Hannibal ad portas? Che non sia vero, come dice il leader leghista Salvini riferendosi all’Armata rossa, o che sia possibile come ne sembrano certi i Paesi un tempo parte integrante dell’impero sovietico, sta di fatto che la minaccia potrebbe ottenere lo stesso effetto della pax cartaginese nei confronti della nascente repubblica romana: un’accelerazione che segnò l’ascesa inarrestabile di una città e di una civiltà che hanno segnato la storia del mondo.
Non si può negare che l’Europa moderna, nell’attuale veste di Unione, si sia costituita su un presupposto in qualche modo inverso, ossia sulla base di obiettivi pacifici. Ma solo in qualche modo, perché in realtà la pace che vive da ottant’anni inizialmente è stata favorita a est dalla formazione del blocco sovietico che ha costretto il resto del Continente europeo non solo a compattarsi nel timore di future aggressioni blindando meglio le proprie frontiere, con la NATO, ma anche a ovest, con la potenza americana, che oggi per giunta presenta il conto della sua assistenza, da quella economica a quella militare. Una sorta di tenaglia questa che ha avuto il merito indiretto di consentire una crescita economica straordinaria e una qualità dell’esistenza mai registrata in precedenza nel Vecchio Continente, favorita anche da uno welfare unico al mondo (non a caso i Paesi europei svettano nelle classifiche internazionali non solo per consumi voluttuari ma anche per felicità [1], prodotto interno lordo pro capite, salute, longevità e altri indicatori che esprimono il senso di uno stato di benessere e una soddisfazione diffusa).
In realtà la coscienza europea aveva incominciato a crearsi prima della costituzione politica durante e dopo la brutalità dell’esperienza nazista e quella dei fascismi europei che avevano spinto le popolazioni del Continente a opporsi, reagire e combattere. La Resistenza favorì la formazione di un popolo che si riconosceva europeo nella clandestinità mandando avanti consciamente e inconsciamente un’idea di comunità e un progetto grazie al quale tutta la comunità si sarebbe costituita all’insegna della pace e che fu poi costruito per gradi seguendo anche l’evoluzione degli eventi del mondo circostante (fine della Guerra, sconfitta del nazismo e del fascismo, trattato di Yalta, Piano Marshall, rivoluzione socialista, ecc.). Quindi prima fu la CECA, la Comunità Europea del carbone dell’Acciaio che ha funzionato da primo motore di integrazione dei popoli che dal Sud si spostavano al Centro e al Nord del Continente, poi il MEC, il Mercato Comune Europeo anche se la Signora Thachter non vi scorgeva altro se un’opportunità per vendere meglio le merci. Poi la CEE e infine la UE. Oggi siamo giunti a una svolta storica che probabilmente consentirà un ulteriore passo in avanti, se non in direzione di una Confederazione, che sarebbe l’ideale, almeno di un’unità politica. Seguiamo, dunque, gli eventi che stanno consentendo di portare a termine tutto il progetto di unificazione dell’Unione.
Senza dubbio l’attuale clima pacifico che vive l’Europa è stato favorito dal chiudersi di una curva storica iniziata secoli addietro segnati dalla miseria di massa, carestie, epidemie devastanti e, soprattutto, da una frammentazione politica e geografica fonte dei ricorrenti conflitti e scaramucce militari tra le centinaia di staterelli che componevano e stremavano il Vecchio Continente. Una curva che si è innalzata ancora di più con le guerre sanguinose tra le superpotenze mondiali che nel frattempo si erano costituite nel Continente, paradossalmente con una storica “pace”, quella di Westfalia del 1648, che aveva dato il via alla formazione degli Stati moderni dopo la sanguinosa guerra dei Trent’anni (e da qui un po’ si comprende la diffidenza europea riguardo a questo vocabolo). A partire da essa, infatti, sono state le potenze europee più blasonate a scandire i ritmi della storia europea e mondiale: la Francia rivoluzionaria, l’Inghilterra culla della democrazia moderna, la Spagna conservatrice dei valori più profondi della Chiesa e della società, nondimeno una Prussia e un’Austria Ungheria a vocazione spiccatamente autoritaria e la Russia alla costante ricerca di una propria identità politica tra Europa e Asia.
Tutte si sono impegnate per oltre tre secoli a trasformare il Continente in uno sterminato campo di battaglia, incendiando con le politiche coloniali anche il resto del mondo. Pochi possono negare che il calo di questa curva grazie alla convivenza pacifica oggi raggiunta non abbia avuto il merito di insegnare, dopo il 1945, agli avversari di un tempo, inizialmente al rifugio dei monti con i moschetti imbracciati, che a qualunque guerra per qualsiasi ragione, in cui tutti sono destinati a perdere, come ricorda quotidianamente Papa Francesco, sia preferibile incontrarsi piuttosto che scannarsi; al massimo creare una battaglia mimetica nel campo della competizione economica e tecnologica (e, se vogliamo anche artistica e sportiva), giacché per vivere insieme è più importante conoscersi, rispettarsi e apprezzarsi.
Senza dubbio, oltre alla creazione del più ricco mercato del mondo che era il principale obiettivo del MEC, fondamentale è stato anche l’impegno della Germania a farsi perdonare della tragedia nazista operando fattivamente alla costruzione europea. Ma più di tutto, sotto il profilo psicologico, forse che invecchiando bene e in saggezza gli abitanti dello spazio europeo abbiano capito che è preferibile magari adagiarsi nell’otium piuttosto che barcamenarsi tra l’incertezza quotidiana che determina le minacce e le realtà dei conflitti bellici, che anche oggi segnano il mondo e premono, appunto ad portas. Che tuttavia la maggior parte dei cittadini dell’Unione ha ancora la fortuna di vederli solo in televisione. Tutto ciò, comunque, non è stato frutto solo di dinamiche interne e di ciò mi voglio occupare nelle pagine che seguono.
Sullo sfondo del benessere e della civiltà europea nel XX secolo si è sempre levata l’ombra minacciosa del potente vicino, l’impero sovietico, che ha sviluppato una potenza militare (e nucleare) pronta a saltare addosso, sia pure fino a ieri solo a parole, sui “pavidi” europei che, cullandosi sugli allori di un glorioso passato, hanno delegato la loro eventuale difesa all’ombrello militare americano. Ed è qui che la realtà si complica e si scompone soprattutto quando ci si rende conto che siamo probabilmente in presenza di un cambiamento di scenario anche per via delle scosse di assestamento di un terremoto non ancora cessato, quello che aveva portato al tracollo del sistema delle repubbliche socialiste sovietiche.
Che sul piano generale la reazione alla minaccia di essere schiacciati militarmente agisca da fattore di aggregazione nella storia moderna, ce lo dimostra per prima la nascita dell’America che solo impugnando le armi guadagnò l’indipendenza dalla Gran Bretagna. E fu solo alla conclusione del conato rivoluzionario che, tra gli allora tredici Stati indipendenti nordamericani (che fino ad allora pensavano di costituirsi autonomamente come gli omologhi del Vecchio Continente), prevalse la determinazione di dare vita a una confederazione, appunto di Stati Uniti d’America che, grazie anche all’apporto dei migranti europei, si impose rapidamente al mondo come gigante economico e, poi dietro la pressione degli eventi, dal 1916, pure come potenza militare.
Sulla sponda opposta dell’Atlantico si trovava così una formazione statale che appariva qualcosa di più della tradizionale “nazione” che, sia pure con dimensioni lillipuziane in paragone a quelle che oggi cercano di egemonizzare l’orbe terraqueo, si era formata in Europa sulla base dell’omogeneità territoriale, identità etniche, religiose e culturali, certezza dei confini, il governo della legge e non più quello attraverso la legge, ecc. ecc. In possesso, quindi, di un patrimonio ideologico oggi emblematicamente e quasi del tutto trasferito, almeno in Europa, ai movimenti politici nazionalisti e che spiega perché, come scriveva Engels a Marx citando Hegel, quando le costruzioni storiche si ripetono nella storia una seconda volta assumono il carattere di farsa. E così sia pure passando per assestamenti magmatici, come la guerra civile del 1865 e la grande Depressione degli Anni Trenta del Novecento, il nuovo Stato americano inaugurava quell’era delle superpotenze che oggi sembra caratterizzare la geografia politica mondiale. A questa vanno appena a rimorchio le gloriose nazioni europee, dibattute se continuare a chiudersi orgogliosamente nello splendido isolamento contemplando il proprio glorioso passato o cedere qualcosa di proprio all’Unione europea per costruire una realtà politica più solida e omogenea, senza ricorrere al sistema otto/novecentesco delle “alleanze”, non più confacenti a uno scenario universale profondamente cambiato.
La variabile (impazzita) russa
L’assetto politico e strategico che ne è derivato unendo le due sponde dell’Atlantico, dove in maggioranza risiede una popolazione etnicamente omogenea, è quello che ha consentito di disinnescare la minaccia che apparentemente proveniva dal vero nemico del liberismo economico e politico occidentale, ossia la Russia, nel frattempo divenuta faro e motore di quel collettivismo economico e spinta rivoluzionaria socialista internazionale auspicata e pronosticata meno di un secolo prima da Carlo Marx. Per di più si aveva a che fare con un Paese che, comunque, ha sempre cercato di dire la sua in Europa, forte anche di un’esperienza che contro i suoi gelidi inverni aveva visto infrangersi l’aggressività delle altre nazioni europee, a partire dalla coalizione guidata da Napoleone e, per finire, con quella messa in piedi da Hitler con le potenze dell’Asse. Ma come capitò anche in quei precedenti storici in cui le sorti dei popoli si intrecciavano strettamente con quelle delle forti e rigide personalità che li governavano (già l’Imperatore francese quando decise di invadere la Russia lo fece contro i pareri più assennati), oggi la Russia, retta da un dittatore cui l’orologio biologico ormai non concede più il tempo di vedere i risultati di politiche ambiziose per cui preferisce grandi disegni che lo consegnino direttamente all’eternità, cerca di far giocare al suo Paese l’improbabile ruolo di terzo player nella competizione mondiale, accanto all’America e alla Cina, in una sorta di Yalta rivisitata.
Ciò non farebbe che confermare, come sostengono alcuni osservatori, che da parte dei russi vi potrebbe essere solo un generico risentimento nei confronti dell’Occidente – Europa e America – accentuato dalla frustrazione nostalgica di un funzionario di stato (ex Kgb) che si vorrebbe accollare la missione di recuperare il ruolo storico del suo Paese che un tempo era il primo antagonista del mondo occidentale e oggi si ritrova in seconda fila, fortemente ridimensionato (espulso dal G7, considerato “potenza militare regionale” dal presidente Usa Clinton, costretto a stare attaccato alle mammelle della Cina, un Paese del terzo mondo cui un tempo dava solo delle direttive, e nondimeno ridotto ad abbaiare rabbiosamente ai confini dai suoi ex domini per via delle recinzioni che questi gli stanno costruendo addosso). Nel caso della Russia sicuramente non è estranea la lunga tradizione di amore e odio nei confronti del resto del Continente europeo, fatta di risentimento, ammirazione e desiderio di rivalsa per un mondo che l’ha sempre considerata socialmente e culturalmente periferica, nonostante il successo in esso vi avessero avuto i vari Tolstoj, Puskin, Dostoevsckij, Tchaikovsky, Stravinskij e Kandiskij (fagocitati e nobilitati dalla cultura e dalla società europea).
C’è stata, infatti, un’epoca in cui l’Europa costituiva per la Russia il più grande polo di attrazione, se non l’unico, soprattutto a partire dal Settecento in cui nobili, artisti, musicisti e letterati provenienti dalle fredde città dell’est si riversarono nelle corti e nei salotti culturali europei movimentando la vita di Parigi, Berlino, Londra e Vienna, iscrivendo i propri figli nei collegi svizzeri e inglesi, parlando correntemente francese e inglese, come dopo la caduta del Muro intellettuali e ricchi oligarchi dell’ex impero sovietico piuttosto che guardare all’Oriente che non potevano non vedere in crescita preferivano sciamare nei resort alpini e nelle spiagge del Vecchio continente, presenziando agli eventi culturali, insegnando nelle università, scrivendo nei giornali occidentali, acquistando imprese, squadre di calcio e depositando le loro ricchezze nelle banche svizzere. La fine dell’Unione Sovietica sembrava avere recuperato tutti i tradizionali rapporti e, addirittura, sotto Gorbaciov, consentito di fissare una tempistica per l’ingresso della nuova Russia nell’Unione Europea e l’adesione alla Nato. Linea che gli statisti europei, da Mitterrand a Merkel, si erano illusi avrebbe potuto avere continuità con la successiva dirigenza del Cremlino, chiunque ci fosse stato, quando la strada si è trovata nuovamente sbarrata, come abbiamo detto, dal riemergere di quei complessi di inferiorità nei confronti dell’Ovest incarnati da un uomo, appunto Wladimir Putin che, partendo da una lettura molto personale della storia del mondo e sulla base di una minaccia che esiste solo nella sua mente (come forse quella dell’invasione della Russia in quella di alcuni politici europei), ha cercato di recuperare una tradizione inaugurata dalla zarina Elisabetta nella metà del Settecento [2] e da Pietro il Grande, il quale ultimo riteneva, che un popolo esaurito moralmente e fisicamente come reputava fosse quello europeo potesse essere rigenerato solo con l’immissione di fresche forze russe.
Da qui l’emergere oggi di una Russia capace di mettere sotto pressione non solo le ex repubbliche un tempo sotto il tallone sovietico e oggi aderenti all’UE, ossia i Paesi più direttamente segnati (basterebbe visitare i musei dell’ex Kgb e le carceri governative di città come Tallin e Riga per capire, come alla stregua dei campi di sterminio nazisti, si giustifichino questi timori e certe tragedie scavino solchi difficilmente colmabili nel cuore e nella coscienza della gente), ma anche altri territori che pur ambendovi ancora non fanno parte dell’Unione Europea. Chi lo dice, sostengono i governanti dei Paesi minacciati, che se riuscirà il colpaccio in Ucraina Putin non tenterà una mossa analoga con la Lettonia, la Finlandia, la Romania, la Moldavia, ecc., rinnovando i fasti di un sistema egemonico troppo affrettatamente e prematuramente archiviato per uno che ispira la propria condotta politica solo al concetto di potenza e, bene che vada, alla riparazione di un torto storico? E, da qui, non trovando nella sua avanzata catene montuose in grado di fermarlo e indurlo a fissare dei confini, passo dopo passo procederà a dilagare nelle pianure del centro Europa? D’altronde la storia dimostra che la cosa, nonostante le remore degli alleati occidentali, riuscì a Stalin fino a Berlino e, ancora prima, allo Zar Alessandro quando ricacciando Napoleone dal suo Paese fermò il suo inseguimento a Parigi, che solo per l’amore della cultura e della civiltà occidentale alle cui fonti si era sempre abbeverato, come diceva Chateaubriand, non decretò alla capitale della Francia quella fine che il corso aveva riservato a Mosca.
In questi costanti corsi e ricorsi storici, oggi l’Europa contemporanea sembra ricompattarsi davanti alle potenziali minacce dell’est, e al disimpegno che proviene dell’ovest, anche con chi non fa parte dell’Unione (come la Norvegia e la Svizzera) o ne è da poco uscito, come la Gran Bretagna. Sicuramente è irrealistico pensare che, al pari dello Zar Alessandro, Putin riesca spingersi fino a Parigi, ma non lo è temere che voglia riacquisire i territori un tempo appartenenti all’URSS con la tecnica del fait accomplie e, in tutti i casi, mettere sotto pressione tutta la costruzione europea per le ragioni che abbiamo esposto. Da qui gli sforzi e le politiche di netta contrapposizione da parte se non dell’Unione quanto meno dal Blocco Europeo alla Confederazione russa che al momento appaiono quasi necessitati. Per queste ragioni molti statisti europei (e, prima di Trump, e secondo costui colpevolmente, tutta l’amministrazione americana) ritengono che abbia rappresentato e rappresenti tuttora un lungimirante investimento politico spendere subito quanto occorre per tenere impantanata la Russia in Ucraina giacché ciò, al netto della sofferenza delle rispettive popolazioni, potrebbe impedire ai russi di spostare uomini e mezzi su altri scenari di guerra (un risultato lo si è già visto in Siria), consentendo alcuni anni di respiro all’Unione Europea per riarmarsi e creare una deterrenza più efficace di quella garantita dalla Nato, almeno fintanto che dalla Casa Bianca non sloggerà l’attuale inquilino. Qualche risultato lo si è già ottenuto nella misura in cui nel Paese ex sovietico sta emergendo la più collaudata macchina bellica del Vecchio Continente accanto a una fiorente industria militare (compartecipata da altri Paesi dell’Unione) che rifornisce oggi al 30% le forze ucraine e su cui in un futuro non troppo lontano si potrebbe innestare la tanto ambita forza militare europea, cosa che il Cremlino capisce e sa che non può evitare anche se qualche vago accordo (di quelli che, appunto, ama fare Putin) un domani strumentalmente stabilisse che l’Ucraina non può far parte della Nato e non deve entrare nemmeno nell’Unione.
Certamente l’allarme Russia ha contribuito a creare una nuova solidarietà europea in materia di difesa intorno alle due potenze nucleari già esistenti nel Continente, Francia e Gran Bretagna. Per giunta il timore che non si verifichino le catastrofi già viste in Giappone spinge al riarmo chi si ritrova a vivere in un territorio eccessivamente esposto come la Polonia (stanca di continuare a subire la maledizione storica di Stato cuscinetto, da cui sono venuti tutti suoi guai) e la Germania che, con ben 500 miliardi di Euro, si appresta a rinnovare una tradizione bellica che l’ha vista dominare lo scenario europeo dal 1870 in poi e che oggi, dopo un’espiazione durata ottant’anni, si dice pronta a rinverdire una cultura militare non meno radicata nella sua storia di quella più recente social democratico cristiano verde pacifista e pro immigrazione. E poiché anche sotto questo profilo si è innescato un notevole dibattito in Europa, tra pacifisti e guerrafondai, è opportuno aggiungere qualche altra riflessione.
Fare i conti con una nuova cultura politica
Girando lo sguardo nel panorama politico europeo, e in quello italiano, bisogna dire che è difficile scorgere tracce di onestà intellettuale in questo tipo di dibattito quando le posizioni paiono viziate in partenza dall’intento di ammiccare a qualche parte dello schieramento, sia esso rappresentato da un leader russo o americano o da entrambi, anche perché più di tutto i discorsi che ne conseguono hanno l’aria di apparire strumentali, interessati come sembrano più che altro a raccogliere un po’ di consenso elettorale lucrando sulla paura della gente. Voglio dire che chi governa gli Stati moderni non può comportarsi come si faceva con quelli più antichi, ossia limitarsi a difendere o allargare i confini, a combattere le epidemie e a costruire ricchezze personali (spudorato Putin quando usa le risorse del Paese quasi tutte per condurre la sua personale guerra, ma vicinissimo anche Trump quando brinda con la sua cerchia ristretta di miliardari per gli ingenti guadagni ottenuti dall’altalena delle borse da lui provocate). Lo statista moderno, dall’epoca della fondazione dello Stato che si occupa di tutto (addirittura dalla culla alla bara col socialismo), ha l’obbligo di farsi carico di tutti i problemi del suo Paese e, soprattutto, di quelli più gravi, che possono riguardare la propria difesa, anche a fronte di pericoli solo potenziali: si pensi quanti Paesi nell’ultima conflagrazione mondiale hanno pagato per aver sottovalutato l’aggressività del vicino. Perciò reputo che non agisca da vero statista il politico che, in vista di qualche vantaggio, afferma che si deve andare contro un’opinione e un contesto, come è in questo caso quello europeo, in cui è necessario spendere per il riarmo contrapponendo a questo bisogni più profondi della società, come potrebbero essere qualche aumento di salario o un miglioramento dei servizi sanitari. Certamente dal punto di vista dell’uomo della strada, o del predicatore religioso o del filosofo puro l’investimento per la pace e il benessere collettivo è sempre preferibile, ma dal punto di vista dell’uomo di stato la questione si presenta più complessa e le soluzioni più complicate. Infatti, la difesa è precondizione anche per il mantenimento delle conquiste sociali perché, come vediamo accadere oggi anche nei conflitti a noi più vicini, le poche conquiste sociali, economiche e sanitarie ottenute possono essere sepolte sotto le bombe.
Tornando alla costruzione europea probabilmente dobbiamo riconoscere che è finita l’età dell’innocenza, per cui porgere evangelicamente l’altra guancia non sempre costituisce la strategia migliore. A prima vista questa linea di comportamento non sembra abbia premiato alcun Paese, più di tutti l’Ucraina che quando volle consegnare l’arsenale nucleare alla Russia e decidere di disarmarsi per vivere più pacificamente e, poi, fidarsi delle promesse di non ingerenza del capo del Cremlino facendosi portare via la Crimea, ha fatto la fine che tutti abbiamo sotto gli occhi. Ha ragione di certo chi sostiene che, nella storia, la corsa agli armamenti ha sempre generato politiche di potenza generalmente sfociate in guerre. Gli apparati militari, da Sparta a Roma, dalla Francia napoleonica all’Inghilterra imperiale e alla Germania nazista (e con essi oggi anche tanti Paesi dell’attuale sud del mondo che cedono il potere ai concittadini con le stellette), in quanto detentori di un potere così determinante come quello della forza hanno sempre avuto la tentazione di esercitarlo nella politica interna e, quando era possibile, anche internazionale (non a caso si dice che la guerra altro non sia che un mezzo per continuare la politica). Così pure gli uomini politici più ambiziosi e desiderosi di consegnarsi alla storia non ci sono riusciti limitandosi ad assicurare pace e benessere ai loro popoli, ma solo quando hanno pianificato e condotto guerre (a Cesare non sarebbe bastato fondare l’Impero per passare alla storia senza le guerre contro Pompeo e il De bello gallico; lo stesso si può dire per Napoleone che, sebbene autore di riforme importantissime per lo Stato francese, come le Code civil e la pubblica amministrazione, è ricordato per lo più per le sue qualità di condottiero).
Tuttavia, è anche vero che modernamente, se vogliamo anche grazie a una maggiore laicità dei governanti, la corsa agli armamenti ha funzionato a pieno regime fino all’ultima guerra mondiale, giacché quella che si è innescata successivamente tra le due superpotenze mondiali, Usa e URSS, è stato solo un espediente per mettere in ginocchio l’avversario costringendolo a una maratona in cui poteva arrivare al traguardo solo con la lingua mezzo metro fuori. Non possiamo nasconderci che questo potrebbe essere oggi l’obiettivo di chi in Occidente non crede nella pace duratura tra i due contendenti, il russo e l’ucraino, laddove chi conta di rinnovare i fasti di Pietro il Grande può contare appena su un Pil equivalente al piccolo Belgio e non può spendere in armamenti quanto e per più tempo della ricca Unione Europea.
Le guerre si sa, da quando nel Cinquecento Guicciardini ci racconta che gli eserciti levavano gli assedi alle città quando non arrivava il soldo per le truppe e come ci insegna Gregorovius che i Lanzichenecchi si accanirono sulle ricchezze di Roma perché chi li aveva chiamati non aveva mantenuto le promesse di compensarli, sono vinte dai più ricchi e non dai più poveri: quando gli Stati Uniti furono chiamati a intervenire nella Seconda Guerra Mondiale a favore degli alleati europei esitarono e lo fecero in ritardo perché dietro avevano un Paese praticamente disarmato a fronte della poderosa macchina bellica tedesca e fu solo grazie al vigoroso sistema industriale, immediatamente riconvertito a questo scopo, che riuscirono a creare la potenza militare che ne è seguita. Questa visione probabilmente è ben chiara agli statisti europei (e a qualcuno oltre Atlantico). In fondo la guerra in Ucraina è una guerra per procura e ad esaurimento, brutto a dirsi, in cui i ricchi mettono le armi e le vittime le usano, fino al punto in cui uno non ce la farà più e chiederà di smettere. Egualmente il ricorso al nucleare convenzionalmente è destinato ad agire più da deterrente che da minaccia reale, direttamente o indirettamente garantito dalle maggiori potenze, ieri Usa e URSS, oggi Usa e Cina (la quale ultima non gradirebbe affatto che il suo più ricco mercato, quello europeo, sia danneggiato da un paese, la Russia, che non gli da alcuna convenienza economica rappresentando solo un costo e un imbarazzo). A parte che non pare tecnicamente scontato che armamenti mai provati da decenni riescano ad abbandonare gli alloggiamenti senza fare danni a chi li adopera (dicono gli esperti che, per esempio, potrebbe provocare problemi l’utilizzo di propulsori invecchiati e mai controllati); e così pure è certo che tutti sono consapevoli che un conflitto nucleare oggi si risolverebbe in una catastrofe non solo per chi lo subisce ma anche per chi la provoca. Quindi a meno che Putin, da cultore della storia, recitando Puskin, non voglia imitare Nerone che guarda Roma bruciare suonando la lira o qualcosa di analogo voglia fare Trump giocando a golf: se amano la vita all’aria aperta (indispensabile peraltro per il golf) probabilmente troveranno abbastanza scomodo, sia pure al massimo del delirio del cupio dissolvi, rifugiarsi per il resto della loro esistenza, come topi, in qualche sotterraneo blindato con familiari e amici scioccamente soddisfatti per avere contribuito a distruggere definitivamente il mondo con le radiazioni atomiche, dopo averlo compromesso con l’inquinamento atmosferico, o così ingenui da credere che Musk li condurrà sani e salvi su Marte.
Per tornare al caso in esame, la Russia sarebbe scoraggiata a fare questo passo per primi dai suoi alleati come la Cina e l’India. Molti capi di stato europei non sono contrari al cosiddetto “Riarmo” non solo perché gli americani si sono stancati di prestarsi a difendere l’Europa, ma anche perché sono stati convinti dagli studi economici che in generale e in parallelo agli investimenti nella spesa militare crescono anche i settori civili, come lo sviluppo e la ricerca, al contrario di quanto accade quando questo genere di ricorso è totalmente assente. In conclusione, possiamo dire che non mancano le buone ragioni a chi intende procedere a fare investimenti in materia di difesa in Europa, posto che alcuni Paesi, come quelli nordici e mitteleuropei, grazie anche a bilanci in ordine mentre fanno questo si possono permettere di mantenere gli stessi livelli di welfare, cosa più difficile nei Paesi mediterranei.
Le turbolenze nella nuova costruzione europea
La costruzione europea oggi più di prima sembra condizionata, da un lato, dal culto della personalità, che si va imponendo sempre più nel mondo come ricetta politica, un po’ meno all’interno e più all’esterno e, dall’altro, dalla geopolitica, o, per meglio dire, alla fine dall’incontro di questi due fattori. Perciò, come si è visto, se da est la pressione a unirsi viene all’Europa da una Russia a prescindere o meno che questa possa utilizzare il proprio arsenale militare che per ora si limita a mettere sulla bilancia nella speranza di ridimensionare e condizionare l’Unione (impaurendone l’opinione pubblica), a ovest preme un’America interessata a rivedere, almeno per il tempo che l’attuale presidente si tratterrà alla Casa Bianca, non a caso simpatetico con l’omologo russo, la tradizionale alleanza occidentale che da ottant’anni, e anche più se prendiamo considerazione tutto il Novecento, gratuitamente viene offerta. Tutto ciò costringe gli europei molto più di prima a ragionare in termini di unità e di convergenza degli sforzi e degli obiettivi in un quadro geopolitico che si sta configurando in modo diverso da quando l’attuale amministrazione americana ha espresso l’intenzione di spezzare il cordone ombelicale con la terra di origine della massa di emigranti europei che si era trasferita nel Nuovo Mondo.
E non si tratterebbe solo di una moderna rivisitazione del vecchio isolazionismo americano, ma anche dell’apparire sulla scena politica di personalità autocratiche unite nella pretesa di fare in modo che nelle decisioni riguardanti il pianeta, accanto alla personalità del leader, conti solo il peso specifico militare, geografico, demografico ed economico. Molti commentatori tendono a spiegare la metamorfosi che si è venuta a creare nella superpotenza americana, come conseguenza inevitabile del prevalere delle moderne ”democrature”, nuovo tipo di autocrazie funzionali, supportate anche dall’Intelligenza Artificiale che non a caso i nuovi leader esaltano e sostengono economicamente e politicamente come soluzioni gestionali del potere. Sulla base di questa visione dovrebbe sorgere un nuovo ordine mondiale che mescola il nuovo, dato dall’AI (Artificial Intelligence), la manipolazione dei media (Fake News, Half Truths) con le tradizionali tecniche di gestione del potere dal romano divide et impera al bismarchiano Pacta servanda non sunt, con protagonisti gli Influencer, in veste di coloro che orientano il consenso, e i Follower chi senza recarsi in una cabina elettorale in luogo del voto esprime sullo smartphone il proprio like, tutte novità al cui confronto le opinioni e i soggetti che stanno alla base delle tradizionali democrazie appaiono solo come un vecchio arnese di governo. Prima vittima di tutto ciò dovrebbe essere un’Europa tutta da sbriciolare, sede di antichi e gloriosi piccoli Stati nazionali tanto gelosi della loro individualità e con troppa storia alle spalle per unirsi politicamente e, pertanto, inadatti a dispiegare una politica di potenza all’altezza dei tempi moderni. Il disegno sarebbe quindi di ridurre il Vecchio Continente, abitato da ricchi e gaudenti “scrocconi” e “parassiti”, a puro mercatino rionale del pianeta tanto più che nella sua storia ondeggia tra chi vuole entrare e chi vuole uscire rendendosi così meno cedibile. Visione del mondo questa che oggi trova il principale corifeo nel Presidente Trump/Figaro (“Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono…Uno alla volta, per carità”) che propone anche approcci fisici che tempo addietro riservava alle sue conquiste femminili e che i soliti giudici “democratici” avevano avuto il coraggio di reputare illegali.
Per non ridurre tutto a impulso e pettegolezzo dobbiamo, comunque, renderci conto che dietro tutto ciò probabilmente vi sono anche ragioni ideologiche e di sostanza, come per esempio la certezza che stiamo vivendo la fine della democrazia, che non a caso fa rima con quella che come un tarlo sarebbe intenta a mangiarsela tutti i giorni, ossia la burocrazia (si tratta quest’ultima del principale ostacolo da rimuovere attraverso il DOGE in un’America MAGA). Una democrazia, sistema ormai logoro e sorpassato, da rimpiazzare con un governo degli illuministi dark cui dovranno umilmente sottostare i governati se vogliono trarne vantaggio, come ai tempi delle monarchie assolute ma con la differenza che i governanti e i sudditi di allora, non essendo assistiti dall’intelligenza artificiale, potevano contare su quella divina. Così in epoca moderna si imporrà una versione laica del principio medievale del Cuius Regio Eius Religio. E allora i nuovi ideologi del potere che grossolanamente sostengono e giustificano l’avvento del messia trumpiano e, più in generale, i fondamenti dei nuovi assetti statali che si basano sulla forza dei governanti, convinti di avere scoperto delle cose nuove nell’era delle esplorazioni spaziali, in realtà stanno solo armeggiando e riadattando vecchie ideologie. In questo quadro il destino dell’Europa sarebbe passare da vittima sacrificale di questi processi e da luogo dove si consumano i residui fasti delle democrazie progressiste, supremo segnale di quella “Fine della Storia” pronosticata dal politologo americano Francis Fukuyama, a luogo in cui sentimenti politici di antica data e nuove istanze della modernità, progresso e futuro dei popoli possono saldarsi tutti insieme e trovare realizzazione con un semplice click (cessazione della Guerra in Ucraina in 24 ore, introito di duemila miliardi di dollari al giorno con i dazi trumpiani per colmare il deficit americano e così via con le bacchette magiche del novello Figaro).
Molti ritengono che sia arrivato finalmente il tramonto dell’Occidente, decretato da Otto Spengler poco più di un secolo fa. Ma non pochi pensano ancora che far sopravvivere il cosiddetto Patto Atlantico è sicuramente un destino del mondo bagnato dalle due sponde. Già avvertiva da Londra, nel 1774, Arthur Lee, un diplomatico americano che aveva studiato in Inghilterra e aveva negoziato l’appoggio della Francia ai coloni: «Le grandi fondamenta della libertà sono uguali su entrambe le sponde dell’Atlantico e non possono essere sovvertite da una parte senza scuoterle anche dall’altra» [3]. La domanda che si pongono in molti oggi (e se ne preoccupano per contro altri) è se il procedere in questa direzione, dopo aver favorito il partito democratico americano che al momento “si finge morto” per tornare vivo e vegeto nelle prossime elezioni di Mid Term, non finisca per favorire i partiti progressisti in Europa anche perché di questo passo caleranno le azioni dei movimenti politici nazionalisti e isolazionisti, tendenzialmente propensi a sentire il fascino degli uomini forti, dentro e fuori del vecchio Continente. Infatti, una volta che l’elettorato si renderà conto che queste tendenze vanno contro gli interessi delle classi medie e di quelle subalterne che oggi forniscono il maggiore consenso alle formazioni estreme, verosimilmente si assisterà a un trasferimento di voti nei confronti dei partiti che tradizionalmente si battevano per i più deboli (un recente sondaggio dava il gradimento per il presidente Trump al 6% tra i francesi e all’8% tra gli italiani, laddove le due leader nazionaliste e conservatrici, Le Pen e Meloni, presentano ben altri numeri, ma che potrebbero essere messe in discussione dal proprio elettorato sorpreso della piega presi dagli eventi) [4].
Quindi, vediamo che cosa ci dice a questo proposito l’ultimo rilevamento dell’Eurobarometro circa il sentimento dei cittadini europei nel 2025. Il 66% vuole che l’Europa assuma un ruolo più deciso nella protezione dei suoi cittadini dalle crisi globali e dai rischi legati alla sicurezza, il 74% ritiene che il proprio Paese abbia beneficiato dell’appartenenza alla UE (in Italia il 67%, comunque un +4 rispetto alla rilevazione del 2024). L’89% reputa che gli Stati membri debbano agire più uniti nell’affrontare le sfide globali e che l’UE abbia bisogno di maggiori risorse finanziarie per fare fronte a questi compiti. Riguardo alle preoccupazioni principali dei cittadini europei in testa sembra esserci l’inflazione, il caro vita e la creazione di un mercato del lavoro. Viceversa, volendo misurare i valori da tutelare al 45% c’è la pace, al 32% la democrazia, al 22% i diritti umani sia nella UE sia nel resto del mondo. Infine, uno sguardo alle istituzioni europee ci dice che il 50% dei cittadini nutre un’opinione positiva al riguardo e un 41% si esprime analogamente per il Parlamento europeo, con un 62% che auspica per esso un ruolo ancora più importante di quello rivestito attualmente. Quindi, come si vede, gli atteggiamenti critici ed estremisti che nei confronti delle istituzioni europee si manifestano anche in Italia lasciano nel più ampio contesto continentale solo il tempo che trovano. In essa, infatti, sembra prevalere più che la visione a corto termine di chi teme per la bolletta del gas quella di chi opta per una realtà più unita e più forte politicamente e complessivamente allineata con la direzione politica dell’Unione.
L’Europa non è un gigante con i piedi di argilla
Il punto più basso della crisi euroatlantica è l’atteggiamento sferzante e ingiusto dell’amministrazione Trump che accusa l’Europa di aver rovinato gli States sfruttando, sembrerebbe, la dabbenaggine americana nel commercio, e da qui la necessità di imporre dazi severi alle esportazioni europee. Quanto di ciò è vero? Proprio un articolo del “Corriere della Sera”, con dati elaborati dalla Banca Mondiale e dall’Ocse, sostiene che se c’è un Paese che negli ultimi decenni si è arricchito grazie al libero mercato sono proprio gli Usa e non l’Europa. Per cui se «nel 2008 il Pil dell’eurozona era pari a quello americano con 14.000 miliardi di dollari, quindici anni dopo, nel 2023, il Pil americano è balzato a quota 27.000 miliardi di dollari, quasi il doppio di quello dell’Eurozona, rimasto inchiodato a 15.000 miliardi […] Nel 2023 la forbice si è ulteriormente allargata su un altro fronte: lo stipendio medio Usa ha toccato quote di 80.000 dollari, quello dell’Ocse è salito a un ritmo molto più lento, attestandosi a 58.000 dollari» [5].
Tuttavia, il Vecchio Continente con i suoi circa 500 milioni di abitanti rappresenta ancora il più grande mercato del mondo, a fronte dei 350 milioni di statunitensi e del fatto che nel più popoloso territorio cinese su un miliardo e 400 milioni di abitanti solo questi ultimi hanno lo stesso potere di acquisto degli abitanti del mondo occidentale. Lo dimostra l’interscambio in cui l’Europa, includendo anche la Gran Bretagna, la Svizzera e la Norvegia, raggiunge i 245 miliardi di dollari a fronte del 290 americani. Quindi tanto vicini da non far ritenere che una guerra commerciale possa risolversi a vantaggio di uno e a svantaggio dell’altro: ciò giustifica l’opinione prevalente nel mondo degli economisti che le tariffe o le altre restrizioni alle importazioni faranno male ai consumatori europei non meno che agli importatori americani. Prendiamo i servizi: se è vero che nel commercio dei beni l’Europa ha registrato, per es. nel 2024, un surplus di 200 miliardi di dollari rispetto agli Usa, questi ultimi esportano verso l’Europa servizi per circa 100 miliardi di dollari che non trovano un corrispettivo da parte europea, da cui la scarsa convenienza della prima a stimolare gabelle in questo interscambio.
Ecco perché non bisogna impaurirsi e provare sensi di inferiorità nei confronti del gigante americano. Altri problemi potrebbero insorgere in prospettiva per i colossi yankee del Web, come Google, Apple, Instagram, Amazon, ecc., a tacere di Tesla, tutte neoconvertite alle politiche trumpiane che, come si sa, nel Vecchio Continente hanno trovato autentici paradisi fiscali, ma che potrebbero diventare un inferno qualora la Commissione applicasse a esse gli enormi poteri regolatori che possiede riguardo a queste attività (il cosiddetto bazooka). Dopodiché, ci spiega l’Economist [6], potrebbero scattare contro le imprese finanziarie americane gli strumenti di regolazione di cui si sono dotate le istituzioni europee come il sistema del pagamento globale detto SWIFT, che ha la base in Belgio e che ogni anno trasmette 80 miliardi di messaggi a 11.000 istituzioni finanziarie nel mondo e sulle quali i poteri regolatori europei possiedono quindi una notevole influenza capaci, se vogliono, di mettere in ginocchio anche il sistema americano (abbiamo visto come la sanzione consistente nell’esclusione dal SWIFT della Russia abbia creato una marea di problemi alla sua economia, fino al punto che perfino le banche cinesi si rifiutavano di fare affari con le corrispettive russe). Analoghi problemi potrebbero avere sul territorio europeo le carte di credito americane, come VISA e MasterCard, che oggi dominano le transazioni ma sono anche sotto inchiesta sia da parte dell’UE sia della Gran Bretagna per posizioni di dominanza.
Alla fine dei conti una battaglia di questo tipo, pur non facendo bene all’Europa, è opinione degli esperti, farebbe peggio agli USA che avrebbero più da perdere che da guadagnare. Infatti, nel pacchetto dei beni che gli Usa possono importare dall’Europa vi sono alcuni elementi essenziali per fare funzionare l’Intelligenza artificiale e le nuove tecnologie che sono prodotti solo in specifici Paesi europei, come l’Olanda e la Danimarca, e di cui gli americani non possono fare a meno. L’Europa, poi, rappresenta per l’America uno snodo fondamentale per il traffico delle merci a livello di servizi con una serie di hub fatti di traider, porti, infrastrutture, magazzini, assicurazioni e banking con paesi, come la Svizzera (che conta, dice l’Economist [7], circa 900 aziende che si occupano dell’assistenza al commercio, es. Glencore, Vitol, Mercuria, ecc.) ed egualmente la Grecia che possiede il 30% dei container al mondo che trasportano petrolio, ma nel settore la più grande bulk-shipping al mondo è la tedesca Oldendorff (si tratterebbe quest’ultimo di un campo in cui, anche se il primato è detenuto dai Paesi asiatici, gli americani rispetto ai Paesi europei possiedono pressoché nulla, vedi grafico). Eguale subordinazione si ha rispetto agli europei e agli inglesi in ambito assicurativo e dell’assistenza bancaria. Se tutto questo e altro, come per esempio l’appoggio di basi militari in Europa per le operazioni di intelligence, mancati acquisti di armamenti made in Usa, ecc., fosse tradotto dagli europei in termini di costi, dazi, permessi, affitti, ecc., sarebbe difficile stabilire chi ci va a rimettere di più in una guerra commerciale, tenendo conto che oltretutto anche per l’Europa non sarebbe facile, come pretenderebbero alcuni, trovare altri sbocchi commerciali in Asia, Africa e America centrale e meridionale, posto che si tratta di economie, in testa quella cinese, che non presentano consumi interni favorevoli alle importazioni di merci, ma quasi tutte operano in funzione dell’esportazioni nei più ricchi mercati occidentali. Qualcuno in Italia ha argutamente avvisato che i cinesi, per quanto dichiarino di essere pronti a legarsi commercialmente col nostro Paese, non sono grandi consumatori di parmigiano e prosecco!
In conclusione, occorre che in Europa ci chiariamo un po’ di più le idee. Intanto incominciando a ragionare in termini non solo di economia e di mercati globali, ma abbracciando, come ho premesso, tutto il fascio dei problemi che segnano la realtà continentale. Segnatamente anche quello militare su cui occorre essere realisti e non chiudersi a priori perché, oltre ad aver fatto sempre la storia dei popoli, la cosiddetta difesa è divenuta imprescindibile al momento presente. Le belle anime che invocano la “pace”, facendo implicitamente credere che solo un bruto o un idiota è quello che non scende in piazza a rivendicarla, spesso perdono di vista la complessità dei problemi. Ho già detto che essere statista ed essere predicatore e filosofo sono cose distinte: la stessa Chiesa quando si poneva in termini di Stato e di potenza politica (nella più gran parte dei secoli della sua storia bimillenaria e soprattutto sotto il il Sacro Romano Impero) non stava a sentire troppo Francesco o Bernardo di Chiaravalle, non aborrendo il ricorso alle armi, anzi utilizzando queste per sedare rivolte, conquistare porzioni di territorio, convertire popoli, ricondurre a obbedienza infedeli, eretici e scomunicati.
Ho già chiarito nel precedente numero a proposito dei limiti delle politiche dell’attuale presidenza americana, soprattutto in materia di deportazioni degli immigrati irregolari, che occorre distinguere alcuni problemi reali dai comportamenti impulsivi e irrazionali che caratterizzano l’attuale presidenza dalle ragioni serie che spesso li sottendono (non a caso le Fake News si costruiscono sulla base di mezze verità). Per esempio, non comprendere ormai l’insostenibilità del debito pubblico americano per quel Paese e l’esigenza di ridurlo in tempi brevi tagliando anche tutto ciò che noblesse oblige e, poi, anche il cosiddetto Deep State, ossia lo stato profondo, che in tutte le democrazie moderne sta costituendo fonte di preoccupazione, è un qualcosa che deve far pensare, come lo sta facendo anche in Europa e nel resto del mondo; così pure non bisogna allarmarsi se il poliziotto del mondo decide di limitarsi a fare il poliziotto di quartiere. Sia basandosi sull’età dell’attentatore, sia per la capacità di resistenza della democrazia americana basata sui checks and balance, dovrebbe essere abbastanza improbabile che stiamo assistendo a un pericoloso abbordaggio di una curva a U da parte di un autista drogato e ubbriaco.
A qualche osservatore sembra che Trump stia più che altro testando la resistenza del sistema costituzionale e giudiziario degli Usa a certe novità, anche di stile autoritario presentate sotto la veste di efficientismo, soprattutto nel senso di maggiori poteri al Presidente, come avverrebbe in fondo con regolarità ogni ottant’anni nella storia americana. Tutto ciò, poi, si basa fin tanto che dura sulla volatilità dell’elettorato: l’opinione pubblica americana e il corpo elettorale è sempre più spaccato in due con numeri che si equivalgono, per cui basta che il prezzo di un bene popolare, come oggi è capitato alle uova, faccia schizzare in alto l’inflazione che ci sarà sempre quella leggera percentuale di voti fluttuanti dei delusi che sposteranno dall’uno all’altro il consesso dato in precedenza (gli stessi Trump, Vance e Musk, prima di divenire repubblicani sono stati convintamente “democratici”, come lo era la maggior parte dei magnati del Web prima di essere terrorizzati dalla vittoria di questo presidente).
Certo in questo momento viviamo un’era in cui il mondo occidentale si scinde e si contrappone non rinunciando anche a prendersi a male parole. Per ciò che rivelano i documenti di identità è difficile che i leader russi, cinesi e di altri Paesi fondatori del Brics, che non hanno una informata e combattiva base che li controlli e strutture e libertà democratiche tali da assicurare continuità alle loro politiche, possano attuare quelli che alcuni commentatori definiscono assestamenti geografici basati sulla forza bruta. Appare perciò abbastanza improbabile che, per effetto di questi e nella logica del quia sum leo, la Russia si possa mangiare l’Ucraina, la Cina Taiwan, gli Usa, che mostrano avere più appetito di tutti, la Groenlandia, il Canada e Panama insieme, l’Argentina le Malvinas, ecc. Si capisce che in un mondo in cui la potenza cinese attenta e si avvicina economicamente sempre più a quella americana questi ultimi non intendano più spendere per fare i poliziotti del mondo. Per conseguenza ciascun Paese della terra dovrà badare più a sé stesso, agli infelici propri e a quelli vicini, se lo desidera, anche a costo di rinunciare a quella fetta di soft power che hanno sempre esercitato gli States attraverso gli aiuti umanitari e la cooperazione allo sviluppo (queste le motivazioni che hanno quasi portato all’abolizione del USAID). Ma anche l’esercizio dell’egemonia culturale che si basava sulla produzione hollywoodiana dovrà essere rivisto (la Cina fa già campagna perché i propri cittadini non vedano più i film americani). Pazienza! Che ciascuno si faccia pure le proprie pellicole come l’India con Bollywood, vorrà dire che gli americani continueremo a godere da soli al cinema le proprie vittorie contro i pellerossa e in Vietnam.
E gli europei? L’ultima proposta che circola in Occidente (vedi Musk, Meloni e altri) è di creare tra gli europei e i loro ex una potenza economica, politica e militare e uno spazio commerciale a dazi zero che sarebbe il più grande al mondo. Tutto ciò naturalmente dividendosi le spese senza che nessuno faccia il furbo o lo “scroccone” e il “parassita”, come dice la Presidenza americana. In fondo si tratta solo di coltivare affinità e tradizioni posto che europei e americani hanno le stesse radici etniche, parlano in maggioranza le stesse lingue, condividono le stesse fedi religiose, anzi gli americani come cristiani sono più praticanti degli abitanti del territorio europeo dove queste fedi religiose pure si sono sviluppate. Sono imbevuti di cultura europea come si vede non solo dai musei e dai teatri , ma anche dagli edifici istituzionali della politica e della giustizia che si ispirano al neoclassicismo greco e romano, anche nella semantica (abbondano i Campidoglio e i fori) e le università in larga misura costruite sul modello britannico. Tutto, insomma, anche culturalmente unisce le due sponde dell’Atlantico.
Alcune cose certamente sono da ritoccare, direbbe un americano, posto che gli europei rivolgono ingenti risorse per stare meglio mentre gli americani rinunciano a quote di welfare per difendere le frontiere europee in funzione, o in finzione, di una minaccia come quella del Deserto dei tartari. Si potrebbe dire che quando si è toccato questo tasto gli europei hanno fatto un po’ le orecchie da mercante fingendo di non sentire i rimproveri amichevoli, come quelli di Clinton e Obama, di non lasciare tutto il carico economico della difesa agli Usa, cosa che alla lunga sarebbe divenuta insostenibile e impresentabile. Poi c’è stata l’Ucraina dove l’impossibile è diventato possibile. Ma ritirarsi dalla Nato per gli americani, no. Non avrebbero alcun interesse nella misura in cui il territorio europeo costituisce la base di lancio fiduciaria e di proiezione della loro economia nel mondo. L’America ha bisogno di una Europa Unita, magari meno burocratizzata e più vicina ai punti di vista americani e a essa nessun yankee, per motivi sentimentali, culturali, politici ed economici può rinunciare. In definitiva gli ultimi eventi dovrebbero avere insegnato agli europei che i tempi sono cambiati e che la rapidità con cui tutto ciò si è svolto non deve far pensare che i problemi di fondo non esistessero e bastasse nascondere la polvere sotto il tappeto. In un periodo più sereno, che auspichiamo non troppo remoto, sarà pertanto necessario adeguare patti, aggiornare rapporti, condizioni, interventi prima che qualche folle, che non si aspetta più nulla dalla vita se non essere ricordato quando è nella tomba, non pensi di rompere i vetri.
Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
Note
[1] L’ultima inchiesta Gallup sulla classifica internazionale in materia di felicità (condizione generali di vita, giovialità individuale, minori suicidi, ecc.) vede ai primi quindici posti quasi tutti Paesi europei, in testa e nell’ordine Finlandia, Danimarca, Islanda, Svezia, Olanda, Norvegia, Lussemburgo, Svizzera, Belgio e Irlanda) mentre gli Usa stanno al 24°, l’Italia al 40°, l’Argentina al 42°, il Giappone al 55°, la Russia al 66° e la Cina al 68°. Al contrario i Paesi latino americani svettano nella graduatoria parziale dello stare contenti, sorridere e socializzare (un indicatore è, per esempio, che mangiano nove volte la settimana con familiari e amici contro una tendenza all’individualismo nel sedersi a tavola del resto del mondo).
[2] Così testimonia il diplomatico francese Cavaliere D’Eon, infiltrato da Luigi XV nella corte russa in vesti femminili nelle sue Memoires du Chevalier D’Eon, Paris, Editions de Saint- Claire MCMLXVII, Tome Premier: 163 ss., il cui compito era di favorire il disegno russo francese di favorire il passaggio del Regno di Polonia a un uomo di paglia, probabilmente il principe Conti, che in un secondo tempo avrebbe dovuto consegnarlo alla Russia.
[3] Cit. in Jennings, Francis (2000), The Creation of America [ed. it., La creazione dell’America, Einaudi 2003: 104].
[4] Cit. in “The Economist”, Europe’s hard right. Wing women, March 29th 2025.
[5] I nuovi annunci di Trump sui dazi “temporanei in “Corriere della Sera”, lunedì 14 aprile 20.
[6] Cfr. A dangerous divorcée. If it comes to a stand-off. Europe has lots of leverage over America in “The Economist” March 15th 2025.
[7] Ibidem.
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Aldo Aledda, esperto di relazioni internazionali, competenza che ha potuto esercitare in ambiti istituzionali e di studio nei campi specifici della politica sportiva internazionale, la pubblica amministrazione e i movimenti migratori dei popoli. Suoi L’importante è vincere. Lo sport Usa dal Big Game al Big Business (Roma, Società Stampa Sportiva, 2000); Sport. Storia politica e sociale (Roma, Società Stampa Sportiva, 2002); Interna Corporis. Anatomia di una pubblica amministrazione (Roma, Europa Edizioni, 2013); Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Milano, Franco Angeli, 2018); Sardi in Fuga in Italia e dall’Italia (Milano, Franco Angeli, 2022).
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