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Uno svincolato vincolo di appartenenza. La cittadinanza dei piatti in cucina

Leonardo da Vinci, Studi del cranio e del cervello (foglio di Weimar), Schlossmuseum, Weimar

Leonardo da Vinci, Studi del cranio e del cervello (foglio di Weimar), Schlossmuseum, Weimar

per la cittadinanza

di Valerio Cappozzo

Quando si parla di fuga dei cervelli il mio corpo si sente ignorato. Sarà perché vivo fuori dall’Italia da parecchi anni e ci vivo con tutto il mio peso. Nel dire però che siamo cervelli che fuggono dalla terra d’origine si pecca di leggerezza oppure, al contrario, veniamo associati a chi veramente è emigrato dal nostro Paese in circostanze ben più drammatiche durante il Novecento. Noi italiani odierni lo facciamo non perché ci manchi il pane, ma perché sa di sale.

In un mondo che si definisce globale, l’idea di cittadinanza e di nazionalità è oramai un concetto molto ristretto.

Possiamo comunicare con tutta la Terra in ogni momento e in diversi modi eppure se uno sceglie o deve trasferirsi all’estero per un lavoro intellettuale diventa un cervello che vola via, anche se sarebbe meglio dire una potenzialità che il Paese di origine perde lasciando al nuovo di guadagnarne le qualità. Ma in questo innesto con una nuova cultura, nell’opinione comune, continua a essere dimenticato il corpo che a fatica segue le avventure della mente. Ma è la fisicità che rende concreta l’eredità umana e fare figli, nel mio caso specifico in America, ha portato a svincolarsi dai confini regionali e nazionali connaturati, vigendo negli States lo ius soli, e così le mie figlie sono appunto americane.

Allora siamo un cervello e due bambine che l’Italia ha perduto o, per vedere il bicchiere mezzo pieno, un organo e due creature che l’America ha guadagnato. Fatto sta che il corpo resta inascoltato e si muove errando come un apolide. Per nutrirlo e farlo sentire confortato, affrontiamo la questione delle origini e della cittadinanza, quindi dell’appartenenza a un luogo, pensando a quello che mangiamo e che caratterizza più di tutto la cucina italiana: la pasta e l’olio extravergine d’oliva. 

Giuseppe Arcimboldo, L'imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno, 1590, Castello di Skokloster, Håbo

Giuseppe Arcimboldo, L’imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno, 1590, Castello di Skokloster, Håbo

Questi prodotti sublimi e diversissimi a seconda delle regioni sono, tra gli altri, il marchio mondiale dell’italianità. Se ne possono aggiungere diversi ancora, ma la pasta e l’olio occupano a diritto le nostre tavole da millenni. Li consideriamo italiani eppure anche loro sono prodotti emigrati dalla propria terra di origine: la prima nasce come innovazione del cibo beduino, l’essiccazione dei prodotti che sotto il sole cocente d’Arabia non permetteva il trasporto di cibi freschi. Per questo motivo nella cucina araba le spezie come il grano macinato con aggiunta di acqua passano nel processo di essiccazione che viene adottato nella Sicilia del X sec. d.C. In Israele già leggiamo la composizione di un impasto di farina e acqua che veniva steso, tagliato a strisce e condito con legumi intorno al V sec. a.C. Anche Aristofane e Orazio citano il composto nei loro scritti, come nell’affresco etrusco della Tomba dei leopardi, a Tarquinia, sono stati riconosciuti tra le pietanze dei pici, pasta toscana lunga fatta con acqua e farina. I bassorilievi in stucco sui pilastri della Tomba dei Rilievi a Cerveteri, o della Grotta Bella, del III sec. a.C., rappresentano gli utensili da cucina utili a stendere la sfoglia della pasta. Compaiono infatti un mattarello, una rotella e un sacco di farina insieme a un mestolo per versare l’acqua. Oppure, l’origine della pasta è asiatica, portata in Occidente da Marco Polo nel 1200, dove al posto del grano si usava la farina di riso, un cereale ad alta conservazione.

In qualunque parte del mondo la pasta abbia le sue origini, quello che si rileva è il suo sviluppo e usi che se ne fanno oggi. Lo stesso potrebbe valere per le figlie di un immigrato che acquisiscono di diritto la nazionalità del Paese in cui vivono, d’altronde non definiamo la pasta di grano araba, ma italiana perché nella cucina italiana è maggiormente usata.

[Fig. 3 Salvador Dalì, Divina Commedia - Inferno XXVIII - Bertrand de Born, 1960]

Salvador Dalì, Divina Commedia – Inferno XXVIII - Bertrand de Born, 1960]

Un altro esempio ci viene dall’olio d’oliva anch’esso con una storia affascinante e millenaria. Le prime testimonianze si hanno addirittura intorno al 4000 a.C. in India, Armenia e Palestina, dove si adoperava come unguento per il corpo, mentre i Greci cominciarono intorno al 2500 a.C. a regolarne la produzione e quindi il commercio per fini alimentari. Qui si macinavano le olive pressandole tra due tavole di legno mischiando il prodotto con erbe aromatiche. Nell’Impero Romano, dove divenne anche una forma di pagamento insieme al sale, Plinio il Vecchio descrive nella sua Naturalis Historia del I sec. d.C. la fabbricazione delle essenze profumate a base di olio d’oliva, differenziandone le qualità a seconda del metodo di spremitura e tipologia delle olive. L’olio veniva usato specialmente per la combustione e dare luce alle lanterne, prima ancora che come alimento.

Anche in questo caso quando si parla di olio non facciamo mai riferimento alle sue origini geografiche ma al territorio, l’Italia, in cui se ne fa più largo uso. Se è vero (come è vero) che un prodotto assume il vincolo di appartenenza territoriale a seconda dell’utilizzo e della tradizione che ne vengono fatti, è altrettanto vero che il prodotto, pur viaggiando, rimarrà segno particolare del suo luogo d’origine, andando ad arricchire le cucine estere. 

Il macinato di grano e la spremitura delle olive hanno intrapreso viaggi millenari prima di trovare radici stabili in un perimetro regionale e nazionale. Oggi la maggior parte del grano e delle olive provengono dall’estero mentre le primizie italiane sono vendute sul mercato internazionale. Un via vai di materie prime, lavorazioni, impaccamento, marketing, distribuzione per arrivare a dire: dove c’è un tipo di pasta c’è casa. Nulla di più lontano dal concetto di casa che abbiamo in mente che a definirla con le parole del premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz, «la tua casa non è dove sei nato. Casa è dove cessano tutti i tuoi tentativi di fuga».

E, difatti, la stessa cosa accade per l’essere umano. Prodotto della sua terra, una volta maturo è pronto ad andare in giro senza perdere l’identità ma mescolandola con il nuovo e a sua volta creando forme nuove, risultato di una o più culture unite insieme. Una sorta di risotto allo zafferano, piatto simbolo di Milano con l’uso di una spezia mediorientale introdotta in Europa attraverso la Spagna andalusa. Gli innesti hanno definito nella storia le identità patrie come le conosciamo oggi, e ogni forma di patriottismo campanilistico è in realtà un controsenso storico.

C’è una frase di Marco Aurelio che rende bene il concetto: «ho per mia patria Roma, ma come uomo ho il mondo». E gli esseri umani sono fatti, si sa, di corpo e cervello uniti insieme. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021

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Valerio Cappozzo, Professore di letteratura italiana all’University of Mississippi e direttore del programma di Italianistica, è specializzato in filologia materiale e critica letteraria. Autore del Dizionario dei sogni nel Medioevo. Il Somniale Danielis in manoscritti letterari (Leo S. Olschki 2018) si occupa di rapporti culturali tra il Medio Oriente e il mondo latino nel Medioevo e nel Rinascimento. Studioso di poesia italiana moderna e contemporanea è membro del comitato scientifico di diverse collane e riviste letterarie e filosofiche, presidente dell’Associazione Amici di Leonardo Sciascia, vice-presidente dell’American Boccaccio Association e co-direttore della rivista «Annali d’Italianistica».

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