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Femminicidi e cuori di tenebra

Sara Campanella

Sara Campanella

di Sergio Todesco 

Ernesto de Martino (in Furore Simbolo Valore, nel capitolo Magia e occultismo nella Germania di Bonn) racconta come in un pomeriggio del giugno 1958 la sua serena rilettura della Storia d’Europa di Benedetto Croce fosse stata interrotta da una visita inaspettata: un «vecchio e manieroso signore, inconfondibilmente tedesco» che, entrando subito in argomento, lo invitava perentoriamente ad aderire alla campagna da costui promossa contro il proliferare in Germania, «subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel vuoto lasciato negli animi dalla ubriacatura nazista», di una ripresa di tradizioni magiche e occultistiche cui si accompagnavano culti e pratiche demonologiche di vario tipo.

In maniera non dissimile alcuni giorni fa il mio tentativo di riflettere sulle situazione del nostro continente alla luce delle novità geo-politiche scatenate dalla triste coppia Trump-Musk è stato interrotto dalla notizia giuntami dai social dell’ennesimo orrido femminicidio perpetrato nella mia città, e per ciò stesso da me avvertito come particolarmente toccante, quello della studentessa Sara Campanella uccisa da un collega di università per la sola ragione di essersi costantemente negata alle insistenti avances dello stesso. Costui dunque, dopo averla per mesi invitata a intrecciare con lui un rapporto e aver sempre da lei ricevuto risposte negative, all’uscita da una lezione universitaria l’ha uccisa con cinque coltellate.

Immediatamente l’Europa e i suoi problemi, quelli presenti e quelli derivanti dalle contraddizioni che affondano nel tempo le loro radici, sono passati in secondo piano perché all’indignazione civile per il crimine efferato si accompagnava la tristezza per una ferita inferta all’intera città, la cui prova evidente mi è poi emersa durante il corteo con  fiaccolata di alcune migliaia di persone cui ho partecipato dopo qualche giorno, all’inizio del quale, oltre agli scontati fiumi di retorica spesi dalle autorità presenti, ho avuto modo di ascoltare le poche frasi smozzicate e affrante della madre della vittima. Provo dunque a interrogarmi su questo cancro sociale, il femminicidio, che a torto ancora in molti si ritiene doversi relegare unicamente nella sfera privata.

Cosa spinge un uomo ad arrecare offesa a una donna? Rispondo senza timore di sbagliare: paura, insicurezza, orizzonti mentali angusti, mammismo, sottosviluppo. Ognuna di queste cause andrebbe attentamente analizzata e vagliata, laddove si intendesse veramente porre un freno alla turpe sequela di femminicidi che offendono, prima ancora che tutti i maschi per bene che abitano il pianeta, l’intera umanità.

La paura e l’insicurezza derivano dal non avere alcuni uomini accettato la sacrosanta emancipazione femminile, il riconoscimento cioè della perfetta parità, nella meravigliosa diversità che intercorre tra loro, di uomo e donna, dato di fatto che dovrebbe essere ovvio ma così non è stato se sono occorsi lacrime e sangue per iniziare ad affermarlo e combattere per consolidarlo, tanto è vero che vivono sotto il nostro stesso cielo milioni di idioti che ancora si ostinano a negare tale ovvietà. Sono proprio costoro dunque ad aver paura delle donne, dell’universo femminile, di un genere il cui approccio alla vita e alla realtà è quasi sempre più “umano”, più morbido, meno aggressivo, più in sintonia con la natura e i suoi cicli, meno competitivo e meno nevrotico. Sarà forse per l’oscuro riconoscimento di tali qualità che molti uomini, che evidentemente ne sono privi, sviluppano nei confronti delle donne – e di quelle in particolare che la sorte pone loro accanto – sentimenti di paura e di insicurezza che spesso si ribaltano in atti concreti di ostilità e violenza.

Si usa affermare che la violenza esercitata verso le donne abbia alla sua base un distorto sentimento amoroso, laddove risulta a me palese che in tutti i casi di violenza non esista alcuna traccia di amore ma entrino unicamente in gioco meccanismi tossici che muovono menti fragili e confuse formatesi all’interno di contesti in cui vige la narrazione della donna “costola di Adamo”, e proprio per tale motivo frustrati dal mutamento di paradigma nel rapporto uomo-donna verificatosi nell’ultimo mezzo secolo.

Gli orizzonti mentali angusti sono quelli propri di una cultura maschilista e patriarcale che ha caratterizzato la lunga storia dell’umanità. Scomodo ancora una volta Carlo Marx, parafrasando il quale (L’ideologia tedesca) possiamo affermare che «le idee del genere dominante sono in ogni epoca le idee dominanti», il che vuol dire che i maschi si sono fatti a proprio uso e consumo tutte le regole del gioco, tutti i puntelli ideologici che consentissero loro di esercitare il dominio sulle donne, e di continuare a esercitarlo nel tempo presentando tali regole come “naturali”, calate dal cielo, inattaccabili e sempiterne.

Non è chi non veda (parlo per le persone sane) che tale strategia è frutto di meschini, epocali, calcoli di comodo che non hanno alcuna corrispondenza con la realtà. Ogni immagine della donna quale “creatura debole”, “angelo del focolare”, angelicata come santa o vituperata come puttana, è una costruzione ideologica, di una pessima e rozza ideologia maschilista. Rozza e ipocrita, intimamente “fascista”, di quel fascismo eterno di cui lucidamente ci ha parlato Umberto Eco.

antropologia-di-genereIn tema di mammismo, ahimé, siamo soprattutto noi italiani a essere chiamati in causa. Pare che in tema di cocchi di mamma (termine che ritengo osceno) l’Italia detenga un certo primato. Costoro pare incontrino difficoltà nel recidere una volta per sempre il cordone ombelicale. Alcune mamme poi, anch’esse cresciute all’ombra della medesima cultura, aggiungono spesso danno ulteriore al danno iniziale instillando al proprio figlio l’idea che quell’altra (la donna altra da sé) rimanga sempre e comunque un’usurpatrice, una crudele rivale di colei che gli ha dato la vita. E il figlio, dovendo scegliere se uccidere simbolicamente la genitrice o uccidere realisticamente la compagna, spesso sceglie quest’ultima soluzione. A me pare che su tali meccanismi Freud avrebbe certamente qualcosa da dire. Forse anche Groddeck. Forse pure Lombroso.

Il sottosviluppo infine è il brodo di coltura al cui interno prendono corpo tutti gli atti di violenza contro le donne. Esiste naturalmente un sottosviluppo, per così dire, sottoproletario, ma c’è anche un sottosviluppo piccoloborghese, ce n’è uno medio e addirittura uno altoborghese. È la condizione di chi – e sono molti, tanti davvero – tiene gli occhi talmente chini sulla terra in cui quotidianamente si arrabatta a strisciare che non li solleva mai verso l’alto. Si tratta di quelli che Andrea Camilleri chiamava “teste parziali”, quanti non riescono a vivere serenamente la pluralità di dimensioni che la vita propone loro e si autocondannano a consumarne tristemente una sola, quella del proprio guscio chiamato pomposamente “io”. Se, come scriveva Blaise Pascal nei suoi Pensées, «le moi est haïssable », qui il moi si rivela decisamente, orridamente haïssable…  

Leggo sempre con un senso di vergogna ogni notizia riguardante abusi e violenze perpetrati ai danni di una donna. E spesso mi interrogo sui guasti del nostro vivere, sulle tante forme di familismo e di modelli educativi perversi – sovente valutati come normali – che creano uomini insicuri, incapaci di leggersi dentro, inadatti a gestire le proprie fragilità. Uomini puerili che non sono mai cresciuti e continuano a praticare la logica del branco e della sopraffazione. Essi sono purtroppo legione, e costituiscono una sorta di “autosufficienza impotente del genere” che giorno dopo giorno mina le nostre società, distrugge intere famiglie e perpetua modelli culturali di inaudita barbarie.

antropologia-genere-riproduzioneLa percezione maschile della donna, come mi è già accaduto di osservare, appare storicamente connotato da una peculiare ambivalenza di fondo. Per un verso la donna è stata percepita – e lo viene ancora presso molte culture – come un essere in qualche misura inferiore, occupante un posto di scarsa rilevanza nella gerarchia dei valori dominanti e socialmente condivisi; per altro verso la sua natura “altra” (un’alterità di genere percepita come stigma ontologico) l’ha resa comunque – attraverso una pluralità di rappresentazioni – portatrice di valori e di saperi che, proprio per la loro siderale distanza da quelli del mondo maschile, favoriscono la produzione di figurazioni “perturbanti” o, viceversa, angelicate.

Non è un mistero che la storia delle donne, da che mondo è mondo, sia stata declinata al maschile. Perfino l’universo popolare, subalterno per definizione e muto di fronte al grande teatro della storia, ha coltivato al proprio interno fortissimi meccanismi di esclusione, censura, tabuizzazione, rimozione, silenzio nei riguardi dell’universo femminile.

Per effettuare uno scandaglio su tale abisso di incomprensioni e di orrori occorre forse operare preventivamente uno smantellamento sistematico di pre-giudizi che hanno fatto parte non dico della cultura maschilista ma della cultura tout court lungo l’arco di secoli, forse millenni di storia dell’Occidente (volendo limitarsi a quest’angolo di mondo). La donna dunque è stata sempre percepita come essere sublimato, desiderato, sognato, o viceversa aborrito, insultato e odiato, ma mai oggetto di una dialettica dei sentimenti. 

Risulta agevole comprendere come in tale elementare e rozzo orizzonte culturale si sia venuta sviluppando la violenza. Una violenza cieca e bestiale, poggiante su pregiudizi atavici che come una metastasi hanno permeato pressoché tutte le società del pianeta, con la significativa eccezione di quelle riguardanti i cosiddetti “primitivi” o “selvaggi”, presso le quali la donna si trova a gestire una gamma variegata di pratiche, di codici, di segni, di prospettive simboliche che le conferiscono un ruolo non secondario, e anzi assai spesso preponderante nella sfera sociale.

eppur-che-sono-donneMaga, strega, sirena, mammana, donna di fuori, maliarda, grande madre, santa, matriarca, sciamana, e viceversa schiava, animale da soma, strumento passivo per la soddisfazione dei sensi e la riproduzione della specie. Sentina di impurità, fonte di pericolo e di contagi. I suoi liquidi sono rischiosi, mestruo, saliva, lacrime; il corpo della donna viene percepito come il corpo rabelaisiano così ben descritto da Michail Bachtin, un corpo che proviene dalla terra e della terra ritiene le sporcizie ma – ecco il contraltare – anche l’enorme potenziale di vitalità, di fertilità, di vis creativa… Attraverso tali modelli percettivi si dipana una storia in larga parte scritta dagli uomini per gli uomini, della quale tuttavia le donne sono state, nonché testimoni mute e passive, soprattutto pazienti osservatrici. Anche in questo caso l’identità, attraverso le sue fantasmatiche proiezioni, gioca un ruolo fondamentale. Le radici antropologiche del femminicidio risiedono infatti in un sentimento del desiderio che, declinato attraverso la categoria del possesso, tracima fatalmente, nel caso di un suo mancato raggiungimento, nella violenza.

Come combattere la violenza contro le donne, piaga non secondaria a nessuna del nostro presente? Certamente attraverso un poderoso sforzo educativo di cui purtroppo non si scorge l’avvio presso nessuna delle società attuali, cosiddette civili. Occorrerebbe infatti una rivoluzione copernicana, un radicale mutamento di prospettive nella percezione dei rapporti tra uomini e donne, con l’avvertenza che i luoghi comuni, i falsi modelli e gli stereotipi allignano sovente anche nelle stesse donne, le quali in tal modo “fanno girare all’indietro la ruota della storia” tutte le volte che accettano supinamente di rivestire un ruolo subalterno che è solo il frutto di una cultura malata.

Gli uomini dovrebbero insomma essere educati al fatto che non esistono “donne dei sogni” (in pratica proiezioni allucinatorie dei propri desideri e delle loro paure), e iniziare a valutare ogni donna quale “altro da sé”, quale persona diversa dall’uomo e però dotata di analoga (se non superiore) intelligenza, libertà, dignità. Per giungere a tale percezione l’uomo (parlo anche di noi uomini che viviamo faticosamente il nostro tempo) deve riuscire a ritrovare e riconoscere la propria fragilità, e deve farlo consapevolmente, imparando a convivere con essa, aborrendo le tentazioni di scaricare su altri le proprie fobie, i propri scacchi, le proprie miserie. Solo in tal modo potrà percepire la splendida presenza costituita dalla donna come di una compagna di strada, di una complice e non di una rivale.

Episodi tragici come quello avvenuto a Messina, e in tanti altri centri del nostro Paese con spaventosa cadenza, risultano mortificanti per chi creda ancora nella capacità del genere umano di coltivare sentimenti di libertà, di rispetto della persona, di dignità congenita in ogni essere vivente. Sono episodi rispetto ai quali le uniche risposte possibili sembrano essere giustizia, integrazione e “laicità”, intesa nel senso della capacità di prescindere dalle tradizioni del proprio gruppo di appartenenza per abbracciare orizzonti più ecumenici. Non a caso le destre di ieri e di oggi hanno fatto e continuano a fare dei concetti di identità e di tradizione un uso strumentale, ieri in funzione antisemitica oggi in becera propaganda anti-islamica, come proprio in questi giorni il ministro Nordio ha inteso etichettare il fenomeno dei femminicidi riducendolo a pratica precipua di etnie non ancora entrate nel cono d’ombra del nostro Aufklärung.  Molti ritengono ancora, come Nordio, che si tratti di costumanze barbariche, proprie di popoli che non si sono ancora affacciati del tutto alla modernità, e per quanto ciò sia in parte vero (i Talebani stanno a dimostrarlo) è pur vero tuttavia che costumanze barbare si possono trovare presenti anche nella storia dell’Occidente eurocolto, e non in una storia remota ma assai recente, che quotidianamente scopriamo contemporanea.

le-svergognateIl famigerato delitto d’onore, in auge e di fatto organicamente inquadrato in una normativa giuridica parallela a quella presente nel Codice Penale, non è forse una realtà che ha segnato tante storie e tanti drammatici epiloghi familiari nella nostra isola e nel più ampio territorio nazionale? Ricordo, a quanti possano averlo dimenticato, che il reato di adulterio venne abrogato nel nostro Paese solo nel 1968, e che per l’abrogazione delle disposizioni sul delitto d’onore (in pratica, fortissime attenuanti per chi avesse ucciso la consorte fedifraga) si dovette attendere l’anno 1981 (Legge 442 del 5 agosto), dopo l’introduzione del divorzio (Legge 898 del 1970) e la riforma del diritto di famiglia (Legge 151 del 1975). Ricordo come anni prima che tale processo civile giungesse a maturazione una giovane palermitana antropologa in erba, Lieta Harrison, ha pubblicato un libro (Le svergognate, Edizioni di Novissima,1963), non a caso presentato da Tullio Tentori e da Pier Paolo Pasolini, frutto di un’inchiesta condotta in Sicilia nella quale venivano esaminati attraverso numerose interviste valori che ancora allignavano in seno alla cultura siciliana, e che di fatto tentava di decostruire concetti come verginità, onore, delitto d’onore, e più in generale il rapporto tra i sessi e la sua percezione vigenti in quel periodo.

Nonostante da allora siano trascorsi più di sessant’anni siamo ancora oggi costretti a registrare quanta barbarie ancora stia alla base dei femminicidi, uccisioni di mogli, fidanzate, amanti, o anche donne desiderate e non disponibili, quasi sempre “colpevoli” di recuperare per sé spazi di scelta e di libertà, e come sempre a tali barbarie si accompagni il convincimento di troppi che queste aberrazioni siano giustificate da un costume, da una tradizione, da un’ideologia che ha stabilito una volta per tutte quali debbano essere i rapporti (di forza) tra un uomo e una donna.

Siamo dunque ricondotti a forme distorte di tradizione, di identità. Un termine, questo, ancora una volta utilizzato per declinare realtà che nelle intenzioni di chi lo utilizza dovrebbero individuare stili di vita, visioni del mondo, forme di cultura dati una volta per tutte, immutabili, tetragone al cambiamento, e quasi sempre brandito come clava per contrapporsi con ostilità ad altre forme identitarie, elaborate all’interno di altre “tribù culturali” del nostro pianeta.

oppressione-della-donna-e-ricerca-antropologicaNon si è purtroppo affermata nel comune sentire la consapevolezza che l’identità, la sua costruzione, è sempre frutto di un incontro. Essa si costruisce e si declina appunto per differenziare ciò che siamo (o ciò che crediamo di essere) da ciò che sono gli altri (o ciò che crediamo gli altri siano). Non ci si confronta con il simile a sé, da che mondo è mondo ci si confronta sempre con l’altro da sé (òi bàrbaroi, dicevano i Greci), da ciò sortendone sempre uno “scandalo”, lo scandalo del dubbio, del rischio di messa in causa dei propri sistemi di rappresentazione, delle proprie visioni del mondo, e la conseguente dinamica di mutamento o persistenza che tale confronto sortisce nella propria tradizione, nella propria identità. Una persistenza, occorre rilevare, mai assoluta, dato che l’identità e la tradizione stesse non sono mai statiche, monolitiche, immutabili, ma sempre di nuovo vengono sottoposte a processi di negoziazione, in cui ciò che si perde viene compensato da ciò che si guadagna…..

Se negli ultimi decenni si è venuto affermando un uso strumentale e perverso di tali concetti, ciò è da ascrivere forse alla sempre maggiore diffidenza che le culture e i gruppi umani hanno sviluppato nei confronti della diversità, in un pianeta in cui la globalizzazione ha ancor più incrementato i conflitti e i dislivelli tra gli uomini, gli Stati, i popoli.

Proprio per questo avvertiamo oggi l’esigenza di declinare la complessità delle “identità” e delle “tradizioni” in ogni direzione, decostruendo le dinamiche sociali e di potere che istituiscono identità e tradizione come soliloqui autoreferenziali delle soggettività e come armi da puntare su chiunque esibisca tratti culturali diversi (indici, tali atteggiamenti, di un provincialismo mentale di fondo), per sviluppare invece le potenzialità umane vocate all’incontro, sulla linea di analisi e proposte etico-politiche che ci provengono da ogni sana “tradizione” (qui in Occidente dal Cristianesimo all’Illuminismo al Socialismo) e che molti antropologi hanno bene esemplificato (l’etnocentrismo critico; l’essere bene fondati sulle proprie radici, per potersi meglio aprire al mondo…..). Per comprendere, infine, che ogni “punto di vista” altro non è che “la vista di un punto”.

A tali considerazioni sono da aggiungere quelle bene espresse da Elena Stancanelli in un recente articolo apparso su Repubblica (4 aprile 2025). Stancanelli osserva, e se ne chiede il motivo, perché nei femminicidi registrati negli ultimi tempi gli assassini siano in gran parte giovanissimi. Ed escludendo che l’amore (una sua malintesa assunzione) possa stare alla radice di essi, ne conclude che la causa reale di tali forme estreme di aggressività risieda per un verso nella devastante perdita di orizzonti che caratterizza le giovani generazioni, una perdita di fiducia nel futuro ormai percepito solo in una prospettiva apocalittica; per altro verso nell’incapacità, altrettanto perniciosa, di conoscere cosa sia in realtà la morte: 

«Come si possono avere progetti, figli, come si può avere la lucidità di pensare che la vita è un posto dove le cose accadono, ci si innamora, ci si lascia, ci si innamora di nuovo, se l’unico pensiero che abbiamo è ‘il domani non esiste’? Quale regola morale può mai reggere in un tempo che si esaurisce nel presente? Chiediamoci che cosa possiamo fare per mantenere l’allarme sul clima ma liberare i ragazzi e le ragazze da questa angoscia della fine. Perché se non lo facciamo la loro esistenza futura sarà governata dal fatalismo, l’accidia e anche la violenza».
Messina

Messina, Fiaccolata in ricordo di Sara Campanella

Di fronte al cadavere della sua vittima il femminicida «la guarda come se per la prima volta si rendesse conto di cos’è la morte. Non di cosa ha fatto ma di cos’è la morte. Una cosa irreversibile. Tra le tante questioni di questi anni c’è anche questa: forse non sappiamo più cos’è la morte. E non perché guardiamo le serie televisive o stiamo sui social ma perché la morte e il futuro sono diventati la stessa cosa» 

Annullare qualunque proiezione in un futuro da costruire e autocondannarsi nell’angusta gabbia, o prigione, del presente pare dunque essere una delle cifre di coloro che arrecano morte alle donne, ma, a ben pensarci, anche dei tanti ilari governanti che oggi decidono delle nostre sorti.

Sono consapevole di quanto tali considerazioni siano ininfluenti rispetto all’esigenza, da molti di noi avvertita, di continuare a sperare in un mutamento repentino di paradigma nella società complessa in cui viviamo. Ritengo però utile provare ogni tanto a riflettere sulle radici di questo male assoluto cercando di penetrarvi a fondo con il cuore e la mente. Solo in tal modo potremmo esser capaci di riprendere a riflettere sui temi altrettanto gravi che avviluppano le nostre giornate storiche, come credo abbia fatto de Martino tornando a immergersi nella lettura della serena prosa crociana. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 

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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincidi Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni, 2021.

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