e teatro di un mito d’amore, morte e magia, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (2014) Satyricon a Napoli ’44. Tra Santa Chiara e San Gregorio Armeno, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (2017) La canzone napolitana, Torino, Einaudi.
De Simone, R. (2019) Introduzione, in Basso A. «Abbassato in un antro è ‘l Paradiso. Ovvero sei divagazioni natalizie e tre racconti», Salerno, OperaEdizioni, pp. 7-9.
De Simone, R. (2024a) Dell’Arco Giovanna D’Arco. Mystère cinematografico per musica, Napoli, Colonnese.
De Simone, R. (2024b) Ballata per morti ed eroi. La Storia non dimentica, «Il Mattino» del 1 Novembre 2024.
De Simone, R., Rossi, A. (1973) Immagini della Madonna dell’Arco. Catalogo della mostra tenuta presso il Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni popolari tra il dicembre 1973 e il gennaio 1974, Roma, De Luca Editore.
De Simone, R., Rossi, A. (1977a) Carnevale si chiamava Vincenzo. Rituali di Carnevale in Campania, Roma, De Luca Editore.
De Simone, R., Rossi, A. (1977b) I riti del ‘travestimento’ nella cultura contadina, in «Cinema nuovo», a. 26, n. 249, pp. 340-348.
Faeta, F. (2006) “Vivere la realtà è già scienza”. Per una critica dell’etnografia visiva di Annabella Rossi, in Faeta, F. «Fotografi e fotografie. Uno sguardo antropologico», Milano, Franco Angeli.
Fanelli, A. (2017) Contro canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Roma, Donzelli.
Giuriati, G. (1996) La musica tradizionale della Campania e la canzone napoletana, in Pugliese Carratelli G. (a cura di) «Storia e civiltà della Campania. Il Novecento», Napoli, Electa, pp. 281-99.
Lombardi Satriani, L. M., Mazzacane, L. (1974) Perché le feste. Un’interpretazione culturale e politica del folklore meridionale, Roma, Savelli.
Mazzacane, L. (1989) Forma e struttura dell’ex voto marinaro, in Mazzacane L. (a cura di) «La cultura del mare nell’area flegrea», Bari, Laterza, pp. 116-131.
Media Aetas (1997) La Gatta Cenerentola, Napoli, L.E.G.M.A..
Milillo, A. (1983) La vita e il suo racconto, Roma, Gangemi.
Pizza, G. (2017) Oltre il feticcio della merce culturale. Ritorno a Giovanni Coffarelli, in AA.VV. «Feticcio», Potenza, Grenelle.
Plastino, G. (2016) La musica folk, Milano, il Saggiatore.
Ricci, A. (1997) Fotografia e ricerca etnomusicologica nel Mezzogiorno d’Italia (1950-1995), in Faeta F., Ricci A. (a cura di) «Lo specchio infedele. Materiali per lo studio della fotografia etnografica in Italia», Roma, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, pp. 189-220.
Ricci, A. (1999/2000) La Raccolta 136 degli Archivi di Etnomusicologia, in «EM. Annuario degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia», n. VII-VIII, Lucca, Libreria Musicale Italiana, pp. 73-144.
Rossi, A. (1969) Le feste dei poveri, Bari, Laterza.
Russo, M. (2016) Travestimento, Roma, Postcart.
Valitutto, S. (2020) Gli spazi della festa, Il carro, Il capocarro, Il capobattuglia, Il bottaro e la botte, Il suonatore di tino, Il suonatore di falce, Altri strumenti, Modelli ritmico-musicali e repertori, Cantanti e autori, L’asino, Il maiale, La signora di fuoco, La scala, in Santi C. (a cura di), «La festa di Sant’Antuono a Macerata Campania tra tradizione e reinterpretazione», Lugano, AGORÀ & CO., 2020, pp. 25 – 27, 61 – 72, 75 – 78, 91 – 94.
Valitutto, S. (2024) Suoni di festa. Le registrazioni sonore del “Nuovo Politecnico”: metodo, divulgazione e militanza, in Lombardi Satriani L. M., Alliegro E. V. (a cura di) «Antropologia visuale. Lello Mazzacane letto da venti autori», Palermo, Edizioni Museo Pasqualino.
Vesce, M. C. (2017) Altri transiti. Corpi, pratiche, rappresentazioni di femminielli e transessuali, Sesto San Giovanni, Mimesis.
Sitografia
(Ultima consultazione 15 aprile 2025)
Paolo Apolito, I lunedì dell’antropologo a domicilio – 7 aprile 2025. La lettera.118 Roberto De Simone (https://www.facebook.com/Antropologoadomicilio/posts/1230983782368210).
Diego Carpitella, Cinesica 1. Napoli (https://patrimonio.archivioluce.com/luce-web/detail/IL3000088365/1/cinesica-culturale-serie-documentari-scientifici-napoli.html?startPage=0).
Corriere dell’Irpinia, Addio a Roberto De Simone, quel legame forte con l’Irpinia. Dalla passione per i Carnevali agli studi su Carlo Gesualdo (https://corriereirpinia.it/addio-a-de-simone-quel-legame-forte-con-lirpinia-dalla-passione-per-la-zeza-di-bellizzi-agli-studi-su-carlo-gesualdo/).
Roberto De Simone, Intervista settembre 2011 (https://www.youtube.com/watch?v=lLOFJTNDo3c).
Enrico Fiore, De Simone, o della cultura (https://www.controscena.net/enricofiore2/?p=11963).
Antnio Gnoli, De Simone: “Ho cercato nella musica di Napoli il cuore di un popolo che non c’è più” (https://www.repubblica.it/cultura/2013/12/29/news/roberto_de_simone_ho_cercato_nella_musica_di_napoli_il_cuore_di_un_popolo_che_non_c_pi-75005252/).
Riccardo Muti, De Simone è morto solo, con lui Napoli ingrata (https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/muti_de_simone_e_morto_solo_con_lui_napoli_ingrata-8765064.html).
Officina Zoè (https://www.facebook.com/officinazoe/posts/1247436704057180).
Roberto De Simone nel ricordo di Isa Danieli (https://contropiano.org/news/cultura-news/2025/04/09/roberto-de-simone-nel-ricordo-di-isa-danieli-0182059).
Macerata Campania, Son sei sorelle (https://www.youtube.com/watch?v=LGCd4beQdfQ).
________________________________________________________
Simone Valitutto, PhD in “Antropologia e studi storico-linguistici” (Università degli Studi di Messina). Assegnista di ricerca dell’Università degli Studi di Salerno, in questo ateneo è stato docente a contratto di “Antropologia culturale” e “Antropologia dei Patrimoni Culturali”. Ha insegnato “Antropologia della comunicazione” all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Ha collaborato a differenti progetti di ricerca: biodiversità vegetale (“Sapienza”), post-sisma 1980 (Fondazione MIdA), culto di San Gennaro (“Federico II”), festa di Sant’Antuono (“Vanvitelli”), patrimonio fiabistico (ICBSA), mappatura archivi locali (ICPI). Tra le pubblicazioni: la curatela con Falconieri e Fichera di Irpinia 1980. Evocare il terremoto, ripensare i disastri, «Visioni d’archivio. Quaderno_02».
______________________________________________________________
