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Attraverso specchi, autoritratti e rappresentazioni

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Caravaggio, Narciso, 1597-1599, Galleria Nazionale d’Arte Antica – Palazzo Barberini, Roma

di Mariachiara Modica

Ovidio nel libro terzo delle Metamorfosi, ci narra l’infausta vicenda di Narciso. Il bel giovane figlio di Cefiso e di Liriope, aveva rifiutato l’amore della ninfa Eco, causandone il suo dissolversi in suono di ritorno, e continuava a disprezzare altre ninfe e molti altri giovani, finché un giorno, uno di questi, chiede a Nemesi che gli sia fatta vendetta. Narciso, attratto da una fonte in un bel posto in mezzo ai boschi, si avvicina per bere in quelle acque limpidissime dove la sua immagine si riflette nitida come fosse in uno specchio. Il bel giovane vanitoso non si riconosce e innamorandosi di sé precipita «nel delirio dell’indistinto, tra il riflesso e la sua corporeità […] vuole afferrare ciò che vede, entra in un’inquietudine autodivoratrice inconsapevole» (Demetrio 2003a: 59-60).

La storia è ben nota, e anche il suo triste epilogo, ma vale la pena di riportare alcuni passi del dialogo che Narciso ha con la sua immagine riflessa:

 «[…] Se rido, ridi, /se piango anche tu piangi e versi lacrime/sul tuo bel viso, se ti faccio un cenno/tu mi rispondi con lo stesso cenno […] / Dunque sono io/Quel che bramo l’ho in me, pure se è un tesoro/ che non mi rende nulla. Oh se potessi staccarmi/dal mio corpo. / La morte non mi pesa se con lei/finirà questa pena, ma vorrei/ che l’amato vivesse un po’ più a lungo» (Ovidio 2011: 173).

Sfinito da un insano amore trova la morte e il suo corpo, arso nel feretro e svanito come cenere al vento, lascia il posto ad un fiore che porta il suo nome. Eros e Thanatos sono racchiusi nel microcosmo mitologico: Narciso muore e risorge per poi trasmigrare in un fiore, ancora oggi associato alle cerimonie funebri, che per il suo torpore (narkè) favorisce il recupero del mondo notturno e illusorio del sonno. «Il dramma di Narciso abbagliato da se stesso ci riporta ad un circolo chiuso che ha una stretta relazione con la morte, o meglio, con il vivere e il morire dentro se stessi in un tempo senza tempo» (Giuffredi 2010: 34-35).

L’ambivalenza che scaturisce dal mito di Narciso nasce dal fatto stesso di essere una storia di morte con «il fascino di una promessa d’amore» (Ferrari 2002: 94). Il mito ha delle importanti implicazioni per il rapporto (sebbene ambiguo) con l’immagine riflessa, quindi con lo specchio, in quanto strumento indispensabile nelle fasi di strutturazione dell’io; inoltre la storia di Narciso richiama la pratica dell’autoritratto e la tematica del doppio che ha alimentato l’immaginario letterario ed artistico di tutti i tempi.

L’idea che l’immagine riflessa crei la duplicazione di qualcosa o di qualcuno, è associata all’antica credenza che le immagini siano dotate di proprietà magiche che li rendono reali tanto quanto ciò che rappresentano. L’aura magica delle immagini sopravvive anche ai giorni nostri, e ne è testimonianza la prassi diffusa di strappare l’immagine di un ex amante o di scagliarsi contro le statue (Ferrari 1998); tutti sintomi di credenze animistiche sopravvissute come tracce mnestiche attraverso i secoli.

La pratica del ritratto, o autoritratto, di antichissima origine, ha il suo «grado zero» (Ferrari 1998: 20) nella necessità di catturare l’ombra, l’impronta o il riflesso del soggetto per compensare l’inevitabile assenza quando sopraggiunge la morte (Rank cit. in Ferrari 1998: 23-24), che è la più antica delle paure dell’essere umano. La morte è perdita d’identità e l’identità si costruisce anche e soprattutto attraverso la propria immagine: il dialogo che s’instaura tra soggetto e ritratto o autoritratto non potrà mai prescindere da questa matrice antropologica.

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Petrus Christus, Sant’Eligio nella bottega di un orafo, part., 1449, Metropolitan Museum, New York

Inoltre, allo specchio sono sempre state associate connotazioni sia positive che negative, attraverso l’ambivalente accostamento di un ventaglio polisemico di proprietà, quali: «veritas, prudentia, sapientia, imitatio, vanitas» (Stoichita 2001: 92). Quando usiamo lo specchio partiamo dall’assunto che esso «dica la verità» (Eco 1985: 19), poiché è una protesi affidabilissima che consente di vedere sostanzialmente come siamo e come ci vedono gli altri, dà conferma della nostra esistenza corporea e sappiamo utilizzarlo a livello percettivo e motorio perfettamente perché abbiamo familiarizzato con le regole della catottrica.

D’altro canto però, l’immagine speculare alimenta la continua tentazione di vedere un altro sé dentro lo specchio. Questo fenomeno illusorio «funziona come se ci fosse una duplicazione del mio corpo oggetto, e del mio corpo soggetto che si sdoppia e si pone di fronte a se stesso […] tutto ciò fa dell’esperienza speculare una esperienza assolutamente singolare, sulla soglia tra percezione e significazione» (ivi: 24).

L’esperienza in questione spiegherebbe tutta una serie di leggende connesse alle sue proprietà magiche che per secoli hanno alimentato l’immaginario popolare e la cui eco è ravvisabile tutt’oggi, ad esempio nell’usanza, diffusa in numerose culture, di coprire gli specchi in presenza di un defunto per far sì che la sua anima non vi si rifletta e rischi di rimanervi intrappolata; l’anima, dunque, abiterà il corpo del defunto durante la fase di veglia per poi seguirlo durante la sepoltura staccandosi pacificamente dal proprio ambiente domestico (Frazer cit in Ferrari 2002: 99).

Tuttavia, lo specchiarsi e il riconoscere la propria immagine come familiare, costituisce un passaggio necessario per la costruzione unitaria e coerente dell’immagine di sé, come hanno sottolineato tra i primi lo psicologo Henry Wallon e lo psicanalista Jacques Lacan, che nel 1936 intitolava un suo intervento L’immagine dello specchio come formatore della funzione dell’io (cit. in Ferrari 2002: 78-84).

Il bambino non prima dei diciotto mesi di vita comincia a dare una forma unitaria a quelle parti del suo corpo che prima percepiva in frammenti e pian piano s’identifica nell’immagine allo specchio. In sostanza, ha luogo quel processo di riconoscimento in un io alienato che presuppone l’oggettivarsi in quell’immagine altra (Ferrari 2010). È un’identificazione che Lacan definisce «immaginaria in quanto il bambino si identifica con una figura che non è lui stesso ma che gli permette di riconoscersi, cioè di integrare la propria immagine con il proprio corpo […]» (Ferrari 2002: 79). È un’immagine funzionale al suo riconoscimento in una forma unitaria.

L’identità necessita l’alienazione e l’esternazione del punto di vista, il vedersi fuori da sé e poi attraverso gli occhi degli altri per tutto il resto della vita.  Considerata questa fase iniziale nella formazione del soggetto, lo specchio si configura come «fenomeno-soglia che marca i confini tra immaginario e simbolico» (Eco 1985: 12).

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Francis Bacon, Autoritratto, 1971

La visione della propria immagine riflessa sarà confortevole e familiare se lo sguardo della madre verso il proprio figlio, nei primi mesi di vita, è stato rassicurante e accudente. Chi ha potuto riconoscersi nel volto materno si guarda allo specchio letteralmente attraverso gli occhi stessi della madre ritrovandovi un’immagine familiare e per così dire addomesticata, inoltre «potrà vedere più facilmente negli altri parti di sé» (Ferrari 2002: 88). In caso contrario, guardarsi allo specchio costituirà un’esperienza Unheimlich (perturbante) [1], di frammentazione e di estrema conflittualità con il senso d’identità personale.

Lo psicanalista e pediatra Donald Winnicot (1974 cit. in Ferrari 2002), in tal senso, ricorda il noto esempio degli autoritratti distorti dell’artista Francis Bacon come risultato di un rispecchiamento problematico con il volto materno. L’artista deforma violentemente i volti umani che «risultano degli ectoplasmi senza possibilità di un riconoscimento fisiognomico» (Revel cit. in Demetrio 2003b: 222).

Nonostante il processo d’identificazione con la propria immagine speculare si formi nei primi mesi di vita, lo specchio accompagnerà il processo identitario per tutto il resto dell’esistenza individuale, poiché il ritrovarsi nella propria immagine e la definizione della propria identità non saranno mai da considerarsi processi conclusi.

Lo specchio, soprattutto in momenti particolari della vita (Ferrari 2010), come può essere l’esperienza di una malattia che crea delle trasformazioni fisiche importanti, viene interrogato per sentirsi nuovamente a proprio agio con un’immagine che non coincide più esattamente con le aspettative interiori. Questa caratteristica, propria dell’essere umano, di cercare conferme identitarie nell’immagine speculare, spiega l’esigenza profonda di oggettivare il proprio riflesso, catturandolo in un ritratto.

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Roman Opalka, Autoritratti, 1965-2011

La funzione primaria del ritratto e dell’autoritratto, lo ribadiamo, va individuata proprio nella necessità di catturare l’ombra, l’impronta o l’immagine virtuale che si riflette in uno specchio per avere un controllo attivo sul senso di identità individuale che è mutevole, così come mutevole è lo scorrere del tempo e i segni che esso lascia sul corpo. È ciò che emerge nella prassi autoritrattistica che l’artista Roman Opalka (1931-2011) ha condotto a partire dal 1965 e per oltre quarant’anni, eseguendo degli autoritratti fotografici identici giorno dopo giorno, per creare un controllo attivo sul lavorìo che il tempo lentamente e inesorabilmente eseguiva sul suo corpo (Ferrari 2010). Ci si autoritrae per esorcizzare la morte e per estendere i limiti dell’oggettivazione del proprio essere e sperimentare l’identità.

In particolare, con la fotografia sembra esser diventato realtà il sogno di unire componente speculare e impronta: la fotografia infatti, essendo impronta di luce, «costituisce una magica garanzia di contiguità tra realtà e rappresentazione» (Ferrari 2010: 15). Ombra, specchio e macchina fotografica si ritrovano prodigiosamente unite in un celebre autoscatto di Ugo Mulas, Verifica n.2, del 1971. Egli era solito dire che «[il fotografo] è sempre preso in un gioco di luce: tra il riflesso in alto a sinistra, di abbaglio del sole riflesso nello specchio, e l’ombra, naturalmente, profonda, nera, che è quella del fotografo» (Grazioli 2010: 93).

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Ugo Mulas, Verifica n.2, 1971

Lo specchio ha il potere magico di trasformare in rappresentazione l’oggetto/soggetto che vi si riflette, quindi è legato alla pittura e al problema generale della rappresentazione visiva. È particolarmente rilevante che il mito di Narciso, tra i tanti significati simbolici, sia stato considerato a partire dal Rinascimento, con l’Alberti, metafora della nascita della pittura (Ferrari 2002; Demetrio 2003b). Nonostante Narciso non arrivi ad oggettivare, rappresentandola, la propria immagine, alla fine la riconosce come altra da sé (presupposto di ogni pratica autoritrattistica), anche se non riesce ad uscire dall’incanto autoerotico della sua visione.

Il problema della rappresentazione nelle arti visive sta tra semiosi e mimesi e non può prescindere dal dialogo con lo specchio. Questo spiega la quasi ossessiva presenza degli specchi all’interno delle rappresentazioni pittoriche, soprattutto in ambito fiammingo e nel corso del XVII secolo. Il problema s’innesta in una cultura  ̶  in seguito alla rivoluzione artistica operata dal Rinascimento  ̶ che intende le arti visive come «specchio della realtà» (Stoichita 2001: 188).

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Jan Van Eyck, Ritratto dei Coniugi Arnolfini,  1434 National Gallery Londra

Certamente uno degli esempi più antichi e più noti in cui appare uno specchio in un quadro è il Ritratto dei Coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck del 1434. Lo specchio, in fondo alla parete, al centro della pittura, riflette due personaggi che occuperebbero la posizione ideale dello spettatore che osserva la scena (uno dei due è stato variamente interpretato come un possibile autoritratto dell’artista). Qui lo specchio è protesi estensiva dello spazio della rappresentazione e non è più uno strumento passivo che ha bisogno di qualcuno o qualcosa per trasmettere un’immagine. «Se posso vedere nello specchio un’immagine senza vedere davanti a esso il rappresentato, solo allora l’immagine che io vedo sarà anche segno: aliquid pro aliquo» (ivi: 188).

Lo specchio ha una cornice, come un quadro, è dunque rappresentazione di una rappresentazione, «strumento e segno» (ivi: 196) di riflessione metapittorica ed esistenziale. Questa idea sembra essere suggerita in maniera alquanto esplicita in uno degli autoritratti più famosi della storia dell’arte: L’Autoritrattro in uno specchio di Parmigianino del 1524.

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Parmigianino, Autoritratto in uno specchio, 1524, Kunsthistorisches Museum di Vienna

Con Parmigianino il quadro si fa specchio e diventa protagonista dell’opera e la superfice riflettente convessa, rendendo sproporzionatamente più grande la mano destra dell’artista, evoca il fare pittorico. L’artista si colloca sulla soglia di una visione che da immagine speculare si fa quadro e viceversa.  Egli arriva al cuore della questione dell’autorappresentazione e del gioco riflessivo: lontano (geograficamente e concettualmente) dagli esempi fiamminghi, non usa lo specchio come protesi estensiva, come nel caso visto del dipinto di Van Eyck, o come in tutta una serie di mirabili autoritratti con specchi.

Fra le tante opere attraverso i secoli che hanno tradotto in rappresentazione visiva il rapporto tra specchio e autoritratto va ricordata la litografia di M.C. Escher del 1935, Mano con sfera riflettente:

«Sulla mano del disegnatore c’è una sfera riflettente. In questo specchio egli vede un’immagine molto più completa dell’ambiente circostante, di quella che avrebbe attraverso una visione diretta. Lo spazio totale che lo circonda  ̶  le quattro pareti, il pavimento e il soffitto della sua camera  ̶  viene infatti rappresentato, anche se distorto e compresso, in questo piccolo disco. La sua testa, o più precisamente, il punto fra i suoi occhi, si trova nel centro. In qualsiasi direzione si giri, egli rimane il punto centrale. L’ego è invariabilmente il centro del suo mondo» (Escher 2016: 17).
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M. C. Escher, Mano con sfera riflettente, 1935

Il fatto che lo specchio alimenti l’illusorietà della rappresentazione e che evochi la tematica del doppio, ce lo ricorda anche Magritte nel dipinto La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James) del 1937 (Paquet 2015), che rappresenta, con uno stile figurativo realistico, quasi fotografico, un uomo di fronte allo specchio visto di spalle la cui immagine speculare appare anch’essa di spalle. Ciò che sorprendentemente accade è che il soggetto della rappresentazione invece di riflettersi normalmente sembra duplicarsi, come se ci fosse un altro uomo, lo stesso, dentro lo specchio. Inoltre il dipinto risulta particolarmente ambivalente nel momento in cui ci si accorge che c’è un libro (Le avventure di Gordon Pym di E.A. Poe) posto sulla mensola, che, stavolta, si riflette normalmente allo specchio.

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René Magritte, La riproduzione vietata (Ritratto di Edward James), 1937

Magritte inserisce interferenze percettive all’interno di una confortante rappresentazione; l’uso dello specchio (strumento di mimesis per antonomasia) è l’espediente prediletto per creare rumori e distorsioni nella visione addomesticata dello spettatore. Tra le tante interpretazioni del dipinto si potrebbe aggiungere che il libro, a differenza del soggetto che appare come doppio dentro lo specchio, altro da sé, segua le consuete leggi della catottrica senza metterle in discussione perché è privo di coscienza.

Magritte probabilmente ci ricorderebbe anche che ce n’est pas un miroir: questo non è uno specchio ma una rappresentazione e non dovremmo neppure porci il problema che lo specchio funzioni correttamente.

Lo specchio, lo abbiamo visto è legato a doppio filo con il problema della rappresentazione visiva ed è anche un vero e proprio

«emblema dello sguardo del pittore. L’immagine speculare accenna nelle cose il processo della visione […] Lo specchio appare perché io sono vedente-visibile, perché esiste una riflessività del sensibile, che esso traduce e raddoppia. Attraverso lo specchio, il mio esterno si completa, tutto ciò che ho di più segreto passa in questo viso, questo essere piatto e chiuso, di cui già sospettavo l’esistenza vedendo il mio riflesso […] il fantasma dello specchio trascina fuori la mia carne […] è lo strumento di una magia universale che trasforma le cose in spettacoli e gli spettacoli in cose, me stesso nell’altro e l’altro in me stesso» (Merleau-Ponty 1989: 27).

Il riflesso in uno specchio, quell’attimo fissato in una foto o in un ritratto ci parla di «essenza ed esistenza, immaginario e reale, visibile ed invisibile: la pittura confonde tutte le nostre categorie, dispiegando il suo universo onirico di essenze carnali, di rassomiglianze efficaci, di significazioni mute» (Merleau-Ponty 1989: 28). Nessuna rappresentazione visiva, per quanto fedele, può restituire la complessità né del reale né tantomeno dell’essere umano, anche perché il processo stesso di traduzione in immagine presuppone delle inevitabili scelte, cesure e menzogne (Piccini 2010).

Ritratti e autoritratti, siano essi pittorici o fotografici, sono da considerarsi «il livello più alto di autoreferenzialità, perché enfatizzano la somiglianza all’originale che cerca di giustificare la propria esistenza» (Demetrio 2003b: 212); essi implicheranno sempre delle componenti finzionali che li metteranno in discussione, ma che, allo stesso tempo, costituiscono il presupposto esistenziale per conoscere sé stessi. La ricerca di sé e la sperimentazione della propria identità si delineano, in ultima analisi, come un infinito gioco di specchi, rimandi, rifrazioni e riflessioni.

Dialoghi Mediterranei, n. 45, settembre 2020
 Note
 [1] Il perturbante è un noto saggio di S. Freud del 1919, in cui viene descritto tale sentimento come quella sensazione che sopraggiunge quando ciò che è familiare (heimlich) si tramuta improvvisamente in non familiare (unhemlich), creando un dolceamaro spaesamento cognitivo ed emotivo. Termine che sintetizza bene l’inquietante sensazione che sopraggiunge quando l’immagine allo specchio o congelata in un ritratto appare inaspettatamente estranea a quell’immagine interna che ci si era costruiti fin a quel momento.
Riferimenti bibliografici
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Eco U. (1985), Sugli specchi e altri saggi. Il segno, la rappresentazione, l’illusione, l’immagine, Bompiani, Milano.
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Ovidio (2011), Le metamorfosi, trad. it a cura di Scaffidi Abbate M., Newton Compton Editori, Roma.
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Piccini F. (2010), “Verità e menzogna negli autoritratti fotografici”, Ferrari S., Tartarini C. (a cura di), AutoFocus. L’autoritratto fotografico tra arte e psicologia, CLUEB, Bologna: 143-154.
 Rank O. (1979), Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, trad. it, SugarCo, Milano.
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Stoichita V.I. (2001), L’invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, trad. it,  Il Saggiatore, Milano
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Mariachiara Modica, ha conseguito la Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Alma Mater Studiorum -Università di Bologna con tesi di laurea dal titolo: “La Collezione olandese De Stadshof. Peculiarità di una raccolta d’arte outsider approdata nel museo Dr. Guislain in Belgio”. Attualmente insegna presso gli istituti secondari di secondo grado, parallelamente continua ad approfondire il discorso sull’arte, in particolare contemporanea, da un punto di vista fenomenologico e semiotico; il linguaggio artistico come campo d’indagine delle dinamiche socio-culturali e generatore di azioni politiche.

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