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La cultura “sub specie ludi”. Giocare nella contemporaneità

Arpino, Corsa con la cannata

Arpino, Corsa con la cannata

di Paola Elisabetta Simeoni [*]

Insomma, per dirla brevemente, l’uomo gioca solo quando è uomo nel pieno significato della parola ed ‘è’ interamente uomo solo quando gioca (Johann Christoph Friedrich Schiller, 1795)

De longue date, la conviction s’est affichée en moi, de façon croissante, que la civilisation humaine surgit et se déploie dans le jeu, comme jeu (Huizinga 1938 in Dewitte 2015). 

La nozione di gioco può essere considerata da diversi punti di vista ed essere esplorata a vari livelli poiché vi è un’universalità in questa pratica che ha una parte essenziale nella creazione di cultura (Hamayon 2012). Svariati sono gli studiosi che si sono interessati a questo tema per esporre il quale non sarà possibile fare qui una disamina completa: cercherò in ogni modo di avanzare mie ipotesi di interpretazione del “gioco” ma specialmente del fenomeno del “giocare” oltre lo sguardo meccanicistico e dicotomico che purtroppo ancora limita il nostro orizzonte antropologico e occidentale più in generale e sembra offrire inoltre risvolti politici importanti nella temperie attuale. 

La definizione più comune viene intesa come attività infantile e anche se ancora praticata nelle attività dell’adulto è circoscritta in questi casi solo a determinate occasioni della vita. In questa sua accezione non è considerata un’attività “seria” e si caratterizza per alcuni studiosi per la “gratuità” e il piacere, specialmente in età adulta, poiché si limita ai momenti di sollazzo e di liberazione dalle attività quotidiane che pongono il gioco e il giocare in un ambito particolare della vita in società e la costringono in un’area e a un’agency separata e particolare. 

Oltre alle analisi elaborate da vari studiosi [1] che si soffermano sulla interpretazione più ristretta e più comune della nozione e che analizzeremo brevemente, vi sono due altre incursioni scientifiche sul fenomeno ludico sulle quali mi voglio soffermare. Quelle di Johan Huizinga, storico e linguista olandese, la cui prima pubblicazione sul tema è del 1933 che considera tutta la cultura, come vedremo, sub specie ludi e quelle di Donald W. Winnicott, pediatra e psicanalista che avanza l’ipotesi dell’esistenza di un oggetto e di uno spazio transizionale che applica specialmente ai primi momenti di vita del neonato. Le interpretazioni di questi due studiosi – che scelgo qui perché le considero particolarmente attinenti ai paradigmi esposti – sono a mio avviso legate da un filo rosso. Roger Caillois è lo studioso che ha analizzato il gioco nel senso tradizionale ristretto. Da lui inizierò. 

1Il gioco 

Caillois è tra gli studiosi quello che ha catalogato i giochi e lo ha analizzato con sistematicità. Egli ha svolto un importante lavoro di inventariazione dei vari tipi di giochi arrivando poi a individuare quattro categorie ludiche: Alea (la sorte, il favore del destino), Agon (la competizione, il merito personale), Mimicry (l’illusione o “in-lusio” l’entrata in gioco) e Ilinx (la vertigine, la perdita della presenza, la trance) (Caillois 1939, 1958).

L’agon è caratterizzato dalla “competizione” che viene «artificialmente creata affinché gli antagonisti si affrontino in condizioni ideali tali da attribuire un valore preciso e incontestabile al trionfo del vincitore». L’alea, termine latino che indica il gioco di dadi, è presente dove «il destino è il solo artefice della vittoria e questa, quando c’è rivalità, significa esclusivamente che il vincitore è stato più favorito dalla sorte del vinto»; la sua caratteristica è l’”arbitrarietà” e il “caso”. La mimicry, o “mimetismo”, la “finzione’’, espressa ad esempio dalla maschera o dal travestimento degli attori, supporta l’idea del carattere “illusorio” e “fittizio”, si manifesta con l’immaginazione e la libertà dell’agire anche se pur sempre in una qualche forma convenzionale. L’ilinx, la “vertigine”, «distrugge per un attimo la stabilità della percezione» e fa «subire alla coscienza, lucida, una sorta di voluttuoso panico», che dipinge come «smarrimento sia organico sia psichico» espresso dal termine greco che significa  “gorgo” e si manifesta – scrive – con una 

«gioiosa esuberanza espressa da un’agitazione immediata e caotica, da uno svago e distensione libera e spontanea [sottolineo questo concetto, vedi oltre], spesso eccessiva, il cui carattere improvvisato e anarchico resta l’essenziale, se non l’unica ragione di essere». 

Ad analizzare più da vicino queste quattro categorie ci si accorge tuttavia che possono essere presenti in misura più o meno importante nei diversi giochi concreti e che più che categorie di gioco esse sono quadri funzionali, proprietà dei processi che li animano (Simeoni 2015: 17-34). Allo stesso modo vanno a mio avviso considerate le categorie di game e play, con le quali viene trattata la nozione di gioco in ambito anglosassone, dove game risponde al senso di «insieme di competenze e di regole riconosciute», play significa «prendere parte al gioco» (Eco 1973-2002: XVII-XVIII). In realtà i due ambiti game e play sono in molti casi concomitanti ed entrano funzionalmente l’uno a sostenere l’altro, e  ciò che qui interessa maggiormente è invece il giocare come processo, che, parafrasando Mauss, si presenta come fatto sociale “totale” (Mauss 1965; Simeoni 2015). 

9788845246937_0_0_536_0_75A un ulteriore esame si nota che tali categorie caratterizzano molte delle nostre attività quando queste chiamano in causa una energia profonda e creativa e contraddistinguono molti ambiti della cultura; come già sostenuto da Huizinga, nutrono l’ambito artistico in generale e specificamente le attività drammatiche. Nelle feste li ritroviamo in particolare nelle performance carnascialesche come avevo già notato in un mio lavoro precedente (Simeoni 205): ilinx l’eccesso (abbondanza, spreco, riso, terrore), mimicry e alea il rovesciamento (inversione, ribellione, regressione); ilinx e mimicry sono ancora l’ambivalenza (riso/ terrore, sospensione, mascheramento) e nella follia (crisi dei ruoli sociali, rischio della perdita della “presenza”), agon e alea nella competizione e nella trasgressione.

Si può notare che nella “Grande Festa” (Lanternari 1976) che inaugura l’inizio dell’anno, convergono il game e il play che risultano così essere due momenti intersecantesi dello stesso svolgimento. In alcune occasioni festive è evidente come i due momenti si alternino nelle performance che la caratterizzano. L’elaborazione spontanea delle regole del gioco in tale occasione, nella organizzazione del game carnascialesco e delle sue regole, nello stabilire il set della rappresentazione, si fondono con il play, per esempio nella costruzione dei carri (Simeoni 2013b, 2017). Ci accorgiamo che l’uno serve a realizzare l’altro che si compone nella formulazione delle grammatiche e nel giocarsi, momenti concomitanti e costruttivi dello stesso gioco. Anche nel gioco infantile, come abbiamo sperimentato tutti, vengono stabilite spontaneamente le regole stesse del gioco (game) mentre le si gioca (play) e ambedue le condizioni ludiche si compongono in un unico momento esperienziale alternante che attiva la performance di un set del “fare come se” (Simeoni 2013b).  

giocoOggetti e spazi transizionali 

Donald W. Winnicott ha sviluppato un pensiero del tutto originale e pone il gioco in un’area intermedia tra l”‘interno” e l”‘esterno”, uno “spazio potenziale” che nasce tra il bambino e la madre, un’area “ipotetica” che si crea quando “finisce l’essere fuso con l’oggetto” (cioè la madre o parte di essa) tramite la creazione di un “oggetto transizionale”. Quest’area è, per Winnicott (1974), il risultato della separazione o distinzione, è un’area relazionale «che il lattante, il bambino, l’adolescente, l’adulto possono creativamente colmare con il gioco e che, col tempo, diventa il godimento dell’eredità culturale». Tale spazio potenziale si configura come spazio di creatività e di sperimentazione. «Gli oggetti transizionali e i fenomeni transizionali appartengono al regno dell’illusione che è alla base dell’inizio dell’esperienza» (Winnicott 1974: 43). Winnicott non è interessato all’oggetto in sé quanto all’uso che ne fa il bambino. Scrive nell’introduzione a Gioco e realtà: 

«… ciò a cui mi vado riferendo in questa parte del mio lavoro non è il pezzo di stoffa o l’orsacchiotto che il bambino adopera – non tanto l’oggetto usato, quanto l’uso dell’oggetto» (Winnicott 1974: 17-18). 

 Ora, il termine uso indica per Winnicott un’attvità processuale e dinamica: la creazione cioè da parte del bambino di un’area di transizione nella quale si stabilisce un rapporto di relazione che fonda la distinzione tra sé stesso e la madre, tra sé stesso e il mondo che diventa paradigmatica per il resto della vita. È la prima relazione del neonato e forse la più importante per il suo sviluppo ma non l’unica, poiché esplorando la nozione di gioco (o meglio del giocare), si analizzerà nel procedere nell’esame di questa nozione come tali processi durino tutta la vita e più ricchi saranno in valore e quantità e più la vita risulterà piena. Si tratta di formulare la ‘capacità’ di creare un ambito transizionale e quindi di realizzare il prototipo delle relazioni future, il primo atto sociale nel costruire cultura, frutto dello scambio di comunicazione tra individuo, collettività e ambiente naturale. Cultura vista in un certo senso come la trama e l’ordito di un tessuto immaginato in maniera multidimensionale funzionante a diversi livelli e in molteplici direzioni: «un’area intermedia di esperienza a cui contribuiscono la realtà interna e la vita esterna», un’illusione «concessa al bambino e che, nella vita adulta, è parte intrinseca dell’arte e della religione». Scrive infatti: 

«non sto specificamente studiando il primo oggetto dei rapporti oggettuali. Io mi preoccupo del primo oggetto posseduto, e dell’area intermedia compresa tra ciò che è soggettivo e ciò che è oggettivamente percepito» (Winnicott 1974: 26). 

I gesti del neonato fanno «supporre che il pensare e il fantasticare siano connessi con queste operazioni funzionali» che chiama “fenomeni transizionali” (Winnicott 1974: 27). L’oggetto transizionale è per il bambino quell’oggetto particolare, un “oggetto originale non-me”, un “oggetto vitale di affezione” che gli serve per creare il legame tra interno ed esterno. 

I processi ludici appaiono dunque sin dai primi mesi di vita nelle relazioni primarie, e il gioco – come analizzato da Winnicott – si sviluppa in un’area intermedia che viene creata quando finisce l’esperinza di fusione con la madre. Quest’area è il set dove «il lattante, il bambino, l’adolescente, l’adulto possono creativamente colmare con il gioco e che «diventa il godimento della eredità culturale». Come per il bambino il giocare dell’adulto «abita in un’area che non può essere facilmente lasciata e non ammette facilmente intrusioni», uno spazio “sospeso” che «non è realtà psichica interna», che è «fuori dell’individuo» ma nello stesso tempo, per l’ambivalenza che lo distingue, «non è il mondo esterno» (Winnicott 1974). E’ un microcosmo dove si elaborano le possibilità, si costruisce la relazione primaria, è spazio di creatività e di sperimentazione, lì dove si incontrano realtà e finzione. L’esperienza transizionale, con l’oggetto che la consente, è «un termine che indica la radice del simbolismo nel tempo» (Winnicot 1974) della capacità di sviluppare il pensiero simbolico e mitpoietico. La si potrebbe quindi considerare paradigma funzionale all’attività culturale e sociale futura dell’individuo e del gruppo sociale. A partire da questo momento primigenio, questa stessa operazione è ripetuta nel tempo della vita oltre l’infanzia.

Un processo dello stesso tipo sembra per esempio l’opera del bricoleur levistraussiano, così come le performance mitopoietiche, rituali, artistiche che si avvalgono di ciò che è nell’orizzonte immaginifico di referenza culturale e la trasformano. Così come succede al bambino il quale «raccoglie oggetti e fenomeni dal mondo esterno e li usa al servizio di qualche elemento che deriva dalla realtà interna o personale» (Winnicott 1974). 

In queste circostanze, viene vissuto un momento virtuale e illusorio, come quando il bambino senza allucinare [2] «mette fuori un elemento del potenziale onirico, e vive con questo elemento in un selezionato contesto di frammenti della realtà esterna» (Winnicott 1974: 99-100). 

9782020056373_1_75La cultura sub specie ludi 

Già agli inizi degli anni ‘30 del Novecento (perciò prima della pubblicazione delle prime ricerche di Winnicott e anche delle riflessioni di Caillois), Johan Huizinga (1933-2008) si chiedeva se «è lecito definire il gioco, nel senso stretto del termine, un elemento culturale», cioè un’attività peculiare all’ambito umano, poiché – annota – è presente anche tra gli animali: precede la cultura – sostiene – in senso filogenetico perché gli animali giocano e in senso ontogenetico perché il giocare è attività propria del bambino sin dai primi mesi di vita come attività motoria e perfino antecedente al linguaggio.

Egli accosta il gioco al Kula melanesiano e al Potlach dei Kwakiutl, tipo di pratiche che ritrova anche nelle antiche culture germaniche, e lo collega quindi anche alla vita economica, nella quale si possono trovare tracce di processi ludici, e che si sviluppano nella sfere relazionali della generosità, dell’amicizia, della fiducia, dell’avventura, ecc.[3]. Si spinge quindi ben oltre le interpretazioni fin ad allora e ancora in molti casi oggi espresse dagli studiosi, asserendo cioè che il gioco non è una forma tra le altre dell’attività sociale e culturale ma “la matrice stessa della cultura” [4] : «le grandi attività originali della società umana sono tutte già intessute di gioco» scrive, così è per il linguaggio con il quale l’uomo «distingue, definisce, stabilisce, insomma nomina», il mito che è «trasfigurazione di ciò che esiste» e il culto che utilizza «giochi autentici» per compiere «le sue azioni sacre». Gli ambiti stessi della ricerca scientifica e tecnica possono perfino ricadere sotto la categoria del giocare e così numerose attività quotidiane. Commenta Umberto Eco nella sua introduzione a Homo ludens (1973 – 2002) che Huizinga studia il gioco culturale come “performance”: «non fa una teoria del gioco, ma una teoria del comportamento ludico […] studia il gioco “giocato”, e il costume di giocare». 

È interessante osservare dunque come Huizinga alluda in fin dei conti alle attività umane come un sistema o un organismo ludico con funzione culturale e sociale; è il giocare la prima e azione fondante la vita relazionale che dall’infanzia si ripeterà per sempre. Una zona di sospensione spazio/tempo e liminare gravida di promesse future.

Si avvicina dunque al “paradigma della complessità” come lo intende Edgar Morin quando sostiene che la Vita vada colta «…nei suoi caratteri versatili, multidimensionali, metamorfici, incerti, ambigui, anche contraddittori» (Morin 1980) e nei suoi processi vitali. «Una cosa viva non può essere conosciuta che in stato vivo» sostiene anche Károly Kerényi (1977: 33-49) invitandoci ad avere uno sguardo attento alle processualità e alla fluidità del vitale. Scrive infatti Huizinga:  «nel gioco abbiamo a che fare con una funzione degli esseri vivi, la quale non si lascia determinare appieno né biologicamente né logicamente o eticamente» (in Eco (1973-2002). 

«Esiste forse [si chiedeva a introduzione al testo sul gioco divinatorio cinese dell’I King] una posizione intellettuale più sgradevole di quella che ci fa fluttuare nella sottile aria di possibilità non dimostrate senza sapere se ciò che si vede sia realtà o illusione?» (Jung 1910: 24). 

Huizinga  definisce dunque l’attività ludica un’area speculativa di grande ampiezza e complessità, che va ben oltre a quella del mero gioco d’infanzia e che si trova a incrociare e a contrassegnare le attività culturali più varie, come «giustizia e ordine, traffico e industria, artigianato e arte, poesia, filosofia, scienza». Egli vuole difatti dimostrare «che si tratta ben più che di un confronto retorico quando si crede di poter considerare la cultura sub specie ludi» (Huizinga 2002: 20) propendendo a considerare il gioco come una azione culturale “totale” (Mauss 1965) [5].

Nota ancora che «l’intera categoria di “gioco” si muove su un terreno sorprendentemente labile, difficile da delimitare, dove a stento si riesce a distinguere da quella di mito e di culto»; e che esso si contraddistingue per i «diversi attributi che sono costitutivi del suo stile: ritmo, reiterazione, cadenza, ritornello, forma chiusa, accordo e armonia», fino a sottolineare il legame con l’arte, «l’arte intera è legata al gioco» – sostiene. Considerazione che lega indissolubilmente il gioco alla sfera della creatività, caratteristica centrale nella disamina dei fenomeni ludici. 

Osserva ancora lo studioso che nel giocare può essere riscontrato uno stato psichico peculiare, 

«l’incredibile scissione della coscienza che determina la completa dissoluzione del soggetto in quel “qualcosa di diverso” dalla realtà tangibile espressa, immaginata, imitata, rappresentata da chi gioca, senza che, neppure per un istante, apparenza e realtà si confondano (perfino quando a giocare è un bambino)». 

Non vi è in sostanza “allucinazione” come potrebbero osservare gli psicologi/piscoanalisti ma una esperienza che, se tiene il soggetto in uno stato formalmente simile alla trance o quantomeno a uno stato alterato di coscienza, lo vede ancorato lucidamente alla realtà. Uno condizione emozionale capace di trasportarlo nelle profondità dell’inconscio senza perdere aderenza alla realtà. 

«A partire da Huizinga, gli “osservatori” del gioco vedono un passaggio che la fenomenologia ha chiamato ‘sospensione delle abitualità’ (e che Fink battezza addirittura “oasi”): si tratta delle esperienza comune a ogni giocatore secondo la quale, entrando nel gioco, si entra in uno spazio e in un tempo speciali e contemporaneamente si produce una distanza dalle normali condizioni di “realtà» (Rovatti 2008). 

Il gioco come istanza vitale irrealizzante 

Il carattere “totale” delle performance” ludiche sono riprese alla fine da diversi studiosi. Giuseppe Bianco nota che, perfino Benveniste, nell’ultima parte del Gioco come struttura, concede alle forze “bio-psico-logiche” che aveva inizialmente escluso una spiegazione di questi processi ipotizzando che anche il sistema linguistico corrisponda a una struttura comune che sottende la pluralità delle pratiche ludiche e 

«che questa abbia la sua origine in quella che chiama “struttura umana”, che immagina come un’istanza “vitale” che coincide con le forze “della vita subconscia”, con un “istinto profondo” che ha creato il gioco e che poi vi si è piegato» (Bianco  2008). 
Fossombrone, Sburla la roda

Fossocaprara, Sburla la roda

Così, secondo Benveniste (Bianco 2008), il gioco è radicato in una funzione psichica che chiama “irrealizzante”, nozione che trae da Lacan (il quale utilizza l’espressione “irrealizzazione” per designare il passaggio dal reale al simbolico). Questa nozione è stata utilizzata anche da Sartre (2004) il quale a sua volta aveva usato il termine “irrealizzazione” nelle nozioni di “immaginazione” e di “immaginario” «per designare il tipo di intenzionalità proprio della coscienza immaginativa, capace di trascendere il mondo e di porlo a distanza, nullificandolo e riuscendo così a presentificare una persona o una cosa assente». Anche Huizinga, peraltro, chiamava in ballo l’immaginazione nel sostenere che essa «funziona sempre come un gioco». 

«È sufficiente accorgersi che tanto per Sartre quanto per Benveniste – differentemente da quanto avviene nel sogno e nell’universo “incantato” dell’emozione – nel gioco l’uomo è cosciente della “magia” del mondo che ha creato». [In questo ambito] «la coscienza “irrealizzante” è riflessa, il giocatore sa che si tratta “solo di un gioco”. È proprio quest’operazione riflessiva a far sì che nel gioco, e soltanto nel gioco, come sottolinea Benveniste, la coscienza, possa vivere l’”irrealizzazione”, e non soltanto subirla, come nelle condotte emozionali o nel sogno» (Bianco 2008: 75-91). 

Secondo Benveniste – nota ancora Giuseppe Bianco – l’irrealizzazione che si manifesta nel gioco consiste nel tentativo di risolvere il difficile conflitto dell’uomo con il reale; nel gioco la coscienza riprende le strutture del sacro, ma “per gioco”, separandole dalla realtà divina, “irrealizzata”. 

Questa è la straordinaria peculiarità del processo ludico. Sébastien Kapp scrive che i giochi fanno parte di un fenomeno di «re-incanto del mondo», stabiliscono «nuovi legami con il meraviglioso, o addirittura con un atteggiamento mistico» nei quali «la finzione ha sostituito la credenza religiosa» (Kapp 2015: 93).  Propositi espressi molti anni prima da Freud (1907): 

«Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel giuoco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce, un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo […] prende anzi molto sul serio il suo giuoco e vi impegna notevoli ammontari affettivi. Il contrario del giuoco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale. Il bambino, nonostante i suoi investimenti affettivi, distingue assai bene il mondo dei suoi giuochi dalla realtà e appoggia volentieri gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale. Questo appoggio e null’altro distingue il ‘giocare’ del bimbo dal ‘fantasticare’. Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio» [6]. 

Giocare, il reincanto 

È che il giocare non va analizzato come “cosa” o come categoria come abbiamo l’abitudine di fare in ambito scientifico ma come processo che mette in comunicazione il mondo e le persone. 

«Il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo “realtà”, è la vasta rete di entità in interazione, che si manifestano l’una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte» (Rovelli 2010: 51). 

i__id12579_mw600__1xIl punto di vista della fisica quantistica ha rivoluzionato il pensiero del Novecento. Secondo questa teoria la realtà è costituita da granelli (i quanti) che hanno un’esistenza solamente attraverso le attività dinamiche delle relazioni che li uniscono (Rovelli 2010). Si potrebbe osservare che ogni manifestazione culturale è principalmente frutto di sistemi di reti interconnesse, di contatti e di dinamiche che, nell’elaborare immaginari, pratiche, vissuti, danno alla comunicazione un posto di primo piano.

Relazione e interazione sono in comunicazione continua all’interno della rete, concetto centrale per Gregory Bateson (1984, 2010a, 2010b) che fonda le sue riflessioni sulla cibernetica. In uno sforzo di destrutturazione dello sguardo (Simeoni 2022: 44 e segg.) da una parte e di “consilienza” (Wilson 1984) dall’altra ci si accorge che le distinzioni che poniamo come categorie del pensare sono sfumate e fugaci nella realtà delle cose e, specialmente per questo motivo, non riescono a spiegare la realtà vitale. Secondo il paradigma della “complessità” volto a rendere conto della vita stessa nel suo fluire che non può essere né teorizzata, né categorizzata (Morin, 1980; Bocchi – Ceruti, 1985) e se si considerasse il mondo come un organismo che si autoregolamenta, si dovrebbe necessariamente abbandonare l’orizzonte scientifico meccanicista ancora oggi in auge e studiare le dinamiche comunicative del vivere. 

Sappiamo ancora giocare? Siamo ancora in grado di trovare gli spazi per attivare set transitivi? Assistiamo in Occidente a una vera e propria reviviscenza ludica in ambito festivo, ma se si osserva il fenomeno più a fondo traspare un’esigenza di socializzazione e di condivisione delle dinamiche comunitarie che si svolgono in un quadro che, pur assegnando ancora un posto rilevante alle modalità tradizionali di fare festa, potenziano la dimensione ludica più che quella religiosa degli eventi cerimoniali. Si nota che in queste occasioni è pressante la necessità di riappropriarsi dei processi culturali che liberano la spontaneità agentiva e permettono di ricucire il tessuto di solidarietà (tracce di un ritorno alla reciprocità [7]) che nelle metropoli è reso “liquido” (Baumann, 2006) dalla globalizzazione, spezzato dall’emigrazione. Nelle località si osservano grammatiche cerimoniali e vissuti delle comunità che si riappropriano degli spazi tradizionali tramite l’uso delle grammatiche ludiche. 

Sempre più, e in maniera diffusa, il sacro di ieri diviene il giocare di oggi in una dimensione che apre a nuovi orizzonti culturali e perfino politici. I processi di sacralizzazione istituiscono complessi sistemi di relazioni che stabiliscano sistemi di legami con l’altro, l’altrove o il divino; semantizzano il mondo fisico circostante, e sono agiti con il sostegno di una fede, di performazioni rituali, di elaborazione di un racconto mitico, di un complesso sistema immaginifico che parte dal corpo e dalle sue funzioni, coinvolgono i diversi livelli del reale, la natura, il mondo degli oggetti, il corpo nella sua totalità mentale, fisica ed emozionale (Simeoni 2022, 2023). 

Se il sacro è relazione e specialmente relazione fisica (Simeoni 2023) è necessario ricostituire le trame dell’incontro in presenza con il ritorno ai Paesi d’origine o con la rivalutazione o ri-creazione delle occasioni sociali festive. La pandemia degli anni 2021-22, se ha aperto nuovi orizzonti nelle possibilità immense della rete sviluppando i contatti da remoto, l’intensificarsi dei contatti tramite i social media e le modalità in streaming e ha reso più densi i contatti a distanza (Panajia 2022), ha viceversa testimoniato la necessità del ritorno ai rapporti sociali.

Come eseguire rituali di comparatico, gettare pietre lungo il cammino, toccare lo stipite della porta della chiesa, l’immagine sacra se non in presenza? [8] Cosicché, di seguito alla solitudine provocata dai confinamenti, è esplosa l’esigenza di implicare nelle dinamiche sociali la vicinanza corporea, i gesti, le relazioni non verbali, le prossemiche nel rapporto al gruppo sociale e all’ambiente; come i canti e altre forme di condivisione esplosi dalle finestre e dai balconi delle case quasi a ricerare anche a distanza energie positive di contatto, così e alla prima occasione possibile le manifestazioni in presenza sono ripartite. 

2Il nostro corpo (microcosmo interconnesso ad altri microcosmi e a macrocosmi) fa parte in primis della rete dei multiversi la cui continua e vorticosa operosità nel percepire gli stimoli esterni e interni, è fulcro dell’interazione con il cervello (che non ha questa funzione, cioè non ha rapporto diretto con l’ambiente). In questa sua attività energetica allo stesso tempo fisica e immaginaria che si basa sulle attività neurologiche costruisce socialità e cultura; anzi è proprio l’attività neuronica – secondo Damasio – che attiva quella immaginifica. Dall’attivazione delle sensazioni e delle emozioni il cervello costruisce gli archivi della memoria del nostro essere al mondo (Damasio 2012) [9]. Di contro la dimensione fisica dell’esistenza si espande in maniera immaginifica nel contesto sociale e ambientale e lo crea. Non ci si può privare della necessità della contiguità fisica, se mai abbiamo avuto qualche dubbio prima del Covid. Ne abbiamo avuto una riprova nella temperie pandemica che ha fatto erompere la forte aspirazione a riannodare i fili spezzati delle affettività, a riproporre dinamiche di vicinanza e di comunità e a ritessere le trame dell’intimità (Broccolini 2013; Simeoni 2013a).

Inizia nelle dinamiche neuronali e mentali il ricorso all’immaginazione (Damasio 2012) (grazie alla quale si dischiude la Vita), ed è proprio nell’ambito fisico ed energetico del corpo, crogiuolo vitale di produzione e ri-produzione delle possibilità e dei contatti che si riesce a espandere le strutture dinamiche della condivisione  e della cultura. 

Nel recupero degli spazi transizionali vitali e identificanti vengono messe in atto quelle agency che si trasferiscono al sociale e sono alla base delle attività spontaneamente creatrici. Arjun Appadurai (2001) conferma che l’immaginazione «è diventata un campo organizzato di pratiche sociali, una forma di opera (nel duplice aspetto di lavoro fisico e di pratica culturale organizzata)» e «forma di negoziazione» di individui e «campi globalmente definiti di possibilità». Lo studioso nota che Zigmunt Baumann 

«usava la nozione di “de-territorializzazione”, misura della dimensione culturale non più connessa al territorio, in quanto frutto della liquidità dei rapporti sociali e dell’economia dei consumi a livello globale. In questo quadro, egli osserva che il nostro mondo è caratterizzato da una nuova centralità attribuita all’immaginazione, che prende in qualche modo il posto della tradizione espressa nello spazio comunitario. In particolar modo quando si esprime in maniera collettiva, l’immaginazione diventa “pratica sociale”; “non più pura fantasia” cioè, “non più pura via di fuga”, “non più passatempo per le élites” e “non più pura contemplazione”, è “organizzazione di pratiche sociali”, negoziazione per le azioni individuali, possibilità infinite, “l’elemento cardine” cioè “del nuovo ordine sociale”» (Appadurai 2001: 116, 238) [10]. 

Tramite i processi creativi di tali agency ripartono, elaborate prima nelle singole menti poi nell’intimità delle case e infine trasferite ai livelli comunitari o sociali condivisi, le dinamiche culturali. La relazione, immaginata ed elaborata nell’area “intermedia” e “separata” del giocare, in una dimensione fuori dalla realtà ma non disgiunta, diventa il primo ordito sul quale sviluppare la trama. 

Winnicott afferma che l’area dell’incontro e del dialogo è agìta nel gioco ed è «un’area neutra di esperienza che non verrà messa in dubbio» [11] che sarà sempre un’importante esperienza di libertà per il bambino e poi per l’adulto «tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà», cosicché l’oggetto transizionale e i fenomeni transizionali danno inizio alla vita di ogni essere umano e ne forgiano la cultura. Sostiene che 

«[...] il compito di accettazione-di-realtà non è mai completato, nessun essere umano è libero dalla tensione di mettere in rapporto la realtà interna con la realtà esterna, e [...] il sollievo da questa tensione è provveduto da un’area intermedia di esperienza [...]». 

Essa appartiene a tutti gli esseri umani e «per tutta la vita viene mantenuta nella intensa esperienza che appartiene alle arti, alla religione, al vivere immaginativo e al lavoro critico scientifico» (Winnicott 1974: 39-43) e alle attività culturali tutte (qui si ritrova il filo rosso con Huizinga). L’azione del giocare nell’area transitiva è la prima esperienza di simbolizzazione, come atto primordiale e fondamentale che si crea nella distinzione e che impronta le relazioni sociali, proprio “negli interstizi tra le culture”, negli “spazi tra l’”uno” e l’”altro” dove si costruisce qualcosa di nuovo e di complesso, che non è né l’uno, né l’altro, né l’”uno e l’altro”, ma altre e ignote invenzioni culturali» (Bhabha 2001). 

3Sacralizzare, secolarizzare, profanare, giocare. Un impegno etico e politico 

È interessante infine analizzare, nel ragionare sul giocare, le riflessioni che Giorgio Agamben elabora nell’interesse particolare che mostra per il sacro e le dialettiche tra sacro, gioco e rito specialmente nel suo “elogio della profanazione” (2005). Egli riesamina l’etimologia del sacro e del profano in ambito latino [12] e osserva che tra «usare e profanare sembra esservi una relazione particolare» poiché “religione” è ciò che viene sottratto all’uso comune, trasferito in una sfera separata e consacrato agli dèi trasferendo alla sfera sacra quello che era di uso umano.

Religio – scrive – non è ciò che lega uomini e dèi (di solito viene riferito all’etimologia latina religāre) ma ciò che li separa. Si poteva – sostiene – passare dall’uno all’altro status e perfino infrangere la sacralità di una cosa o evento e farlo per “negligenza” (che ignora per una ragione o per un’altra tale separazione) oppure per un «uso (o, piuttosto, un ri-uso) del tutto incongruo del sacro». Tale trasformazione si può realizzare anche per “contatto” (contagione): è sufficiente che i partecipanti al rito “tocchino” per esempio le carni del sacrificio per poter mangiare la parte che spetta loro e «disincantare e restituire all’uso ciò che il sacro aveva separato e impietrito». I devoti sfiorano l’oggetto sacro per condiverne la miracolosità [13]. 

Anche Agamben si pone la questione di quest’area separata ma ambigua del sacro e nota come in latino profanare poteva anche avere il senso di sacrificare. Di fatto – scrive il filosofo – l’homo sacer sembra designare una persona che è esclusa dalla comunità e può essere uccisa impunemente ma non sacrificata agli dèi ai quali di fatto già appartiene. 

profanations-giorgio-agambenCerto, come cerco di fare da tempo, se si rifiutano le interpretazioni dicotomiche, le categorie sfumano l’una nell’altra, come quella di sacro e di profano, e “consacrazione” e “profanazione” possono essere quindi considerate come processi dinamici in una rete multiversale. Allora l’homo sacer potrebbe configurarsi come un essere liminale che vive a un livello di umanità diverso dagli altri uomini, in una fera separata e ambigua. Ma questa è la caratteristica del sacro, del simbolo e perfino dell’ambito dell’inconscio, è diventato sacro anch’egli come gli iniziati, gli sciamani, i pellegrini, gli eremiti, ecc. tutti quelli che vivono in quel luogo/tempo che si trova tra il mondo di qua e quello di là, in un altrove. È interessante osservare che anche l’area transizionale, con il tramite di un oggetto facilitatore che favorisce il passaggio da un’area all’altra e permette il flusso dinamico a un ambito separato funziona analogamente all’area sacra/profana e sembra configurarsi come un set iniziatico dove l’iniziato accede, si distacca dal resto del mondo per riuscire infine rinnovato. 

La caratteristica di queste sfere secondo Agamben è un “significante fluttuante” che «transita da un ambito all’altro senza cessare di riferirsi al medesimo oggetto» accompagnato dall’ambiguità [14] costitutiva dell’operazione profanatoria (o di quella, inversa, di consacrazione)». 

«La relazione e il passaggio dall’una all’altra in epoche antiche facevano sì che permanessero residui dell’una nell’altra e viceversa. Connessione dinamica ambigua mantenuta sempre ad altissimi livelli dal potere religioso e che trova il suo punto più alto nel sacrificio della vittima, la cui espressione paradigmatica per la religione cattolica è la figura di Cristo, uomo e Dio allo stesso tempo attraverso l’incarnazione e ancora nella transustanziazione tra il pane e il vino». 

Dall’età moderna e specialmente contemporanea, tramite un processo di “secolarizzazione”, il religioso si è trasformato nella religione del capitalismo, per la quale «Dio non è morto ma è stato incorporato nel destino dell’uomo». Secondo Walter Benjamin, si tratta della secolarizzazione della fede protestante che ha dato vita alla religione della modernità [15]. È la 

«mera rimozione dei concetti teologici e dei legami di potere che lascia intatte le forze, che si limita a spostare da un luogo all’altro. Così la secolarizzazione politica di concetti teologici (la trascendenza di Dio come paradigma del potere sovrano) non fa che dislocare la monarchia celeste in monarchia terrena, ma ne lascia intatto il potere. La profanazione implica, invece, sempre una neutralizzazione di ciò che profana. Una volta profanato, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso. Entrambe sono operazioni politiche: ma la prima ha a che fare con l’esercizio del potere, che garantisce riportandolo a un modello sacro; la seconda disattiva i dispositivi di potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso ha confiscato […] Entrambe le operazioni hanno un carattere “politico”, la secolarizzazione è strettamente legata all’esercizio del potere, di cui essa si fa garante, all’opposto la profanazione “disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato. Due forme di appropriazione della nozione e dello spazio attivo del sacro. La “profanazione” «implica invece, una neutralizzazione di ciò che profana. Solo con l’azione della profanazione, ciò che era indisponibile e separato perde la sua aura e viene restituito all’uso. Entrambe sono operazioni politiche, ma la prima ha a che fare con l’esercizio del potere, mentre la seconda «disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato». 

Seguendo le riflessioni di Benjamin, il ragionamento di Agamben diventa quindi apocalittico: il capitalismo 

«generalizza e assolutizza in ogni ambito la struttura della separazione che definisce la religione. Dove il sacrificio segnava il passaggio dal profano al sacro e dal sacro al profano, sta ora un unico, multiforme, incessante processo di separazione, che investe ogni cosa, ogni luogo, ogni attività umana per dividerla da se stessa ed è del tutto indifferente alla cesura sacro/profano, divino/umano. Nella sua forma estrema, la religione capitalista realizza la pura forma della separazione, senza piú nulla da separare. Una profanazione assoluta e senza residui coincide ora con una consacrazione altrettanto vacua e integrale. [...] Ciò che non può essere usato viene, come tale, consegnato al consumo o all’esibizione spettacolare. [...] Se profanare significa restituire all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro, la religione capitalista nella sua fase estrema mira alla creazione di un assolutamente Improfanabile» [16]. 

È possibile però che vi siano delle modalità efficaci di profanare per riacquisire all’utilizzo comune riscattandolo dal potere: uno dei modi – scrive Agamben – è mediante il gioco che permette di riabilitare “astutamente” l’aura e la sfera del sacro, liberando il comportamento e aprendolo e disponendolo a un nuovo uso. Trasforma la relazione alienata in una relazione libera e spontaneamente umana, slegata dalla subordinazione politica. 

«Poiché profanare non significa semplicemente abolire o cancellare le separazioni, ma imparare a farne un nuovo uso, a giocare con esse […]. L’attività che ne risulta diventa, così, un mezzo puro, cioè una prassi che, pur mantenendo tenacemente la sua natura di mezzo, si è emancipata dalla sua relazione a un fine, ha gioiosamente dimenticato il suo scopo e può ora esibirsi come tale, come mezzo senza fine» [17].

Per Agamben le due zone attive, quella del sacro e del gioco, sono così strettamente connesse e derivano «da antiche cerimonie sacre, da rituali e da pratiche divinatorie che appartenevano un tempo alla sfera in senso lato religiosa» [18]. Già Benveniste (Bianco 2008) sosteneva che il gioco avesse dei rapporti con il sacro, e 

«che essi fossero formalizzabili; il gioco è caratterizzato dall’assenza di riferimento a un reale – fosse anche un “sur-reale” come nel caso del sacro – e nell’elisione di una delle due parti della struttura di quest’ultimo: il mito, o narrazione sacra (nel ludus), oppure il rito, o atti sacri (nel jocus [19]). Ciò ha come conseguenza l’abbassamento del divino al livello del profano, l’”esaltazione” e la “liberazione” e non, come nel sacro, l’innalzamento del profano al livello del divino, la “tensione” e l’”angoscia”». 

Non è stato così per diversi studiosi: Caillois ad  esempio confuta l’assioma che vi sia la possibilità di attribuire al gioco vere e proprie valenze sacrali e, posta la gratuità come carattere definitorio del gioco, nega l’equazione gratuità = sacralità [20] . Huizinga fonda invece le sue valutazioni del gioco sull’analogia con il sacro: «il sacro suppone una realtà, quella del divino; attraverso il rito, il fedele è introdotto in un mondo distinto, più reale di quello vero. Il gioco al contrario si separa deliberatamente dal reale», e conclude che, se il sacro appartiene a un ambito sur-reale, si può affermare che il gioco possa definirsi come agente nell’extra-reale.

Un mondo separato dove, scrive Bianco (2008), 

«la coscienza può esprimersi liberamente, a patto di sottostare alle regole del gioco, le quali circoscrivono una rappresentazione priva di contenuto (salvo quello dell’extra-realtà che il gioco crea). Benveniste definisce questa rappresentazione del mondo, innata nell’individuo, come magica [...] L’emozione, spiegava Sartre, consiste in una “brusca caduta della coscienza nel magico” e precisava che “vi è emozione quando il mondo degli utensili svanisce bruscamente e il mondo magico appare al suo posto”. Nelle condotte emozionali, la realtà umana fugge dal mondo reale, e lo sostituisce con un mondo “magico”, ma “interamente coerente”, dove gli oggetti agiscono direttamente su una coscienza cosificata» [21].

Agamben riconosce l’equazione sacro/gioco e gioco/rito e propone di riflettere sulla nozione di profanazione come passaggio dallo status di sacro legato al divino e agli dèi alla trasformazione dell’oggetto/evento sacro a “uso comune” in una sorta di dinamico capovolgimento di fronti già presente nella religiosità romana antica.

giochi-utili-alla-crescita-dei-bambiniÈ che ambedue gli ambiti, il sacro e il gioco, sono specifici processi dove si creano le relazioni, non solo quelle sociali, come una disamina antropologica o psicologica classica potrebbe far pensare, ma a una quantità esponenziale dei livelli della esistenza. La profanazione è quindi l’uso spontaneo dello spazio e del tempo, di quelle aree di creazione transitiva che sono alla base della “relazione” intesa come autoregolamentazione del corpo individuale integrato nelle sfere dell’ambiente naturale, del sociale e dell’universale.

Da qui deriva, come sostiene a ragione Agamben, una sempre più pressante etica della profanazione tramite il gioco e l’invito alla una riconquista politica all’”uso”: «restituire il gioco alla sua vocazione puramente profana è un compito politico», scrive, destinato alle generazioni a venire, poiché la profanazione «disattiva i dispositivi del potere e restituisce all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato». 

L’organizzazione della Vita in una prospettiva totale e integrata corrisponde alla messa in atto dei processi dinamici ludici in senso huizinghiano. Dovrebbe dunque essere la funzione del gioco – poiché è la chiave dell’invenzione dei processi culturali – che permette di ricomporre il degrado culturale dovuto al capitalismo liberistico sempre più dilagante e il potere di pochi, rielaborando e moltiplicando gli spazi di separazione da esso dove recuperare la spontaneità delle interconnessioni. Uno sprone al giocare sotto diversi punti di vista, dalle agency glocalizzanti alle riappropriarsi da parte di ogni individuo al proprio percorso individualizzante, al gestire con responsabilità politica il rapporto alla natura. E se il giocare si elabora nell’infanzia, esso è peraltro una disposizione umana fondamentale che deve mantenersi – a meno di non abdicare alla Vita – per tutta la durata dell’esistenza. 

Dialoghi Mediterranei, n. 73, maggio 2025
[*] Questo lavoro – rivisto e ampliato – è stato presentato al Quarto Convegno Nazionale SIAC, Il ritorno del sociale, Roma, 21-23 settembre 2023; Da questo intervento ne è seguito un altro per un incontro dell’AIEMPR intitolato Dall’esperienza transizionale alla cultura come gioco. Ripartire da Winnicott e da Huizinga per esplorare la relazione, 4 maggio 2024. Le mie riflessioni partono diversi anni addietro dal Convegno Internazionale di Studi (Fisciano-Amalfi, 30 Settembre-2 ottobre 2004) organizzato da Domenico Scafoglio dove avevo presentato una comunicazione che non pubblicai dal titolo Rischio esistenziale e svelamento del divino. Il ‘gioco della vita’. Ho pubblicato invece un successivo intervento, Giocare a far festa: creatività, socialità, tradizione al Convegno organizzato da Quirino Galli presso il Museo delle tradizioni popolari di Canepina (5-7 dicembre 2014). 
 Note 
[1] Diversi importanti studiosi hanno scritto sul gioco infantile e il gioco è stato un tema assai dibattuto nella prima metà del Novecento di cui prenderò in considerazione per brevità solo alcuni di loro. Vedi ad esempio Jean Château, Le jeu de l’enfant après trois ans, sa nature, sa discipline, Vrin, Paris 1946 e Il bambino e il giuoco (1950), La Nuova Italia, Firenze 1991;  Le réel et l’imaginaire dans le jeu de l’enfant, Vrin, Paris 1946; Il bambino e il giuoco, La Nuova Italia, Firenze 1991; Jean Piaget, La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu et rêve, image et représentation, Delachaux et Niestlé, Paris 1945. Più recentemente questo tema è stato ripreso da J. Derrida, “La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane” (1966), in La scrittura e la differenza (1967), Einaudi, Torino 1998 e ripreso con un numero dedicato nella “Revue du M.A.U.S.S.”, L’esprit du jeu. Jouer, donner, s’adonner, a cura di Alain Caillé e Philippe Chanial, n. 45 del 2015.
[2] Il corsivo è mio.
[3] L’argomento è stato ripreso dalla «Revue du M.A.U.S.S.», n. 45 del 2015 a cura di Alain Caillé e Philippe Chanial.
[4] Il corsivo è mio.
[5] Cfr. Caillé A. – Chanial. Ph.: «On défend ici l’hypothèse que l’esprit de jeu n’est pas autre chose que l’esprit du don déployé dans le registre ludique». « Et réciproquement, sans doute : que l’esprit du don n’est autre que l’esprit de jeu déployé dans le registre oblatif». «Jouer et donner seraient donc proches parents ?» (2105: 5 e nota 1).
[6] Secondo J. Piaget (1945: 155) «il gioco si riconosce da una modificazione, di grado variabile, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io [moi]» e «nel giocatore d’azzardo, paragonato all’amante e al guerriero, Caillois sottolineava “la voglia del disastro”, l’“alienazione”, la “squisita angoscia” e la fiducia nel “disequilibrio”, contrapposte alla “virtù della giustizia e della regola” in G. Bianco (2008: 83).
[7] Questo tema è stato ampiamente trattato da la «Revue du M.A.U.S.S.» e varie volte citata in questo articolo. E’ l’organo nato nel 1981 che ha come sottotitolo “Mouvement anti-utilitariste dans le sciences sociales”: «“anti-utilitarista”, critica l’economismo nelle scienze sociali e il razionalismo strumentale nella filosofia morale e politica. Rendendo omaggio a Marcel Mauss nel suo nome, ci incoraggia a pensare al legame sociale in termini di doni (agonistici) che uniscono i soggetti umani». Mette al centro delle proprie riflessioni la reciprocità, il dono, la relazione dai diversi punti di vista disciplinari. E’ un tema trattato anche da Matteo Aria e Fabio Dei in Culture del dono, Meltemi, Milano 2008.
[8] Mi riferisco al pellegrinaggio alla Santissima Trinità di Vallepietra da me coordinato per l’ICCD in P. E. Simeoni edr., Fede e tradizione alla Santissima Trinità di Vallepietra. 1881-2006, Roma Artemide 2006, le cui riflessioni elaborate sono valide per tutta la religiosità popolare.
[9] Cfr. P. E. Simeoni, 2022.
[10] Cfr. P. E. Simeoni, Prolusione al XIX Congresso internazionale “Oltre le identità. Polifonie diverse umanità” dell’Association internationale d’études médico-psychologiques et religieuses (AIEMPR), Assisi, 23-27 luglio 2013.
[11] Frase sottolineata dall’autore.
[12] Agamben cita il giurista Gaio Trebazio Testa (in D. 11, 7,2). «Giurista romano del I sec. a. C., nato forse a Velia, amico di Cicerone, dal quale ebbe dedicati i Topica. Nulla ci è rimasto delle sue opere, che trattavano (non sappiamo se in un’opera sola o in varie monografie) il diritto civile e le religiones (in nove libri). I giuristi posteriori citano spesso le sue opinioni» (Trecccani). Scrive Trebazio: «Si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso che era, viene restituito all’uso e alla proprietà degli uomini. E “puro” era il luogo che era stato sciolto dalla sua destinazione agli dèi morti e non era più “né sacro, né santo, né religioso, liberato da tutti i nomi di questo genere».
[13] Cfr. il video tratto dalle registrazioni effettuate sul terreno nel 2004 sul culto alla Santissima Trinità di Vallepietra, Il contatto con il sacro (ICCD 2010, 17 mn), regia di Paola Elisabetta Simeoni, montaggio di Emilio Di Fazio, Emiliano Migliorini.
[14] Il corsivo è mio.
[15] Agamben si riferisce qui al frammento postumo di W. Benjamin Capitalismo come religione.
[16] Il corsivo è mio.
[17] Il corsivo è mio.
[18] Agamben esemplifica: girotondo, gioco della palla, giochi di azzardo, la trottola, la scacchiera, ecc. Ricordo qui il ben noto scritto di Alberto M. Cirese che può essere riletto in questa occasione traendone spunti interessanti sul gioco come fatto sociale totale: L’assegnazione collettiva delle sorti e la disponibilità limitata dei beni nel gioco di Ozieri e nelle analoghe cerimonie vicino-orientali e balcaniche, in Atti del Congresso di studi religiosi sardi, Cagliari 24-26 maggio 1962, Padova, CEDAM, 1963: 175-193.
[19] Termine latino per “gioco”, specialmente legato alla lingua «lo scherzo salace e grossolano che fa singhiozzare di grasse risa i rozzi paesani» (Château 1946, cit.)
[20] Cfr. D. Sabbatucci 1950-52.
[21] Sartre aveva ripreso, sin dalle Idee per una teoria delle emozioni (1939), l’aggettivo “magico” dalla Mentalità primitiva di Lévy-Bruhl (Bianco 2008). 
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Filmografia
Il contatto con il sacro (ICCD 2010, 17 mn), regia di Paola Elisabetta Simeoni, montaggio di Emilio Di Fazio

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Paola Elisabetta Simeoni, laureata presso la Facoltà di Lettere della Sapienza di Roma, è stata direttrice-coordinatrice demoetnoantropologa presso il Museo nazionale delle Arti e tradizioni popolari e poi presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione dell’allora Ministero dei Beni e le attività culturali. Si occupa di patrimonializzazione dei beni DEA, di attività museali, di ricerca. Ha progettato e realizzato diversi musei DEA locali. E’ docente presso la Scuola di specializzazione in beni DEA presso la Sapienza di Roma e presidente dell’EtnoLaboratorio per il Patrimonio culturale Immateriale (EOLO). Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra cui, ultimo, Il corpo sacro. Itinerari nella durevolezza del mito, Meltemi 2022. Da una decina d’anni ha ripreso la sua attività di scultrice.

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