Stampa Articolo

Abitare e raccontare un paese di confine

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

il centro in periferia

di Moreno Miorelli 

Adoro andare in Slovenia, proprio qui dietro. Lo faccio per stare bene, per camminare, per fare benzina (costa meno), per comperare la kisla smetana (la panna acida) e mangiare il burek a Kobarid/Caporetto, la trota da Stefanu, a pochi metri dalla stazione più bella del mondo: la stazione ferroviaria di Most na Soči dove vorrei vivere e, forse, morire. E, soprattutto, per vedere la Soča, che quando entra in Italia, a Gorizia, cambia di sesso, si fa maschio e diventa l’Isonzo. La Soča che mi ha tenuto qui, quando in certi momenti di sconforto sognavo la Patagonia.

Lungo la strada, al ritorno, la radio riportava un dibattito sull’argomento principe di questi tempi: le aree interne, ovvero come riabitare i paesi, dando per scontato, finalmente, che ci sia anche un perché. Il tema è ovunque e, sospinto dall’onda, chi ha potere decisionale non può più esimersi dal trattarlo, dopo decenni di una trasversale incuria, colpevole e sciagurata. Con la consueta dissociazione tra capire e sentire, il cervello mi suggerisce che è un bene che se ne parli, che sia argomento di convegni, finalmente! anche se la pancia non riesce in certi casi a silenziare “moda”, quando non “assalto alla diligenza” (ma non lo dico a nessuno). Basterebbero poche mosse per scacciare questo sub-pensiero malandrino: chi vive in un paese sa che, ad esempio, chiudere una scuola, affidandone l’esistenza alla tagliola di un gelido numero di frequentanti, vuol dire non riaprirla mai più e mettere un alto ostacolo al trasferimento di famiglie con figli. Sa che senza una detassazione non c’è speranza per chi intraprende una attività in zone non a caso definite disagiate. Sa che chi apre un locale a Drenchia, il paese più povero del Friuli Venezia Giulia o a Ligosullo, dovrebbe essere stipendiato per il servizio che svolge e non perseguitato dai gabellieri, ma queste sono decisioni che, appunto, non spettano a chi in un paese di montagna, quella povera dove non si scia, ci vive.

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

Sono istanze ovvie, cose semplici e pratiche, ma che odorano di utopia; eppure in una situazione di emergenza, qual è quella delle cosiddette aree interne, solo la pratica dell’utopia può ribaltare il banco, non l’arrivo dalle città dei tecnocrati attratti dal PNRR e parlanti un nuovo linguaggio dove a una parola italiana segue un termine inglese. Dove salire qui diventa una “mission”. Non si tratta di moda, invece, per chi fa realmente le valigie e prende la strada dei monti, del borgo abbandonato o semi-abbandonato e ne fa la base per il suo vivere e agire. Negli ultimi anni si vedono giovani, sia singoli che famiglie, che lo fanno. Non scrivo molti giovani, perché il numero è ancora sparuto e parlare di “paese che rinasce” in quasi tutti i casi è anteporre la favola alla realtà.

Così è per Topolò/Topoluove, da dove scrivo, che di abitanti ne contava quasi quattrocento e dove oltre ai servizi essenziali, un tempo c’erano anche il costruttore di bare e l’ammaestratore di merli, e dove, non più giovane, sono ritornato a vivere quattro anni fa, più o meno nel periodo in cui il borgo passava dai dodici residenti superstiti ai sedici, poi ventuno, ventiquattro e tra pochi mesi, se tutto filerà liscio, ai quasi trenta abitatori, fissi o di base qui, con i nuovi tutti under, tranne chi scrive. Forse si tratta di un record, che si spera venga presto superato da molti altri paesi. 

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò/Topoluove

In questi luoghi di estremo confine la geografia è tutto, è il convitato di pietra, è il riferimento continuo. Perché a Topolò/Topoluove e nelle valli delle quali è parte – le valli del Natisone o Benečija – ogni discorso spaziale, politico, commerciale, emotivo, storico non può trascendere da un “di qui” e da un “di là”. Il “di là”, oltre il confine oggi italo-sloveno, è un mondo che per secoli è stato nemico: di qui Patriarcato di Aquileja poi Repubblica di Venezia, di là possedimenti asburgici; di qui Regno d’Italia, di là Austria-Ungheria; di qui Italia, di là Jugoslavia; di qui Ovest, di là-Est-Comunismo. Il punto d’incontro-scontro sempre lo stesso: nel caso di Topolò, a qualche centinaio di metri dal paese, nel bosco che circonda e assedia il paese. Cippi, paletti, croci incise sulle rocce, cortecce incise in latino e in cirillico.

Su questa divisione ci hanno marciato in molti, di qui e di là. Fisicamente con le continue ronde delle guardie di confine, e metaforicamente, tenendo alta la temperatura, allertando le popolazioni su di una possibile, imminente, invasione. Dal ’45 alla dissoluzione della Jugoslavia, la situazione poteva ricordare Il deserto dei tartari o, ancor più, la botola del kusturiano Underground. Si iniziava già a scuola, con i bambini inondati da un nazionalismo sconosciuto al resto d’Italia, come al resto d’Italia erano sconosciuti i divieti dovuti alla zona militare. Una didattica della paura, della diffidenza, dello spavento, che ha tenuto imprigionate energie, sogni, opportunità, serenità, orizzonti. Ha costretto alla fuga le menti migliori, caricando le poche rimaste di un peso enorme: non perdere il filo con la propria lingua, la propria cultura, con la normalità, a costo di un biasimo sociale che spesso portava ad atti di pesante intimidazione.

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

Il nocciolo della questione, il problema, è tutto geografico e storico. Dal VII secolo le valli del Natisone sono abitate dagli allora migranti Slavi, divisi in diverse tribù che lentamente daranno vita a lingue e culture diverse tra loro ma uniti dal ceppo di partenza: le terre tra la Vistola e il Dnjepr.  Si erano accodati ai Longobardi nel tentativo di giungere alle pianure italiche ma i Longobardi, nella guerra più esperti, li hanno stoppati qui, nelle Valli del Natisone, verosimilmente al di qua di quello che oggi è un ponte lungo una decina di metri, ponte San Quirino. Oggi, trascorsi 14 secoli, Ponte San Quirino è uno dei punti più occidentali della penetrazione Slava in Europa. «Da Ponte San Quirino a Vladivostok si parla la stessa lingua», si usa dire, intendendo il ceppo di provenienza.

La linea di confine, la storia, ha separato per molti secoli gli sloveni (questo il nome, una volta stabilitisi) delle valli dal resto di quel mondo. Chi di loro stava di qua apparteneva, appartiene per storia vissuta, a un mondo latino, ne è stato anzi difensore accanito, pur avendo lingua, cultura, tradizioni del “nemico”. Basta un semplice giro nei cimiteri d’oltreconfine per capirlo: gli stessi cognomi; solo K o H al posto di C, Š invece di S. Spostamenti, dunque, di pochi chilometri, pochi metri che equivalevano a viaggi intercontinentali, all’entrata in un altro mondo. L’identità, per chi se ne pone il problema, diventa quindi un caso complesso. Chi sono? la mia storia o la mia lingua?

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

Se facciamo un salto di secoli e di traversie, saltando quanto accadde tra qui e la nostra confinante slovena Kobarid (Caporetto) nel 1917, sorvolando sulle leggi fasciste che proibivano la lingua parlata da tutti, in casa e in chiesa, giungiamo alla seconda metà del 1945, quando le alchimie politiche decidono che il nadiško, il dialetto sloveno che è lingua madre delle valli, è anche il cavallo di Troia del comunismo che sta in agguato proprio lì, a poche centinaia di metri dal campanile di Topolò, anche se i comunisti si contavano sulle dita di una mano. Da qui una campagna ossessiva per snaturalizzare culturalmente la zona. A gestire il lavoro, l’organizzazione III Corpo Volontari della Libertà che diventerà, negli anni, Gladio e che accoglierà nelle sue file molti beneciani pronti a fare, per la centesima volta, da scudo alle mire espansionistiche (prima vere, poi presunte) del vicino.

Questo pistolotto storico-geografico è necessario per comprendere il senso dell’operare in campo culturale a Topolò e nelle valli del Natisone, dove ogni azione, anche la più innocente, è stata, volente o nolente, almeno fino agli anni Novanta, un atto fortemente politico che ha provocato intimidazioni, minacce, isolamento sociale. Invitare un poeta o un coro sloveni, utilizzare termini sloveni per una rassegna significava vedere spuntare il tricolore su molti balconi e sentire un palpabile malumore, o peggio, in più di un abitante. Ricordo che persino una mostra di icone russe fu argomento di accese e kafkiane dispute, sempre ben sottolineate dai quotidiani locali. Altri tempi, almeno si spera.

Stazione di Topolò (ph. Maria Silvano)

Stazione di Topolò (ph. Maria Silvano)

La Stazione/Postaja

A Topolò, nell’estate del ’93, ha trovato lo spazio ideale un progetto che in qualche modo ha visto confluire le esperienze vissute negli anni precedenti al mio arrivo sul confine nord-orientale. Esperienze e persone frutto di tanti incontri e di tanti spostamenti figli esclusivamente di un amore totalizzante e disordinato, folle se visto da fuori, per la poesia, la musica, il paesaggio, la storia, la mistica, l’arte. Questo progetto è poi cresciuto grazie ai contributi dei tanti compagni di strada aggregatisi, chi della zona, chi di altre parti del mondo; attratti chi dal confine, chi dallo strano nome del paese, chi da una curiosità esistenziale inesauribile. È un’avventura che è durata fino ad oggi, il suo nome è Stazione di Topolò Postaja Topolove: pensare e realizzare progetti che abbiano un senso per il luogo, che nascano da una relazione con il luogo e dal suo ascolto, ospitando, sempre all’interno del programma, interventi (documentari, concerti, narrazioni, performance, studi) che comunque siano sentiti come vicini, benché non direttamente ispirati dalle caratteristiche di Topolò. Tutto non modificando nulla, non caricando il paese di infrastrutture “da festival”, utilizzando solo ciò che già esisteva adattandone le proposte, facendo di Topolò il motore, il cuore di quanto ancora accade e non il fondale “caratteristico”. Praticando l’ospitalità nelle case, rompendo cioè quello che a causa del confine era stato per decenni un divieto non scritto. Prendendo un tempo lento, umano, il tempo di un paese: “verso sera”, “al tramonto”, “dopo”, “con il buio”, “nel pomeriggio”, “in tarda mattinata”; fuori dall’ingranaggio delle aziende culturali, anche abolendo i suoi riti, le sue liturgie e i salamelecchi per addetti ai lavori, senza sgomitare, difendendone ad ogni costo l’indipendenza. Arte, ricerca, scienza, mescolate al normale vivere quotidiano, quello di tutti, senza prime e seconde file, poltroncine e quant’altro: non il mondo dell’arte ma il mondo. In appoggio a questo progetto è nata, nel 2000, dopo sette edizioni, l’associazione Topolò-Topoluove che raccoglie tutti coloro che, in paese e fuori, danno una mano.

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

I nuovi abitanti

Non posso dire cosa di preciso abbia ricevuto chi, dall’infanzia, è cresciuto in questa atmosfera ma certo la Stazione-Postaja è stata un motivo importante per la scelta di Topolò come luogo da abitare e da frequentare per sviluppare progetti, com’è il caso della associazione Robida, che ha sede in paese, costituita da giovani, alcuni qui residenti, altri di diverse provenienze geografiche, e che cura una intensa attività culturale che spazia dall’organizzare simposi e residenze artistiche e di studio all’editare una interessante rivista (Robida) plurilingue, con contributi provenienti dai quattro punti cardinali.

La sfida, per loro, per tutti, è quella di non farsi assorbire dalle dinamiche implosive insite allo stare isolati, anche se parzialmente. Di vivere ai margini e di non perdere il contatto con il mondo grande e aperto e questo, girala come vuoi, avviene solo viaggiando, respirando tante arie, ascoltando tanti suoni, salendo su tanti treni, incontrando chi non avresti mai pensato di incontrare. Facendosi ogni tanto forestiero. Essere mobili e presenti sul posto allo stesso tempo. Mica facile, ma si può.

Topolò (ph. Maria Silvano)

Topolò (ph. Maria Silvano)

Il paese in questi anni ha visto anche l’apertura di Izba, un punto di ristoro, incontro e lavoro comunitario, a oltre quarant’anni dalla chiusura dell’ultimo locale pubblico e la rimessa in funzione di sentieri in parte o totalmente in disuso. Ancora, tra il 2000 e il 2010, Topolò ha goduto di un restauro architettonico importante e rispettoso, grazie alla Comunità Europea: case, strade interne, la grande piazza, l’illuminazione e casa Juliova: un grande edificio, luogo aperto a tutti, che è anche il quartier generale della Stazione e dell’associazione Topolò-Topoluove. A tutti appare chiaro che ad accendere l’interruttore sia stata la cultura ed è un fatto, questo, che non può passare sotto traccia.

Mi rendo conto che raccontare un paese non è impresa facile. Ogni paese, si sa, ha un suo carattere, una sua atmosfera, una sua caratteristica che lo distingue inesorabilmente da tutti gli altri e forse è proprio questa una delle differenze principali tra paese e città. All’interno di un paese, poi, ci vivono persone, la massa è inesistente; persone che per le dinamiche innestate dallo stesso borgo emergono ognuna nelle sue peculiarità, nel bene e nel meno bene, quasi si fosse tutti personaggi di un racconto. Quando qualcuno se ne va, si spalanca un buco nel paesaggio, nel testo, che nessuno può rimpiazzare. C’è un ricordo che rimane e rimane a lungo, addirittura lo si tramanda passando davanti alla sua casa, vuota o riabitata che sia. Quando qualcuno nasce, inizia una storia che riguarderà inevitabilmente tutti gli abitanti. La ricchezza di un paese, a mio parere, consiste proprio in questo ineludibile esserci per tutti, oltre che per se stessi, lo si voglia o meno. Se c’è un luogo dove non ci si può isolare, paradossalmente quel luogo è proprio il paese.

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022

______________________________________________________________

Moreno Miorelli, laureato in Scienze Storiche presso l’Università di Torino, si è dedicato per diversi anni allo studio dell’arte bizantina e alla poesia pubblicando i volumi Tre Canti (editore Campanotto), con illustrazioni di Andrea Pazienza, e Pretiosa Margarita Novella (Kellerman editore). Ha collaborato con personalità del mondo del fumetto quali Andrea Pazienza, Danijel Zezelj e Cosimo Miorelli curando la sceneggiatura di volumi illustrati, e ha tradotto dal francese diverse opere di maestri del fumetto quali Jodorovsky, Moebius, Heuet, Druillet, per la casa editrice Editori del Grifo e per La Repubblica. Nel 2013 ha scritto e pubblicato, sempre presso gli Editori del Grifo, Athos. Appunti dalla Montagna Santa, con illustrazioni di Cosimo Miorelli. Dal 1994 a oggi ha curato diverse rassegne di arte contemporanea in Italia, Slovenia e Austria, sempre privilegiando luoghi “marginali” o in stato di abbandono. Nel 1993 ha ideato il progetto socio-culturale Stazione di Topolò-Postaja Topolove del quale è direttore artistico. Suoi scritti sono apparsi su cataloghi, libri, quotidiani e riviste culturali italiane e straniere. Vive a Topolò (Udine).

______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>