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Contro l’Abilitazione Scientifica Nazionale (e gli antropologi disciplinarizzati)

5ebac2b2-0785-4d0e-ad66-f5e49e2051cedi Stefano Montes 

Sono stato arrabbiato fino a qualche giorno fa. Lo ammetto. Lo ero. Ero adagiato in questo strano flusso emotivo d’insofferenza. Lo ero e le emozioni le ho prese sul serio: perché fanno parte integrante dell’individuo, in ogni caso, in quanto essere e divenire nel tempo e nell’azione. Le emozioni vanno lasciate sedimentare. Bisogna lasciarle scorrere, osservarle prendendone le distanze a tempo debito. La novità è che, adesso, trascorsa qualche settimana dal ‘fattaccio’, il flusso delle emozioni è cominciato a scemare. Adesso che il flusso è iniziato a riconfigurarsi come traccia del ragionamento da avviare con più calma, ho deciso. Ho deciso di prendere la parola e cercare di rimediare razionalmente – controbattendo, richiamando le mie competenze di antropologo – a quella che, secondo me, è una grossa ingiustizia nel campo delle scienze umane: non potere replicare, ufficialmente, per paura di mettersi contro coloro i quali cercano di definire, da una sola prospettiva e dall’alto, gli oggetti della conoscenza – e la conoscenza stessa – in maniera univoca e stereotipata.

Lo rivendico. Io sono contro. Sono contro il monologismo. Sono contro coloro i quali definiscono una disciplina una volta per tutte, soprattutto sulla base dei poteri acquisiti, sovente incancreniti. Sono contro coloro i quali adottano una – e una sola – declinazione di disciplina, imponendola agli altri. È pur vero che ogni disciplina è sottoposta a un processo di disciplinarizzazione: un processo che tende a uniformare le sue varie istanze diversificanti, innovative e libertarie. È inevitabile! Ma lo è davvero, senza possibilità di contromisure? Come scrive Knauft in un testo importante per la genealogia dell’antropologia: «there will always be an ebb and flow between more centripetal moments, which strive for relatively greater coherence, and more centripetal ones, which expand our horizons in a more diffuse and fragmentary way» (Knauft 1996: 38). Ma non bisogna rassegnarsi e farsene una ragione!

Un buon antropologo deve opporsi ai processi di disciplinarizzazione tesi a mettere avanti norme e costrizioni che intendono trasformare la diversità in disciplina in apparenza – soltanto in apparenza – coerente e ben definita. È l’essenza stessa dell’antropologia quella di essere ‘altra’ e ‘altrove’: aperta all’alterità e alla diversità di pensiero e di azione. Come chiarisce Knauft, nell’epilogo del suo volume, «like culture, cultural anthropology is a conversation» (Knauft 1996: 291). Mi piace pensarla alla maniera di Knauft. Ma se, tuttavia, alla conversazione si sostituisce una prospettiva monologica che impone un solo modo di vedere l’antropologia, allora è necessario ribellarsi. È necessario ribellarsi andando verso mondi plurali, portati dalla brezza dell’alterità che spinge ad adottare ipotesi di continuo decentramento degli stereotipi: se non altro perché gran parte della conoscenza è implicita e la sua esplicitazione rivelatrice è compito essenziale dell’antropologia. «Come arriviamo all’implicito? Studiando le classificazioni attraverso le quali le persone decidono se un’azione è stata compiuta bene o male, se è giusta o sbagliata» (Douglas 1975: vii, mio corsivo). Inoltre, pur ribellandosi, un buon antropologo deve tenere conto, quali che siano i suoi orientamenti, di un dialogismo di fondo, costitutivo dell’essere umano. Un buon antropologo deve prendere, per questa stessa ragione, le distanze da una presunta purezza, individuale o culturale che sia. Come scrive Clifford, nel titolo stesso di uno sei suoi libri, «I frutti puri impazziscono».

Ma andiamo per ordine. Partiamo dai fatti. Cos’è successo in sostanza? Ho presentato domanda per ottenere l’Abilitazione scientifica nazionale e diventare, quindi, professore associato in antropologia. Ero nutrito di grandi speranze, a mio parere non infondate. Ritenevo, sulla base del mio curriculum pluriennale di ricerche, di non avere problemi di sorta e di potere ottenere l’idoneità senza difficoltà. Così non è andata! Esaminata la mia domanda, la commissione giudicatrice ha ritenuto di non dovermi considerare idoneo, bocciando la mia candidatura. Me ne dovrei fare una ragione? Mi dovrei rassegnare a un certo tipo di valutazione, i cui riferimenti sono vaghi e generalizzanti? Dovrei starmene in pace e dimenticare il partito preso? Certo che no! La valutazione deve prevedere il diritto di replica e il dialogo delle parti. Il punto è che non soltanto non condivido i giudizi espressi, ma nemmeno la loro implicita formulazione accentratrice e centralizzata, univoca e superficiale. Non li condivido perché non sono d’accordo sugli assunti epistemologici adottati, per lo più implicitamente e mai veramente rivelati, per valutare le mie pubblicazioni. Qualsiasi valutazione dovrebbe rivelare apertamente i tratti essenziali ai quali si rifà per giudicare. Non è stato così nel mio caso: le valutazioni relative al mio percorso di ricerca e alle mie pubblicazioni non solo sono state superficiali, ma anche prive di qualsiasi riferimento teorico su cui basarsi: in una parola, le valutazioni sono state delle vaghe generalizzazioni in cui si è fatto riferimento all’accademia – e a un inquadramento generale – senza vera e propria esplicitazione di cosa esso significhi concretamente.

7fc41efb-2737-4665-b42e-66f1d34db7efEsiste una sola ‘accademia’? Esiste, in antropologia, un solo inquadramento? O, al contrario, come io credo più propriamente, esistono tante scuole di pensiero, diversi orientamenti teorici, vari posizionamenti individuali? Io ho il diritto di esprimere il mio punto di vista e lo farò adesso e in seguito. Non succede spesso. È necessario dirlo. Non succede che qualcuno si ribelli apertamente all’Abilitazione scientifica nazionale e ai giudizi dei commissari. Gli esaminati che non hanno ricevuto un giudizio favorevole ‘stanno buoni buoni’ solitamente e inghiottono il rospo – non potendosi mettere contro chi, come direbbe Bourdieu, istituisce il rito di passaggio secondo una regola da rispettare vuotamente – perché, ripresentandosi, sperano in futuro di ottenere un giudizio positivo. Essere docili e rimettersi al giudizio dei commissari è spesso una strategia, come dice de Certeau ne L’invenzione del quotidiano, utilizzata da chi sta in basso, proprio per non dovere subire le conseguenze della ribellione e sfuggire, in qualche modo, all’imposizione della norma regolatrice. Così facendo, sfuggendo, purtroppo, molte ingiustizie rimangono tali e i presupposti impliciti – anche epistemologicamente impliciti – nei giudizi non vengono adeguatamente discussi e rivelati. E questo non va bene, soprattutto in una materia quale l’antropologia che riflette sulle diversità e varietà!

Resta il fatto che, in tutti i campi, gli intrecci tra potere e sapere sono inestricabili e si ha tendenza a non districarli per non pagarne le conseguenze! Bisogna farsene una ragione? Subire passivamente? Io non la penso così. Più particolarmente, nel mio caso, penso che ci siano delle incongruenze nei giudizi dei commissari e intendo prendere la parola per discuterle. Naturalmente, non si tratta soltanto di un’ingiustizia personale: rivolta nei miei confronti esclusivamente. Credo che la questione abbia una portata antropologica più ampia e riguardi, più esattamente, il modo in cui questi commissari – tutt’e cinque antropologi e docenti ordinari italiani – considerano l’antropologia stessa: a senso unico, in modo ristretto e costretto, con un ipotetico inquadramento generale e aprioristicamente uniformato. In sostanza, esprimendo i loro giudizi nei miei confronti, questi ‘valutatori’ mettono in piazza quelle che sono le tante lacune e ristrettezze epistemologiche insite nei modi di concepire un certo tipo di antropologia, soprattutto da parte di studiosi italiani che, adesso e in passato, sono stati commissari ‘giudicatori’ per l’Abilitazione scientifica nazionale.

Scrivendone, prendendo la parola in prima persona, io intendo trasformare il giudizio espresso nei miei confronti in un dialogo – chissà se questi commissari vorranno, a loro volta, prendere la parola e rispondere alle mie critiche – sul modo di considerare l’antropologia in Italia e la loro stessa antropologia. Perché, però, parlo in particolare di antropologia in Italia? C’è una ragione. Insisto sull’antropologia italiana perché so per certo – insegno e faccio ricerca da tanti anni ormai – che esistono diversi modi di considerare l’antropologia come ‘disciplina’ nel mondo e questi modi sono del tutto diversi da quelli assunti dai commissari italiani che mi hanno giudicato non idoneo. Nel mondo, c’è una grande varietà di modi di intendere l’antropologia. E questa varietà viene accolta positivamente: viene vista come apportatrice di benefici certi e di multiprospettività fondative, oltre che valorizzazione dell’interdisciplinarità, costitutiva del dialogo conoscitivo. Più stringatamente, quello che intendo dire è che, nel mondo, l’antropologia è nota soprattutto per la sua apertura e per i modi in cui instaura dialoghi con altre discipline e concezioni del campo.

17cfecde-7a56-4904-b534-da0d087fdf28L’antropologia non è una, ma molteplice, insomma. Se non altro, questo è il modo in cui io la concepisco, molteplice e indisciplinata, cioè non ingabbiata all’interno di regole costrittive e imposte (Montes 2023). Nel giudizio di questi commissari preposti all’Abilitazione nazionale scientifica, invece, non c’è traccia di questa apertura di cui si parla altrove, in altri Paesi, in altre tradizioni. Parlando di antropologi italiani, non intendo, ovviamente, fare di tutta un’erba un fascio. Esiste, anche in Italia, un’antropologia dialogica, felicemente indisciplinata, cioè aperta alla molteplicità delle concezioni relative alle – nozioni di – diversità e culture. Valga, qui, per tutti, un esempio: Massimo Canevacci e la sua opera. L’antropologia indisciplinata, nella prospettiva di Canevacci, è una sfida, un vagare, l’accettazione dell’ignoto. Più particolarmente, come ricorda Canevacci, la «prospettiva indisciplinata sfoglia le sue variazioni epistemologiche quando accetta la sfida di vagare nell’ignoto: dove la singola disciplina e spesso anche l’approccio multi-disciplinare si fermano e si confondono» (Canevacci 2024: 59). Purtroppo, devo ribadirlo tristemente, non ho avuto la fortuna di incontrare commissari di questo tipo nel mio percorso. E credo che ci sia ancora una tendenza, in Italia, nonostante tutto, a considerare l’antropologia in modo esotizzante, per molti aspetti ancorata all’esotismo, alla maniera di farla e produrla di Malinowski a suo tempo, un tempo ormai remoto. Ci torno. Tornerò sulla questione, in seguito, perché questo è un punto ‘delicato’ e molto interessante non soltanto dal punto di vista dell’antropologo che pratica sotto l’egida del dialogo (quale io mi ritengo), ma anche dal punto di vista più generale di una antropologia volta a comprendere l’essere umano nella sua ampiezza, sradicandosi, decentrandosi, svelando l’insinuarsi del potere e della regola fine a se stessa.

In fondo, un’antropologia a fondamento epistemologico – che riflette sui suoi stessi presupposti – è sempre una sorta di antropologia politica che svela gli intrecci di potere e sapere. I commissari che mi hanno giudicato, invece, non sembrerebbero – a partire dai concetti utilizzati – condividere questa idea di apertura e di decentramento di prospettive stereotipate, intrinsecamente politicizzate in un solo senso. L’incipit del giudizio collettivo, in questa prospettiva, è significativo, soprattutto per quanto riguarda l’ambiguità della concettualizzazione e formulazione dei giudizi. Ecco l’incipit del giudizio collettivo dei ‘valutatori’: «Le tematiche al centro della produzione scientifica del candidato sono riconducibili all’ambito dell’antropologia culturale in senso generalista». Da una parte, mi si accorda il contentino dell’appartenenza all’antropologia (le tematiche da me affrontate sono pertinenti), dall’altra si ritiene invece che esse siano da intendere «in senso generalista». Che vuol dire «generalista»? Il vocabolario, consultato allo scopo, parla di argomenti di vario genere: argomenti che hanno una portata generale, che non prendono in conto le questioni nel dettaglio, centrandole tematicamente. Vorrebbe, quindi, l’uso del termine “generalista”, essere una critica volta al mio modo di fare antropologia? Ma così non è! Nei due volumi, da me presentati nella domanda per l’Abilitazione, affronto le varie questioni in modo specifico e puntuale. Com’è possibile, allora, dire una cosa del genere, dopo aver letto – anche senza molta attenzione – i miei due volumi, oltre che le altre pubblicazioni! Mi chiedo, rileggendo i giudizi, se li hanno effettivamente letti. Prendo, per esempio, in conto il tema della morte e l’affronto in tutti i suoi aspetti possibili, strettamente intrecciati alla tanatologia e al mio stesso vissuto di persona che ha perso un parente e trasforma la questione ‘generale’ in vera e propria riflessione antropologica, fondata etnograficamente, specificamente intesa. L’altra mia monografia prende direttamente di petto la questione – centrale in antropologia – relativa al soggetto-etnografo che vive quotidianamente nel rituale, spesso senza rendersene conto: allora l’attraversamento, nella monografia Attraversamenti, diventa una nozione che ingloba la nozione di passaggio di cui parla Van Gennep (tra gli altri), diventa una nozione da considerare asse portante al fine di mettere in cantiere un’antropologia del quotidiano incentrata sui grandi e piccoli rituali.

Come si può affermare, in sostanza, alla luce di quanto detto, che il mio approccio è “generalista”! Oppure, come si può ritenere – come si farà, pure, in alcuni giudizi individuali dei commissari – che il mio modo di fare antropologia è ‘asistematico’! Non è che si confonde l’asistematico con il mio approccio che, invece, vuole essere indisciplinato in senso foucaultiano, cioè non ristretto a un solo modo di intendere l’antropologia? Le due cose son ben diverse e, per di più, difficili da confondere, visto che discuto la nozione di ‘indisciplina’ – a partire proprio da Foucault – in tutt’e due le etnografie, oltre che nei vari saggi. Semmai, più che asistematico, il mio approccio è dettagliato, specifico e sistematico: in uno dei due volumi, Vivere e morire, prendo in conto la questione della morte da una prospettiva autoetnografica, sottolineo il ruolo svolto dal mio stesso vissuto e passo, al contempo, a setaccio le varie teorie antropologiche relative alla concezione della morte e dell’elaborazione del lutto; nell’altro volume – Attraversamenti – prendo sistematicamente in conto, nello specifico dettaglio, le diverse forme di rituali in cui mi imbatto personalmente per discuterle alla luce delle tendenze teoriche più moderne, mettendo, tra le altre cose, a fronte le ipotesi esemplari di Marc Augé (relative al rimpatrio dell’antropologia) e quelle di Bruno Latour (sull’importanza acquisita dalla sociotecnica nella società contemporanea). Anche volendo astrarsi dalla lettura particolareggiata, attenta, dei miei volumi (lontana da una idea «generalista «di fare antropologia), non si può non mettere l’accento sull’ambiguità – voluta o inconsapevole? – del termine usato dalla commissione. Tanto più, che, subito dopo l’incipit, i commissari scrivono: «Il candidato mostra infatti un’ampia gamma di interessi oltre a un approccio decisamente personale alla ricerca antropologica». Se si esamina l’enunciato, si può dire che i commissari vedono di buon occhio il mio approccio perché scrivono: «infatti» e «una vasta gamma di interessi».

52ce329d-4ab5-482b-a8cd-b627ba45bdaeAvere tanti interessi è senz’altro positivo, se non altro in antropologia: aiuta a mettere a fronte le prospettive, implicitamente ed esplicitamente utilizzate da uno studioso, producendo aggiustamenti e riposizionamenti necessari in un ambito così importante quale è quello antropologico. Ma i commissari, a ben vedere, non sembrano andare decisamente in un senso o nell’altro: invece sembrano dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Insomma, per certi aspetti sembrano elogiarmi, ma, per altri, sono – o vorrebbero? – rimanere ambigui. Così facendo, tuttavia, non fanno altro che alimentare incoerenze nelle loro formulazioni e giudizi. Dal mio punto di vista, «un approccio decisamente personale alla ricerca antropologica» è senz’altro positivo. Bisogna, naturalmente, vedere come si intende il termine «decisamente». In quale senso? Dicendo «decisamente», si potrebbe produrre un elogio ma anche, in senso contrario, incrinare il valore positivo dell’elogio. La decisione è, in sé, un elemento positivo. Ma può essere anche intesa in senso opposto, se viene considerata un ‘eccesso’. Si vuole forse intendere, più velatamente, che il mio approccio è troppo personale e non si attiene, per questo, ai canoni correnti dell’antropologia? Oppure si vuole dare spazio, grazie a questa formulazione, all’importanza di essere innovativi in antropologia? Quali dei due aspetti va preso per buono? Il positivo o il negativo? E quali sono i canoni correnti dell’antropologia (che, guarda caso, non vengono mai esplicitati pienamente dai commissari) sulla base dei quali hanno valutato?

Non è affatto vero che il giudizio è insindacabile, soprattutto se viene emesso senza esplicitare i presupposti su cui si basa e senza fare riferimento a quale tipo di antropologia i commissari si sono rifatti per sindacare. In sostanza, da questi pochi righi iniziali si evince – se presi nel loro insieme, purtroppo confuso – che i commissari non sanno bene che pesci prendere: da una parte, mi elogiano per il carattere innovativo e personale dei miei studi; dall’altra, cercano di insinuare velatamente il verme del dubbio sottolineando, fin dall’inizio, ciò che potrebbe essere eccessivo nel mio approccio. Da un punto di vista puramente linguistico, si tratterebbe di capire se il «decisamente» è positivo o meno: se si trasforma in ‘troppo’ (negativo) oppure no (positivo). Ma un giudizio, soprattutto quello finale e collettivo di un concorso così importante, da cui dipende la vita professionale di una persona, non dovrebbe essere immune da accezioni interpretative varie? Non dovrebbe dire chiaramente come stanno le cose, come la pensano i commissari, senza alcuna ambiguità? Da questo incipit – mal formulato – non si evince questo: non si evince un giudizio univoco e chiaro. Si può pure dire, mettendo insieme le cose, che mi considerano un antropologo molto originale, pur affrontando questioni d’ordine generale (o generalista). Lo si potrebbe dire e sarebbe senz’altro un bell’elogio! Ma se così fosse, se questa fosse la giusta interpretazione, perché non mi considerano allora idoneo e perché, in seguito, dicono altro? Io credo che i commissari non soltanto non abbiano le idee chiare sul mio conto. Io direi, di più, che sono incoerenti. Ma sono incoerenti perché hanno letto con superficialità i miei testi oppure per ‘incompetenza valutativa’? Non saprei. Mi piacerebbe saperlo tuttavia.

Sono docente da diversi anni. Sono direttore di commissioni di esami di singole materie (insegno, attualmente, Antropologia del linguaggio, Antropologia delle migrazioni e Antropologia dell’alimentazione) e faccio solitamente parte, durante l’anno, di diverse commissioni di laurea. Ho diretto, nel tempo, molte tesi di laurea. So per esperienza quanto difficile sia ‘valutare’ in tutti gli ambiti del sapere. Proprio per questo, data la difficoltà, ritengo sia importante fare estrema attenzione alla valutazione, emettere giudizi chiari, non contradditori e non fondati su un (solo) indirizzo di scuola o di pura simpatia o antipatia. Ho già avviato una pratica di ricorso legale, appositamente per capire cosa non è andato nel ‘dietro le quinte’ del mio giudizio. Cosa si è inceppato? Cosa ha contribuito a esprimere un giudizio tanto incoerente, confuso e poco adatto a un sapere antropologico che si vorrebbe invece più aperto e meno individuale e centrato? Non lo so davvero. Non so spiegarmelo. Quel che so per certo è che i commissari sono indecisi, già dall’incipit, a mio riguardo, e questo aspetto traspare senza dubbio. Da buoni commissari, non dovrebbero essere indecisi e non dovrebbero essere incoerenti nella formulazione del giudizio finale e collettivo. Non dovrebbero essere incerti, nemmeno nel lessico spicciolo da utilizzare. Non dovrebbero lasciare nessuno spazio ad ambiguità e nemmeno a possibilità interpretative di diverso tipo. Qualcuno potrebbe obiettare che i commissari non hanno avuto molto tempo a disposizione e che sono stati approssimativi per necessità: avevano tante pubblicazioni da leggere e da passare a setaccio. Ma, anche volendo ammettere questo aspetto, non si dovrebbe tenere conto del fatto, seppure implicitamente, che io insegno antropologia da più di vent’anni?

88fbb984-6ef4-4a94-a5b2-51bda909a4a3Mi sono stati attribuiti, nel corso degli anni, diversi corsi di antropologia in diversi dipartimenti – e non solo nel mio – e il mio curriculum è stato giudicato adeguato e brillante dalle diverse commissioni. Certo, l’insegnamento e la carriera didattica non sono considerati criteri da valutare per l’Abilitazione. Lo so bene. L’insegnamento, stranamente, esula dai principi presi in conto. E di questo, per quanto oggettivamente sbagliato, non se ne può attribuire colpa ai commissari che sono chiamati a giudicare soltanto le ricerche e le pubblicazioni. Ma, stando così le cose, a maggior ragione i commissari avrebbero dovuto fare attenzione al mio percorso di ricerca e non emettere giudizi mal formulati e poco coerenti linguisticamente, concettualmente ed epistemologicamente. Io sono ricercatore a tempo indeterminato da oltre vent’anni (significa che occupo stabilmente un posto come ricercatore all’università fino al pensionamento, che avverrà il primo novembre di quest’anno). Ho presentato domanda per avere l’idoneità come professore di seconda fascia (professore associato) anche perché penso di essere un buon docente e di potere essere utile agli studenti per qualche anno ancora: cioè, fino al compimento del settantesimo anno di età (così è per i professori associati e ordinari; così sarebbe stato pure per me se fossi stato ritenuto idoneo dalla commissione). Il mio insegnamento, inoltre, ci tengo a precisarlo, non è sganciato dalla pratica e dalle teorie che ho – e che prendo in conto – concretamente nelle mie ricerche sul campo.

Non chiedo, quindi, alla commissione abilitante di tenere conto del mio insegnamento pluriennale, visto che non rientra nei criteri – per quanto assurdo questo sia – dell’Abilitazione. Non lo chiedo, non lo chiedevo, non sarebbe possibile. Pensavo, però, che i giudizi espressi dalla commissione dovessero essere più oggettivi ed espliciti, discussi in base alle mie pubblicazioni, formulati senza contraddizioni o esitazioni, giustificando le asserzioni fatte e indicando l’orientamento scientifico adottato e i presupposti teorici sui quali vengono concepiti. Così non è stato. Addirittura, nel giudizio individuale di uno dei commissari si scrive che la «produzione del candidato non appare del tutto allineata alle modalità accreditate di fare antropologia ed etnografia nel mondo accademico». In altri termini, io vengo giudicato in maniera impressionista, affermando che la mia produzione non è «allineata alle modalità accreditate di fare antropologia». Ma accreditate da chi? A quale antropologia sta facendo riferimento questo commissario senza effettivamente rivelarlo? Alla sua antropologia? A quella del mondo accademico? E quale, più esattamente? Che io sappia, ci sono tanti mondi accademici e tanti orientamenti: quella di questo commissario è, quindi, una generalizzazione estrema, infondata, che presuppone una uniformità – non vera, inventata – di modi di concepire l’antropologia. Nella seconda parte del suo enunciato generalizzante, torna l’ambiguità da me rilevata anche nel giudizio collettivo e finale. Scrive questo commissario: «La sua produzione appare come il frutto di una scelta di posizionamento originale ma personale». Niente male come incoerenza: sono originale, ma sono personale. Qui, si evince chiaramente che il termine “personale” possiede una valenza negativa, oppositiva. Peccato che l’originalità e l’espressione personale vadano a braccetto e sono, per lo più, associate! Difficile, forse impossibile, essere originali e impersonali. Sono molto contento, ovviamente, di essere stato considerato «originale»: un elogio che si fa raramente, soprattutto agli antropologi. Ma non basta per ottenere l’idoneità: non basta ai commissari. Per essere considerato idoneo, avrei dovuto sbarazzarmi di ciò che è «personale», secondo i commissari. Ma riflettiamo sulla questione un momento!

Personale è ciò che pertiene alla persona. Nelle mie ricerche etnografiche il riferimento alla mia persona non è che una strategia enunciativa per mettere a fuoco sul soggetto – che io sono – e sui suoi molteplici posizionamenti. È, forse, un punto di vista troppo postmodernista quello mio? Rosaldo, a quanto pare, è passato invano! La forza delle emozioni – di cui giustamente parlava Rosaldo – non ha diritto di espressione nel modo di intendere l’antropologia di questo commissario di cui parlo. E Rosaldo, a riguardo, non è che uno dei tanti che si potrebbero menzionare. Un’antropologia, a spunto soggettivante, che si applica all’analisi in prima persona dei posizionamenti assunti dall’antropologo non ha diritto di cittadinanza teorica nell’ipotesi di questo commissario. E allora? La mia impressione è che, pur nella modernità, la scienza viene considerata tale solo se è a carattere oggettivante, impersonale e radicata in un unico posizionamento. In definitiva, ciò che mi si rimprovera si ritorce contro lo stesso commissario, nel suo giudizio individuale e parziale. È proprio il suo giudizio – il giudizio di questo commissario – rappresentativo di un modo di generalizzare che nasconde un andamento del tutto personale e non oggettivo. Proprio per queste ragioni – generalizzanti e personali, poco oggettive – io desidero contestare la decisione della commissione, scrivendo, aprendo un dialogo con chiunque se la sente, ricorrendo anche alle vie legali. Intendo impegnarmi in questo senso: un senso che io considero al contempo antropologico ed epistemologico. Facendo il punto fin qui: i commissari considerano originale, per molti aspetti, le mie ricerche sostanzialmente riconducibili – nel giudizio collettivo e finale – all’antropologia, ma non mi attribuiscono l’idoneità. Sarebbe meglio insistere sul fatto che questo viene detto nel giudizio collettivo e finale: io sono, qui, considerato antropologo. Invece, i singoli giudizi annaspano tra una cosa e l’altra, sprofondano nella contraddizione.

2909e1fe-292f-48d2-96f5-93efd677f015Se nel giudizio finale si scrive che «le tematiche al centro della produzione scientifica del candidato sono riconducibili all’ambito dell’antropologia culturale in senso generalista», in alcuni giudizi individuali si scrive invece il contrario. Alla faccia della coerenza, si potrebbe dire, utilizzando un’espressione sanguigna e verace! Ho già citato un brano del giudizio di un commissario, in piena contraddizione con il giudizio collettivo. Ma il bello è che questo stesso commissario torna sulla questione della pertinenza antropologica, insistendo in altri segmenti del suo giudizio individuale. Per esempio, in questo frammento, questo commissario scrive: «Ad eccezione della pubblicazione n. 3, sulla vita quotidiana durante il confinamento della pandemia del Covid-19, non si riscontrano saggi riconducibili a un approccio antropologico ed etnografico in uso nella comunità scientifica». Sono davvero stupito di leggere che, tra tutte le pubblicazioni da me presentate, solo una è riconducibile a «un approccio antropologico ed etnografico in uso nella comunità scientifica». Su quale base è stato dato questo – non motivato, personale e ingiustificato – giudizio? Ovviamente, il commissario in questione non lo dice: non dice quali sono stati i suoi criteri per includere una pubblicazione nel novero dei saggi antropologici ed escludere tutte le altre. Se ne guarda bene. Inoltre, rincarando la dose, com’è possibile che alcuni giudizi individuali siano in contraddizione con quello che risulta essere il giudizio finale e collettivo in cui dovrebbero invece convergere gli elementi essenziali dei giudizi individuali?

Io credo, soprattutto, che non debbano esserci incoerenze e contraddizioni sia all’interno dei singoli giudizi – ma così non è – sia tra i giudizi individuali e quello finale. E, poi, vorrei capire quale è, secondo questo commissario di cui parlo, l’«approccio antropologico ed etnografico in uso nella comunità scientifica»? Questo commissario non fa nessun riferimento a questo fantomatico e presupposto unico approccio. Non lo fa perché non può. Non lo fa perché ce ne sono tanti e diversi. Lui, invece, ostinato, parla al singolare. Direi che è un bell’esempio di antropologia rinchiusa in se stessa, lontana dalle adesioni plurali e molteplici a cui fanno solitamente riferimento la gran parte degli antropologi. Mentre questo commissario, da parte sua, senza porsi alcun problema, parla di un solo approccio e di una sola comunità accademica. E il bello è che parla, qui, un ‘presupposto’ antropologo che dovrebbe abbracciare, comunque sia, il partito della molteplicità e della varietà. Perché dovrebbe farlo? Perché ogni buon antropologo deve, innanzitutto, dare spazio a questi elementi nel suo modo di intendere l’antropologia, ricusando ogni forma di monologismo. A quanto pare, non è il caso di questo commissario. Ad aggravare le cose, c’è un altro elemento: questo giudizio del commissario non viene ricalcato – non confluisce – nel giudizio collettivo e finale in cui, invece, si dice, in soldoni, che il mio approccio è antropologico. A titolo di esempio e di ulteriore conferma di questo andamento altalenante, contraddittorio, sconclusionato e monologico, cito anche un altro commissario: «Questa sua varietà di interessi, cui si accompagna un buon bagaglio di conoscenze bibliografiche delle diverse discipline, traspare dall’insieme dei testi portati a valutazione. Questi però, per quanto coerenti con una visione interdisciplinare, questi difficilmente possono essere immediatamente inquadrati entro il dibattito antropologico». Non metto l’accento sulle tante ‘sviste’ di quest’altro commissario, qui e altrove, nel suo giudizio: per esempio, ripete due volte «questi «nello stesso enunciato (‘Questi’ però, per quanto coerenti con una visione interdisciplinare, ‘questi’ difficilmente possono essere). Non intendo mettere l’accento sull’uso affrettato dell’italiano di questo commissario, ma su altro, anche se ciò – l’uso affrettato e negligente dell’italiano – significa che il giudizio non è frutto di accurata riflessione. Ciò su cui intendo veramente mettere l’accento è la formulazione sbilenca del suo giudizio di valore. Infatti, questo commissario non può fare a meno di dire che ho delle ottime «conoscenze bibliografiche». È talmente evidente che, forse sentendosi in colpa, non ritiene di dovere incappare in questa fallacia: lo deve ammettere. Ma le conoscenze bibliografiche, a suo parere, non sono sufficienti per un giudizio positivo: ciò che conta, per questo commissario, è che i miei interessi non rientrino, nonostante tutto, nel «dibattito antropologico». Oltre l’evidente contraddizione tra il suo giudizio individuale (in cui si dice sostanzialmente che non sono antropologo) e il giudizio collettivo (in cui, invece, si dice che sono antropologo), si deve anche rilevare l’inconsistenza interna del suo presupposto che tende a mettere in negativo – relegandolo al margine – ciò che in effetti è positivo, persino nell’uso della sua stessa terminologia:  «varietà d’interessi»,  «buon bagaglio di conoscenze bibliografiche delle diverse discipline»; coerenza con  «una visione interdisciplinare». Infine, ci si dovrebbe chiedere, a quale dibattito antropologico fa riferimento questo commissario? È come se, nella sua prospettiva, esistesse, anche per lui, un unico e solo dibattito antropologico a cui fare riferimento. Dovrebbe sapere, questo commissario, che ogni buon antropologo ingaggia un suo proprio dibattito con la disciplina. Dovrebbe sapere che ogni scuola e orientamento impostano un proprio dibattitto antropologico che ha suoi presupposti specifici, diversi da quelli di altre scuole precedenti e contemporanee.

Non esiste, in sostanza, un solo dibattito antropologico, così come non esiste un solo inquadramento (che fastidio questo concetto, ma è un commissario che lo usa!). Non è, forse, questo dei commissari un modo per liquidare la questione, generalizzando, evitando di affrontare effettivamente i dibattiti che io, invece, prendo bene in conto – nelle mie due etnografie e negli altri scritti presentati per l’Abilitazione – in maniera dettagliata e sostanziata? Io credo di sì. Generalizzare è un modo per evitare discussioni approfondite, per liquidare un candidato scomodo perché pratica altre forme di antropologia che non si vogliono valorizzare e sono lontane dal proprio universo di pratiche e di esercizio del potere. Generalizzare è un modo per sottrarre peso alle ipotesi antropologiche da me prese in conto e discusse. È una strategia retorica, sconclusionata per quanto sia, che consente ai commissari di non approfondire niente e dare giudizi generalizzanti e vuoti.

a4ad1280-fc77-4c47-951d-a0fc401ef0ceA questo punto, è lecito chiedersi perché i commissari invocano un inquadramento generale dell’antropologia senza farvi esplicito riferimento. È inoltre lecito chiedersi perché non tengono conto dei miei ragionamenti in ambito antropologico, considerandoli non pertinenti in alcuni giudizi individuali e pertinenti in altri e, soprattutto, in quello collettivo. Perché si fa spesso riferimento all’originalità delle mie ricerche e posizioni per, poi, sottrarre peso a questa considerazione ricorrendo al termine – in sé, non negativo – di «personale»? Non saprei avanzare ipotesi valide, talmente i giudizi sono fuorvianti e sconsiderati. So soltanto che si possono rilevare grosse contraddizioni all’interno dei giudizi individuali e nel confronto comparativo con quello collettivo. Questo aspetto è presente anche in alcuni frammenti del giudizio collettivo, al suo interno, inizialmente positivo e, poi, in parte negativo: «Le due monografie, sebbene trattino argomenti diversi (una è dedicata al tema della morte l’altra al viaggio, ai passaggi) presentano entrambe una simile assenza di sistematicità e di radicamenti empirici; nonostante i numerosi riferimenti bibliografici e alcuni spunti originali, l’argomentazione è autocentrata, e il registro risulta poco scientifico». Anche qui la formulazione linguistica non è delle più brillanti (e dire che si tratta di docenti ordinari): che vuol dire «sebbene trattino argomenti diversi»? Vogliono, forse dire, i commissari – se traduco in termini più chiari sintatticamente e semanticamente – che né in una monografia, né nell’altra sono sistematico. Beh, è evidente, si potrebbe obiettare, che, se sono due monografie diverse – su temi diversi – non ci si deve aspettare un legame sistematico tra l’una e l’altra. Tralasciando, anche qui, la formulazione bizzarra dei commissari, ciò che più conta è tuttavia l’apparente giudizio negativo nel suo complesso: non ci sarebbe sistematicità né all’interno delle monografie, né legame tra l’una e l’altra al loro esterno. Il che non è comunque vero! Mi chiedo, infatti, cosa hanno mai letto. Quante pagine hanno letto, i commissari, dell’insieme delle pubblicazioni da me presentate?

In tutt’e due le monografie discuto, in lungo e largo, il progetto di un’antropologia del quotidiano che, pur non rinnegando del tutto l’esotismo ancora corrente dell’antropologia, si dedica a capire la nostra società contemporanea, nella prossimità, proprio in quegli aspetti legati all’ordinario e al quotidiano. Sia l’etnografia sulla morte, sia l’etnografia sui passaggi rituali sono strettamente connesse da un tema unificatore: l’esplorazione della vita, nel suo insieme, e l’analisi comparata dei rituali ordinari e straordinari. Dico che affronto questo intreccio nella prefazione e, sistematicamente, nei dei volumi. Riprendo questo aspetto, di volta in volta, citando anche altri studiosi che concepiscono l’antropologia come esplorazione dell’esistenza nel suo complesso (tra i tanti, cito anche Michael Jackson e Albert Piette, due antropologi rinomati). Lo faccio anche nelle altre pubblicazioni creando un rimando continuo – e sistematico – dall’una all’altra. Di questo aspetto, nel giudizio della commissione, non si tiene conto e non c’è traccia: non si dice che il mio progetto teorico e pragmatico verte su una antropologia del quotidiano in cui l’esistenza, tutta, ha un suo ruolo di rilievo. Più volte, in ambedue i volumi, discuto alcune definizioni di cultura e faccio le dovute considerazioni per quanto riguarda il necessario spostamento dell’asse di interesse teorico fondato sulla nozione di cultura a quella di esistenza. Le discussioni teoriche da me avviate, inoltre, non sono mai fini a se stesse, ma strettamente intrecciate con i temi presi direttamente in conto nelle due etnografie – la morte e i riti – nella loro più esplicita realizzazione esperienziale di un soggetto – tra gli altri soggetti in società – che vive in prima persona ciò che dice.

In altri termini, mi avvalgo dell’autoetnografia, che ha una lunga e solida tradizione in antropologia, per produrre solidi andirivieni tra pratiche e teorie, prossimità e distanza, soggetti e oggetti. La mia colpa è forse quella di citare, tra gli altri, qualche fenomenologo o filosofo del linguaggio? Era inevitabile, tenuto conto degli argomenti affrontati. È però una grave colpa aprirsi alle altre discipline? Non direi! Rimane il punto: perché i commissari non accennano al mio progetto di una antropologia del quotidiano incentrata sullo spostamento di accento da una nozione generalizzata di cultura alla nozione di esistenza? Forse lo si fa perché gran parte della commissione ha una prospettiva esotizzante e non vuole scoprirsi tale nei giudizi? Resta il fatto che, in tutt’e due le monografie, affronto la questione dell’esotismo e dell’ordinario considerandomi – ribadendolo più volte – un etnografo sul campo, ovunque io mi trovi nel tempo e nello spazio, nell’elaborazione del lutto così come nell’attraversamento di una strada. Invece, nell’antropologia esotizzante di stampo malinowskiano, ci si sposta sul campo – di solito lontano dal proprio paese – e si studiano gli usi e costumi locali di altri popoli e culture. Quale è l’aspetto negativo di questa concezione? Una volta tornati a casa, nel proprio paese, è come se l’antropologo si azzerasse e non vivesse più, come se la propria esperienza non potesse più essere oggetto di studio. Io critico questo aspetto e mi dedico, nelle mie ricerche, a un’antropologia dell’esistenza che prende in conto anche gli aspetti più ordinari, meno eclatanti del vivere. Io, in tutt’e due le etnografie, critico questo aspetto sottolineando il fatto che l’antropologo è dappertutto tale, vicino o lontano che sia dal proprio paese, a casa, per strada, nel metrò o al bar. Com’è possibile che questo aspetto, discusso ‘sistematicamente’ in tutt’e due le mie etnografie, oltre che nei singoli saggi, non venga valorizzato in quanto tale dai giudizi dei commissari? Non solo essi non lo valorizzano, ma non ne tengono minimamente conto, affermando che le due etnografie sono caratterizzate da un’assenza di sistematicità.

e5a99e48-0150-4455-b2ec-bd8975565088Tra le altre cose, insegno anche l’antropologia del linguaggio e so bene quante valenze – tenuto anche conto della mia passione e interesse per Lévi-Strauss – possa assumere la nozione di sistema. Io tengo conto di queste valenze in tutt’e due le monografie: sistematicamente! Perché, allora, non si fa accenno, da parte dei commissari, al fatto che io pratico un’antropologia del quotidiano? Forse perché questo avrebbe, già di per sé, contribuito a dare sistematicità alle mie ricerche e alle mie due monografie? Sarei curioso di capire perché questo aspetto non viene preso in conto dai commissari. Sarei inoltre curioso di capire che cosa intendono per ‘sistema’. Lo intendono alla maniera di Lévi-Strauss? O alla maniera, più incerta, di Malinowski? C’entra forse Saussure o, più vicino ai nostri tempi, Duranti? Ovviamente, il giudizio dei commissari non è supportato da nessun chiarimento possibile o riferimento concreto, né in un senso, né nell’altro. Sarebbe bene capire, a questo punto, che intendono anche per assenza di «radicamenti empirici»? Le due monografie sono, in effetti, due etnografie e – come dovrebbero ben sapere i commissari – sono sostanzialmente radicate nella proiezione sul campo. Sono, quindi, radicate nell’empiria. È vero che, in ambedue le etnografie, io prendo in conto il mio posizionamento individuale ed esperienziale per metterlo anche a fronte di varie teorie antropologiche, producendo, così, un va-e-vieni costante tra empiria e teoria. Ma questo aspetto dovrebbe essere elogiato e non denigrato o camuffato. Oppure, nella concezione dei commissari, è ‘empiria’ soltanto qualcosa che esclude totalmente qualsiasi cognizione teorica? Non molti, oggigiorno, sosterrebbero una tesi del genere. E, in ogni caso, è ciò che io mostro mettendo in cantiere queste due mie etnografie: che l’esperienza concreta è intrisa di teoria e che la teoria non può estrapolarsi totalmente dal dettato esperienziale. Io lo faccio, concretamente, in maniera originale – «originale» è il termine che utilizzano gli stessi commissari nei miei riguardi – a partire da due temi importanti in antropologia: la morte e l’elaborazione del lutto (in Vivere e morire); la prossimità e la distanza nei processi di ritualizzazione del quotidiano (in Attraversamenti).

Il presupposto è discusso correntemente da diversi antropologi e non soltanto da me. Sono contento di essere giudicato ‘originale’ dai commissari, ma sono anche consapevole che non sono l’unico a pensarla in questo modo. Uno studioso che ha dedicato un volume alla questione, seppure in sola chiave argomentativa e non propriamente empirica, è Herzfeld, secondo il quale «la teoria non è costruita in base alla pratica, ma si rivela come una forma di pratica essa stessa» (Herzfeld 2006: 24). Se la teoria si rivela essa stessa come pratica, è altrettanto vero – aggiungo io – che la pratica è intrisa di teoria. In tutt’e due le etnografie, io seguo questo principio, prendendolo in esame nella concreta produzione di andirivieni costanti tra la prossimità e la distanza, tra l’esperienza soggettiva e le possibilità della sua trascrizione in testo etnografico. Quando parlo di ‘andirivieni’, non faccio riferimento a una metafora astratta o inventata allo scopo sulla base della quale concepire le mie due etnografie. In realtà, il mio riferimento è Lévi-Strauss – lo dico più volte nei miei testi – e il suo modo esplicitamente inteso di definire la conoscenza: «Non sarebbe possibile nessuna conoscenza se non si distinguessero i due momenti [la prossimità e la distanza]; ma l’originalità dell’indagine etnografica consiste in questo va-e-vieni incessante» (Lévi-Strauss 1988: 214). Lo sguardo da vicino e da lontano, di cui parla Lévi-Strauss (Lévi-Strauss 1988), è parte integrante di questo mio dinamismo messo in atto, empiricamente, in ambedue le etnografie: perché da lontano si osserva meglio l’insieme, da vicino emergono i dettagli.

Resta il fatto che – lo ribadisco sistematicamente – io sono attratto dai modi in cui il pensare e l’agire, nelle specifiche pratiche prese in conto, sono colti e registrati dall’individuo. E questo elemento lo ‘registro’ e analizzo nei miei testi etnografici, in prima persona. Usare la prima persona non vuol dire essere ‘personali’, per sé. Usare la prima persona significa, nel mio caso, utilizzare un tipo di enunciazione più strettamente collegata all’’io’ volta a registrare le oscillazioni soggettive di un osservatore che non può che essere parte integrante dell’osservazione. È troppo sottile, questo aspetto, per essere compreso? Eppure, il riferimento va a un luminare, ben noto, dell’antropologia quale è Lévi-Strauss e a un suo famoso saggio in cui lo studioso spiega bene che chi osserva non può tirarsi fuori dall’osservato, non può osservare come se fosse affacciato a un balcone e considerare ‘osservabile’ soltanto ciò che passa davanti ai suoi occhi. Io ho seguito, da vicino, questo specifico dettato lévi-straussiano, prendendo in conto l’osservatore – che io sono – sottoponendolo a un processo, continuo e instabile, di tensioni soggettivanti e oggettivanti, analizzando i riposizionamenti da me assunti nel prodursi degli eventi. Come ricorda Lévi-Strauss, infatti, «in una scienza in cui l’osservatore ha la stessa natura del suo oggetto, l’osservatore stesso è una parte della sua osservazione» (Lévi-Strauss 1950: XXXI). In sostanza, adottando una prospettiva autoetnografica non ho inteso vedere cose e persone – tra le quali me stesso – unicamente da lontano, ma nel concreto delle situazioni, nel divenire rituale e contestuale della soglia del vivere, nel processo dell’osservazione. So bene che Lévi-Strauss è ambiguo a riguardo. Altrove, scrive infatti che, «per raggiungere il reale, bisogna prima ripudiare il vissuto» (Lévi-Strauss 1960: 56). Ma nei due volumi da me scritti, così come nel resto delle mie pubblicazioni, io non ho inteso professare nessuna adesione esclusiva verso la totalità dell’opera di Lévi-Strauss – un antropologo è un autore che evolve nel tempo – ma, soltanto, verso alcune posizioni specifiche da me prese in conto ed esplorate nella loro pienezza. Quindi, appellarsi al «personale» per sbarazzarsi delle mie ricerche non è che un misero espediente. Se c’è del «personale» nelle mie ricerche, ciò è dovuto al fatto che opto per un posizionamento pienamente lévi-straussiano secondo cui migliori conclusioni possono essere raggiunte in etnografia se si prende in conto il soggetto e la sua persona, così come il suo posizionamento e modo stesso di osservare.

e7ddcd45-5d1a-4a51-9961-1a323f1d6f99Che intendono, allora, i commissari, quando dicono – nel giudizio finale e collettivo – che ho un registro «poco scientifico»? Questo non lo chiariscono. Questo non è dato sapere. Non tengono conto delle mie discussioni, a riguardo, in cui prendo i risvolti teorici proposti da diversi antropologi, uno dei quali è proprio Lévi-Strauss. A qualcuno potrebbe venire il sospetto che non tengono conto delle mie analisi incrociate al fine di evitare di rivelare il loro posizionamento radicato in un solo modo di intendere l’antropologia. Io non pratico il loro tipo di antropologia – tre dei commissari sono africanisti e, quindi, esotizzanti; gli altri due, pur facendo cose molto eterogenee, credono in una sorta di ‘autorità’ che definisce l’antropologia una volta per tutte e non certamente in senso innovativo – e questo potrebbe dare fastidio. Non sarebbe stato il caso, prima di emettere i loro giudizi poco chiari e non supportati da riferimenti teorici, rileggere quello che scrive Geertz, cioè un vero e proprio inno alla libertà di professione dell’antropologo? Eccolo, trascrivo il frammento per intero perché è illuminante per tutti (tranne che, forse, per i commissari che mi hanno giudicato non idoneo sulla base di chissà quale presupposto scientifico, per di più non rivelato): 

 «Uno dei vantaggi dell’antropologia come disciplina è che nessuno, nemmeno chi la pratica, conosce esattamente che cosa essa sia. Persone che guardano copulare babbuini, che riscrivono miti in formule algebriche, persone che riportano alla luce scheletri del pleistocene, che calcolano correlazioni statistiche tra pratiche di educazione alla pulizia e teorie della malattia, che decodificano geroglifici maya, e persone che classificano i sistemi di parentela in tipologie in cui il nostro sistema risulta essere ‘esquimese’ si chiamano tutte antropologi. E altrettanto fanno coloro che analizzano i ritmi dei tamburi africani, che ordinano tutta la storia umana in fasi evolutive culminanti nella Cina comunista o nel movimento ecologista, o che riflettono soprattutto sull’essenza della natura umana […] I tentativi di definire il campo vanno da spensierate argomentazioni da circolo sociale (‘noi siamo tutti in qualche modo lo stesso tipo di gente; noi la pensiamo nello stesso modo’) a candide argomentazioni istituzionali (‘chiunque sia addestrato in un dipartimento di antropologia è un antropologo’). Ma nessuno di questi sembra realmente soddisfacente. Non può essere soddisfacente rispondere che noi studiamo popoli ‘primitivi’ o ‘tribali’, perché ormai la maggioranza di noi non li studia più e comunque non siamo più così sicuri di cosa sia una ‘tribù’ o un ‘primitivo’. Non può essere soddisfacente dire che noi studiamo ‘società altre’, perché un numero crescente di antropologi studia la propria, incluso la crescente quota di antropologi (cingalesi, nigeriani, giapponesi) che appartengono a tali ‘società altre’. E non basta neppure dire che noi studiamo la ‘cultura’, le ‘forme di vita’, o il ‘punto di vista dei nativi’, perché, in questi tempi ermeneutico-semiotici, chi mai non lo fa?» (Geertz 2001: 107-108). 

È possibile che i commissari non conoscano Geertz e non ricordino questo passaggio? Non credo. Semmai, ho tendenza a pensare che non condividano la prospettiva di Geertz. Non la condividono forse perché hanno – presumono di avere – le idee chiare e pensano che ci sia un solo tipo, ben definito, di antropologia a cui fare riferimento e capo. È quello che sembrerebbe evincersi dai loro giudizi non circonstanziati, generalizzanti; i commissari sembrano dare per scontato quale sia la ‘vera’ antropologia da praticare, salvo poi non rivelarla: il bello è che questa presunta ‘vera’ e unica antropologia a cui sembrerebbero rifarsi per emettere giudizi non viene mai presa chiaramente in conto in modo manifesto e rimane nel non-detto. Peccato! Si parla di inquadramento, di comunità accademica, di uso e allineamento, etc., sempre al singolare e senza mai esplicitare veramente il riferimento. Sono, forse, i commissari stessi – e il loro modo di fare antropologia – il riferimento univoco a cui accennano implicitamente? Sono loro stessi il prototipo? Se non condividono l’ipotesi di Geertz, mi pare che non condividano, nemmeno, i diversi altri antropologi che ho menzionato e discusso nelle mie due etnografie e negli altri miei scritti. Penso a Rosaldo e alla forza delle emozioni, punto di partenza per la mia etnografia sul Vivere e morire. Penso a Latour e Augé, al rimpatrio dell’antropologia e alle sociotecniche, punto di partenza per l’etnografia sugli Attraversamenti. Solo per citarne alcuni qui. Questi studiosi, infatti, non sono che alcuni di quelli da me citati e discussi nelle mie pubblicazioni. Ma, a quanto pare, non sono stati ‘rilevati’ dai commissari. Non li hanno notati. Cecità disciplinare? Monologismo acclarato? Rifiuto della pluralità? Antipatia nei miei confronti? È come se non ci avessero fatto caso. È come se avessero prestato attenzione, soltanto, ai miei riferimenti interdisciplinari: e su questo insistono tanto. Forse, così è stato, perché nel mio modo di fare antropologia non pretendo di centrarmi aprioristicamente sulle certezze, ma cerco di avanzare per decentramenti: decentrando me stesso e le prospettive adottate.

f927e4e7-7ded-4b41-a5f0-521a39c23c8bForse, per essere dei ‘veri’ antropologi – nella prospettiva dei commissari – è necessario radicarsi nelle certezze scontate e nei costrutti identitari circoscritti e ben saldi, insomma in un monologismo scontato e avverso all’antropologia internazionale. Quel che certo è che, per quanto mi riguarda, il danno non è soltanto morale e valoriale. Non si tratta soltanto di ingiustizia esercitata nei miei confronti o di cecità disciplinare. Il danno è anche economico. Se avessi avuto l’idoneità a professore associato avrei potuto rimandare il pensionamento e andare in pensione tra tre anni (e non il primo novembre di quest’anno come, invece, sono costretto a fare da ricercatore). Certo, come si suol dire, ho qualche asso nella manica. Negli anni, si sono venuti a instaurare tanti bei rapporti con altri antropologi, in altri Paesi, vicini e lontani. Visto che parlo diverse lingue, potrò continuare a insegnare all’estero. Mi spiace, però, devo ammetterlo, non essere considerato un antropologo per il semplice fatto che non pratico una antropologia esotizzante (quella di stampo Malinowskiano, per capirci) o di stampo monologico, ma un’antropologia – a mio parere a tutto tondo – che potrebbe essere definita antropologia dell’esistenza (e del quotidiano). Viviamo in un mondo globalizzato, sempre più ‘mediatizzato’, che non può essere più visto per spaccati d’ordine spaziale, cioè alla vecchia maniera, con una partenza in un luogo lontano ed esotico dove fare ricerca e un ritorno a casa dove si fa altro, magari si insegna, ma non certo ricerca sul campo.

Io amo l’antropologia proprio perché – come scrive Canevacci liberamente – è un’impresa indisciplinata, non costretta all’interno di frontiere separatrici e usuranti. Se l’antropologia deve essere indisciplinata, allora deve anche avere il coraggio di dialogare con le altre discipline senza rimanere sulla difensiva, rinchiusa in se stessa, contraria alla conversazione. Il dialogo con le altre discipline, invece, per me, non è comunicazione a distanza – un toccarsi con la canna – ma ibridazione costante e ‘fermentata’. Questo vuol dire che un antropologo deve essere anche un po’ geografo o – come nel mio caso – un po’ filosofo e semiotico? Io credo di sì. E la storia? La letteratura? Che ben vengano! Naturalmente, ognuno è incline a dialogare con alcune discipline più che con altre. Siamo essere umani. Siamo imperfetti e finiti. Ciò che conta è il dialogo e l’ibridazione. L’antropologia è, per sua natura, indisciplinata, ibridata e fermentata. Deve esserlo per riscattarsi completamente dal pericolo – sempre incombente – del monologismo (anche del monologismo valutativo di alcuni commissari). Parliamone senza timore. Parliamone anche a partire dall’Abilitazione, se è il caso. Parliamone anche a partire dalle accuse che mi si fanno di essere eccessivamente interdisciplinare e – agli occhi dei ‘veri’ antropologi, quali si considerano i commissari – poco antropologo. Se così è, preferisco essere ‘fasullo’, ma rimanere interdisciplinare, lasciando l’illusione del ‘vero’ a chi si ritiene nel giusto, nel corretto ‘inquadramento’ (è il termine aberrante usato dai commissari) disciplinare. In ogni caso, parliamone. Al di là del caso specifico che mi riguarda da vicino, è a mio parere necessario discutere – continuare a discutere – i fondamenti dell’antropologia e i diversi modi di definirla (e ridefinirla) da parte degli studiosi che la praticano e la concettualizzano. Questo mio saggio è, dunque, un invito: un invito a discutere i singoli percorsi di un antropologo, anche quelli controcorrente, e i vari percorsi di pensiero alternativo nella storia della disciplina (e indisciplina). Quello che posso dire, per chiudere qui, rilanciando nel prossimo numero di «Dialoghi Mediterranei» con altri contrappunti sulla questione dell’Abilitazione e dell’epistemologia antidisciplinare, è che la varietà di pratiche e concetti è ciò che caratterizza l’antropologia da sempre. E i commissari di cui ho parlato, purtroppo, non sembrano esserne consapevoli. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025 
Riferimenti bibliografici
Canevacci M., Cittadinanza transitiva. Un’antropologia politica applicata al soggetto diasporico, Meltemi, Milano, 2024
Douglas M., Implicit Meanings, Routledge, London and New York, 1975
Geertz C., «Lo stato dell’arte», in Antropologia e filosofia. Frammenti di una biografia intellettuale, trad. di U. Livini, Il Mulino, Bologna, 2001 (2000), 107-164
Herzfeld M., Antropologia. Pratica della teoria nella cultura e nella società, trad. di S. Lelli, M. Bandini e A. Cacopardo, a cura di L. Piasere, Seid, Firenze, 2006 (2001)
Knauft B. M., Genealogies for the present in cultural anthropology, Routledge, New York, London, 1996
Lévi-Strauss C., «Introduzione all’opera di Marcel Mauss», in Mauss Marcel, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. di F. Zannino, Einaudi, Torino, 1965 (1950), XV-LIV
Lévi-Strauss C., Tristi tropici, trad. di B. Garufi, Il Saggiatore, Milano, 1960 (1955)
Lévi-Strauss C., Éribon D., Da vicino e da lontano, trad. di M. Cellerino, Rizzoli, Milano, 1988 (1988)
Montes S., Antropologia come pratica dell’indisciplina, in Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023, Istituto Euro Arabo in Mazara del Vallo, ISSN 2384-9010, https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/antropologia-come-pratica-dellindisciplina/
Montes S., Attraversamenti. In viaggio, in treno, altrove, Trauben, Torino, 2023
Montes S., Vivere e morire. Una rapsodia etnografica, Il Sileno, Lago (CS), 2024.

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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco-estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive. Tiene inoltre regolarmente una rubrica di Antropologia del quotidiano nella rivista Deep Hinterland (https://deephinterland.it/category/antropologia-del-quotidiano/

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