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San Paolo, la più grande città italiana: sguardi incrociati

mmigrati in posa per una fotografia nel cortile centrale dell'Hospedaria dos Imigrantes , ca. 1890

Immigrati a San Paolo nel cortile centrale dell’Hospedaria dos Imigrantes, 1890

di Marcia Gobbi, Franco Pittau, Alexandre Ragazzi, Maria Cristina Stello Leite e Sandra Waisel [*]

1. San Paolo tra le due sponde dell’Oceano 

La storia delle migrazioni italiane si protrae da oltre un secolo e mezzo. La Costituzione repubblicana ha preso in considerazione anche i cittadini italiani residenti all’estero. Essi, dagli anni Duemila possono votare i propri rappresentanti in Parlamento, ma neppure questo importante riconoscimento ha consentito di superare del tutto una certa separatezza tra “gli italiani di qua” e “gli italiani di là”, specialmente quando essi non hanno la cittadinanza italiana.        

Il presente saggio invita a ritenere che si può essere concretamente italiani anche per origine e non solo per il possesso della cittadinanza. È fondato dire che la città di San Paolo, con più di quattro milioni di residenti che hanno almeno un progenitore nato nella penisola, è la maggiore città italiana perché è più grande di Roma e Milano prese insieme.

Tutti gli italiani all’estero, inclusi quelli senza la cittadinanza, sono portatori di italianità. Tra loro vi sono personaggi di spicco e persone comuni, ma non per questo meno importanti per l’impegno da loro profuso, quanto meno all’interno della propria famiglia, e hanno lasciato un’eredità a chi è venuto dopo di loro. Questo lascito è costituito da aspetti familiari, educativi, sociali, religiosi e anche economici, ed è stato realizzato nell’ambito di una storia svoltasi alla base, un protagonismo dal basso, molto spesso anche di gruppo.

Ciò porta a soffermarsi su diversi aspetti: la pratica linguistica, la dedizione nel lavoro, la condivisione nella fede, la solidarietà praticata tramite le Società di mutuo soccorso, l’avvio di esperienze imprenditoriali a livello individuale o associato, l’impegno civico nel Paese d’accoglienza e i legami stretti con gli autoctoni: un humus d’insieme che fa da sfondo anche ai grandi personaggi, alcuni dei quali verranno qui ricordati. Il Paese ospitante deve considerare maggiormente questo positivo apporto e collettivo rispetto ad aspetti parziali non sempre soddisfacenti e il Paese di origine ha motivo di essere orgoglioso dell’esito della sua storia di emigrazione, iniziata peraltro non sotto i migliori auspici.

L’Europa, che nell’ultimo dopoguerra aveva un’incidenza di circa un quinto sulla popolazione mondiale, ha ridotto la sua quota al 5%. L’Italia, alla pari degli altri Paesi, in ragione della sua avanzata industrializzazione, della sua tecnologia, della sua eccellenza in diversi settori (dall’alimentazione al design), per mantenere le posizioni raggiunte deve continuare a far valere la sua dimensione mondiale. In questa prospettiva geopolitica è doveroso prestare attenzione con concretezza agli italiani che vivono all’estero, così come da parte del Paese estero (nel nostro caso, da parte del Brasile e segnatamente da parte della città e dello Stato di San Paolo), si deve tenere conto dell’apporto differenziale che hanno dato e continuano a dare gli italo-brasiliani.

Questa ricerca si propone di prestare attenzione a quello che gli italiani hanno realizzato nella città di San Paolo dove, considerate le sue dimensioni, il loro apporto ha rivestito aspetti di grande rilevanza e assume un significato che va ben oltre questa metropoli e l’immensa nazione brasiliana. Questa rilettura dell’esperienza “paulistana” scaturisce da “sguardi rincrociati” di “italiani insediati sul posto” e a “italiani rimasti in Italia”, che hanno unito le loro specifiche sensibilità per presentare l’esperienza italiana a San Paolo in maniera più completa, intensa e attrattiva. Da parte degli autori italo-basiliani c’è stato un comprensibile orgoglio nel porre in evidenza quanto realizzato dalla propria comunità. Da parte italiana si è colta l’occasione così stimolante per soffermarsi sulle implicazioni più significative di tale esperienza. Insomma, si è trattato, rispettivamente, di un viaggio della memoria e di un viaggio della scoperta, con un incrocio di per se stesso positivo e creativo, mediato dalla lingua italiana, che auspicabilmente susciterà interesse.

L’insegnamento e la pratica dell’italiano, curati nell’ambito di un quartiere romano (dal Gruppo Welcome della Parrocchia S. Pio X), sono stati il legame che ha unito gli autori dell’articolo e gli altri che vi hanno partecipato con i loro suggerimenti. Ad esempio, Priscilla Silvestre, paulistana e tuttora residente a San Paolo, è figlia di genitori calabresi emigrati da giovani in Brasile. Ha imparato l’italiano durante la redazione di questo articolo e si è soffermata con i suoi ricordi sui quartieri “italiani” della città, luoghi della sua abitazione e delle sue frequentazioni durante la sua gioventù. Anche la madre Maria, coinvolta in qualche modo in questa esperienza linguistica, ha provato l’emozione di riparlare l’italiano dopo decenni.

A sua volta Lisandra Ogg Gomes, docente di scienze dell’educazione, ha utilizzato il suo anno sabbatico in Italia anche per studiare, parlare e scrivere l’italiano e non solo ha intessuto fruttuose relazioni socioculturali ma anche prodotto un saggio sui punti di contatto tra l’impostazione brasiliana e quella italiana sul tema dell’educazione dell’infanzia e ha favorito l’inserimento di Alexandre Ragazzi (suo marito) e di Marcia Gobbi nella redazione di questo saggio [1].

Non meno interessante è il percorso di Sandra Waisel (nome del nonno austriaco, mentre la nonna Cesira Gasparini, era originaria della provincia di Trento, al tempo sotto l’Austria). Dopo aver perfezionato la conoscenza linguistica nel corso di differenti soggiorni in Italia, si è prestata a essere insegnante dell’italiano come seconda lingua ad alcuni immigrati nell’ambito delle attività del Gruppo Welcome e a partecipare a questo impegno redazionale [2]. Bisogna aggiungere che diverse attività pubblicistiche o convegnistiche, promosse in Brasile dalle professoresse Lisandra Ogg Gomes, Marcia Gobbi e Rosali Rauta Siller (un’altra docente che sta ultimando in Italia gli studi post-dottorato) hanno coinvolto, come redattori o come relatori, protagonisti italiani.

Queste precisazioni intendono mostrare che le riflessioni qui sviluppate sull’italianità, sia come eredità del passato migratorio che come attuale base della progettazione, non sono una mera esercitazione teorica. 

Monumento dell'indipendenza del Brasile

Monumento dell’indipendenza del Brasile

2. La grande metropoli odierna [3]

San Paolo ha una posizione invidiabile. Si trova in una zona collinare a circa 800 metri sul livello del mare. Il clima, gradevole, sì colloca tra il subtropicale e il temperato. La città è attraversata dal fiume Temete, in parte navigabile. È solo di 70 chilometri la distanza da Santos, il principale porto del Paese, che accolse la moltitudine di immigrati di provenienza dall’Europa. La densità abitativa della città è di circa 8.000 persone per chilometro quadrato: 12 milioni nel Comune di San Paolo e altri 15 nei 339 comuni dell’area metropolitana (l’intero Stato conta 40 milioni di residenti).

Il motto della città, mutuato dal latino, recita Non ducor, duco ed esprime la decisa volontà di non lasciarsi condurre dall’esterno e di affermare la propria leadership. La città di San Paolo è diventata da tempo il perno finanziario e industriale nell’America Latina e sempre più anche un fondamentale riferimento per la tecnologia e i servizi. Dispone di cinque aeroporti, utilizzati da circa 50 milioni di passeggeri. La città è un crogiolo di umanità, dove i bianchi sono poco meno dei tre quarti dei residenti. Seguono i mulatti e i meticci (poco meno di un quarto) e, quindi, minoranze di origine americana, asiatica e indigena. Notevoli sono anche le differenze religiose, con una netta prevalenza dei cristiani, di cui fanno parte diverse confessioni protestanti. La sua bella Cattedrale Metropolitana, in stile gotico, è ispirata alle grandi cattedrali medioevali europee. L’opera fu realizzata dall’architetto tedesco Maximiam Hein, ma le sculture, i mosaici e molti arredi arrivarono dall’Italia.

Università di San Paolo

Università di San Paolo

Nel 2001, a seguito di un censimento effettuato dall’Università di San Paolo, è risultato che l’81% dei residenti in città aveva progenitori nati all’estero, e tra di essi il 30,5% avevano ascendenti nati in Italia, il 23 in Portogallo, il 14% in Spagna, l’8% in Giappone e l 5,6% in Germania [4]. Gli immigrati, provenienti da diversi Paesi europei, iniziarono ad arrivare a San Paolo soprattutto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’attrattiva di questa metropoli, la New York dell’America Latina, non è solo economica ma anche socio-culturale, potendo contare, ad esempio, della Sao Paulo Fashion Week, l’evento di moda più importante in Sud America, e della Biennale d’Arte Contemporanea, la seconda organizzata al mondo dopo quella Venezia.        

 3.Dalla fondazione di San Paolo nel periodo coloniale alle migrazioni di massa e all’insediamento italiano 

Stato di San Paolo

Stato di San Paolo

3.1 La fondazione di San Paolo nel periodo coloniale 

Da una parte il Brasile è grande 28 volte l’Italia e, dall’altra, San Paolo quattro volte Roma con un’incidenza sull’economia nazionale simile a quella di Milano (città gemellata dal 1955). La grandezza del Brasile e di San Paolo non deve indurre a pensare che a caratterizzare il Paese sia solo una dimensione geografica disgiunta da una componente storica, o che questa sia iniziata con l’arrivo dei portoghesi guidati da Pedro Álvares Cabral il 22 aprile del 1500, cui fecero seguito, a distanza di secoli, le migrazioni dall’Europa [5]. Vi fu prima una storia millenaria, quella degli indigeni, che siamo diventati più avvertirti nel rivalutare, pur trattandosi di una cultura diversa dalla nostra, così come siamo più disponibili a evidenziare gli aspetti negativi della colonizzazione.

Le origini d San Paolo furono molto umili e risalgono al 25 gennaio 1554. Si iniziò con la costruzione di un modesto collegio realizzato da due gesuiti Manuel da Nóbrega e José de Anchieta, su una collina tra i fiumi Anhangabaú e Tamanduateí. In questo modesto capannone i due sacerdoti curavano la catechesi degli indiani dell’altopiano Piratininga, separato dalla costa dalla catena montuosa della Serra do Mar. Per il nome dato al posto bisogna tenere conto che San Paolo era il santo celebrato nella liturgia di quel giorno. Gli indigeni furono abbastanza aperti all’annuncio evangelico, così come i loro capi furono aperti ai portoghesi. Il clima era mite e il terreno fertile e adatto sia all’agricoltura che all’allevamento del bestiame. E così iniziò lo sviluppo di San Paolo, prima prevalentemente agricolo. 

Parco dell'Indipendenza

Parco dell’Indipendenza

3. 2 Il Parco dell’Indipendenza   

Questo parco fa parte del patrimonio storico culturale brasiliano perché ricorda la proclamazione dell’Indipendenza del Paese dalla Corona portoghese ad opera dell’imperatore don Pedro I. 

Il Museu Paulista, collocato all’interno del Parco dell’Indipendenza, ospita suggestive pitture e sculture che ripropongono l’epoca coloniale, incluso il fenomeno della schiavitù e il successivo sviluppo.

Museo paulista

Museu Paulista

3. 3 San Paolo e le migrazioni di massa

Dalla fine dell’Ottocento San Paolo conobbe un grande sviluppo, sostenuto prima dall’esportazione del caffè e poi dagli investimenti industriali fatti dai grandi proprietari terrieri. Gli immigrati, per la maggior parte italiani (che fino all’inizio del Novecento si avvalsero molto dei programmi governativi che offrivano i passaggi prepagati, da rimborsare successivamente) furono indispensabili in questa evoluzione, essendo stata abolita la schiavitù nel 1888. Il Museu da Imigração do Estado de São Paulo, nel quartiere Mooca, custodisce la storia e il patrimonio dei migranti venuti in questo Stato. In origine la struttura era un albergo, costruito fra il 1886 e il 1888, dove gli immigrati potevano essere ospitati per un periodo massimo di otto giorni prima di dirigersi verso la loro destinazione finale ovvero le diverse aree rurali dello Stato.

A Mooca si trova il Padiglione Ciccillo Matarazzo, noto come Padiglione della Biennale, ispirato al Padiglione di Venezia. Sono molti i residenti del quartiere che discendono dai pionieri protagonisti dei primi flussi. Qui fa sfoggio la gastronomia italiana, con una concentrazione di ristoranti, pizzerie e pasticcerie.

avvisoMentre oggi, in provenienza dall’Italia, si atterra nel grande aeroporto internazionale della città con un volo che dura otto ore, alla fine dell’Ottocento si viaggiava con i velieri e ci si impiegava poco meno di due mesi. I contadini italiani, sbarcati a Santos nell’ambito dei programmi governativi che si facevano carico del prepagamento del costo del viaggio, venivano portati a San Paolo (prima con i carri, poi in treno) e lì aspettavano qualche giorno in attesa di essere contrattualizzati per poi recarsi nelle grandi aziende agricole (fazendas).

Bixiga, detto anche Bela Vista, come Mocca, è uno dei caratteristici quartieri italiani, nei quali ancora si riscontra l’impronta da loro lasciata: qui si trovano numerosi ristoranti italiani, considerati i migliori della città.  Nel quartiere Bella Vista nel 1904 Francisco Matarazzo costruì l’omonimo ospedale, su un terreno molto ampio del quartiere. L’edificio è stato censito e inserito nel gruppo di edifici in stile neoclassico [6].

Inizialmente non si arrivava a San Paolo come italiani bensì come appartenenti a una singola regione o una singola provincia e i legami più forti erano quelli riscontrabili tra i compaesani. «A lasciare l’Italia furono insomma Veneti, Lombardi, Piemontesi, Campani, Calabresi, più che Italiani (…) L’oggetto retorico “Italia” non poteva essere presente nella coscienza di individui non padroni dei concetti di appartenenza nazionale, diritti civili, partecipazione ad un medesimo destino con un’altra moltitudine di persone a loro sconosciuta» [7].

Memorial do Imigrante

Memorial do Imigrante

3. 4 L’insediamento degli italiani 

A San Paolo, nella fase del primo insediamento (tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento), la lingua parlata era un miscuglio tra il portoghese e i diversi dialetti italiani, che rappresentavano più della metà della popolazione. L’italiano era più diffuso del portoghese e San Paolo, come risultava anche dalla diffusione della stampa, veniva considerata una “città italiana” [8].  .

Gina Lombroso Ferrero (1972-1944), figlia del famoso criminologo Cesare e anche sua collaboratrice come medico, fu una donna di educazione liberale, anticonformista e antifascista. Esiliata in Svizzera, approfondì svariati temi, incluso quello riguardante la situazione in America Latina e, in particolare, in Brasile. Così scrisse la Lombroso sull’utilizzo dell’italiano: «A San Paolo, luogo principe dell’immigrazione italiana, si parlava italiano più che a Torino, a Milano, a Napoli perché, mentre da noi si parla il dialetto, a San Paolo tutti i dialetti si fondono sotto l’influsso dei Veneti e dei Toscani, e i nativi adottano l’italiano come lingua ufficiale» [9]. Questa mescolanza linguistica fu resa famosa dalle canzoni di Adoniran Barbosa, il cui vero nome era João Rubinato (1910-1982). Questo compositore di origine italiana (i suoi genitori erano originari della provincia di Venezia), fu conosciuto come Barbosa, il personaggio da lui interpretato in una trasmissione radiofonica di grande successo. Egli è considerato l’iniziatore della samba paolista. Sono celebri le sue canzoni Samba do ArnestoTrem das Onze e Tiro ao Alvaro.

Desta impressione l’elevato numero delle testate italiane o bilingui. I quotidiani erano cinque: Il Fanfulla, La Tribuna Italiana, Il Secolo, Avanti, Il Corriere di Italia. La varietà dei giornali e delle altre testate dà un’idea del dinamismo della collettività italiana insediata in città.  Tra le testate allora pubblicate vi erano anche quelle umoristiche (la più antica fu Diavolo nero), le cui caricature erano molto apprezzate. Al riguardo tra gli autori si distinse, nel primo decennio del Novecento, Umberto Della Latta (1883-1961) e, successivamente, João Paulo Lemmo Lemmi (1884-1926) che fu uno dei più importanti caricaturisti della città (forte anche della sua esperienza italiana), attento ai problemi sociali e politici: egli collaborò con diverse testate (Voltolino, La faccia Dura, Il Grillo di Flora, Il Pasquino). Il settimanale satirico Zazà, uscito alla fine del secolo (1899), era diffuso nei quartieri della capitale.

Altre testate vollero indicare nel nome il loro legame con le comunità locali alle quali si indirizzavano; ad esempio, i mensili El Venezian (1905) e La Campana di Piedigrotta (1900). Numerose erano anche le testate incentrate sui temi del lavoro e della giustizia, cari ai movimenti socialisti, anarchici, anarcosindacalisti: Il Messaggio (1891), Giustizia (1893), L’Avvenire (1894). L’epigrafe della testata Gli Schiavi Bianchi (1889) era la seguente: «Chi è povero è schiavo. La libertà è il pane sulla tavola». A sua volta la testata repubblicana L’Italia Democratica (1901) era incentrata sul motto “Libertà, Giustizia, Lavoro”. La prima testata fascista fu Il Movimento (1922-1937) e lo stesso orientamento ebbe La Tribuna Italiana (1922). 

pubblicazioni-ita3. 5 Da emigrati a italo-brasiliani 

Dopo la Prima guerra mondiale i flussi in arrivo dall’Italia non furono così intensi come nel periodo precedente e, tuttavia, in città continuarono ad affluire gli italiani dalle aree agricole dello Stato, incrementando la consistenza della collettività. La Prima guerra mondiale pose il problema della patria comune: era ineluttabile, considerato che per la patria si era chiamati a combattere e anche a morire. L’ideologia fascista accentuò il riferimento alla comune appartenenza al Paese di origine, che esplicò la sua efficacia fino all’entrata in guerra con i nazisti, quando molti iniziarono a distinguere tra appartenenza all’Italia e fascismo.

Invece dopo la Seconda guerra mondiale il grande afflusso a San Paolo, determinandone una consistente crescita, fu dovuta alle migrazioni interne da altri Stati del Brasile, mentre gli italiani erano ormai diventati “paulistani”. La pratica dell’italiano come mezzo che permetteva di far comunicare le persone abituate a parlare solo il proprio dialetto e, passando dal piano linguistico a quello civico-politico, la Prima guerra mondiale che chiamava a combattere per la difesa del territorio in cui si era nati e cresciuti, favorirono la presa di coscienza della comune appartenenza.

L’ideologia fascista, nell’ambito di una strategia interessata a fare degli emigrati un supporto della propria politica estera, ebbe una grande presa. Tra di essi il concetto di patria comune rimase acquisito anche quando il regime, dopo aver accentuato da tempo il suo carattere autoritario, scese in guerra al fianco di Hitler. Fu a quel punto che insorse una distanza dal governo fascista, perché questo iniziò a essere considerato una realtà diversa dalla patria, mentre prima i due concetti tendevano a identificarsi. 

ripta Sotterranea della Cattedrale Metropolitana di São Paulo

Cripta Sotterranea della Cattedrale Metropolitana di São Paulo

4. L’impronta italiana nei monumenti della città 

In una grande metropoli come San Paolo i monumenti riflettono la sua dimensione di grandiosità, che riverbera anche sugli artisti che hanno concorso a realizzarli e sulle rispettive comunità: quella italiana, attraverso i suoi architetti, è stata spesso protagonista. La bella Cattedrale metropolitana, in stile neogotico e ispirata alle grandi cattedrali medioevali europee, fu realizzata da un architetto tedesco (Maximiliam Emil Hehl), ma tutti i mosaici, le sculture, gli arredi che compongono la chiesa, furono importati dall’Italia.            

Il Teatro Municipale di San Paolo ha soddisfatto la passione della città per la musica classica. Questa fu introdotta dall’imperatore Pedro II e da sua moglie Teresa Cristina di Borbone delle Due Sicilie, nota per aver portato a corte diversi artisti italiani, emulando quanto si faceva nelle città europee. Il Municipio ne affidò la progettazione all’architetto paolista Ramos de Azevedo (1851-1928), uno dei più grandi nella storia del Brasile. Con lui collaborarono gli architetti italiani Claudio Rossi e Domiziano Rossi. L’edificio, che si ispirò all’Opera di Parigi, fu completato nel 1911 e rappresenta uno dei maggiori tesori architettonici della città.

Teatro Municipale di San Paolo

Teatro Municipale di San Paolo

L’artistica fontana adiacente fu dovuta allo scultore ligure Luigi Brizzolara (1868-1947), ispiratosi alla famosa Fontana di Trevi di Roma. Quest’opera fu donata alla città dalla locale comunità italiana nel 1922, nella ricorrenza del primo centenario dell’Indipendenza del Brasile.

Il Museu Paulista, collocato all’interno del Parco dell’indipendenza, affidato all’Università di San Paolo (USP), con suggestive pitture e sculture, ripropone l’epoca coloniale, incluso il fenomeno della schiavitù e il successivo sviluppo. All’estremità opposta del Parco dell’Indipendenza si trova il Monumento dell’indipendenza del Brasile, nel luogo storico in cui, secondo la tradizione, don Pedro I avrebbe proclamato l’indipendenza il 7 settembre 1822, divenendone imperatore. Fu ideato ed eseguito da due italiani: il primo fu Ettore Ximenes (1855 -1926), scultore palermitano, molto famoso tra la fine del 19° secolo e l’inizio del 20° secolo per le sue opere d’ispirazione religiosa e mitologica. Partecipò a numerosi concorsi e eseguì diverse sculture in Italia, negli Stati Uniti e in Argentina. Il secondo fu l’artista italiano Manfredo Manfredi (1859-1927), architetto piacentino, autore di numerose realizzazioni incluso il padiglione Italia all’Esposizione universale di Parigi.

La storia della sua costruzione fu abbastanza travagliata. Nel 1917 fu indetta dal governo dello Stato una gara aperta anche agli stranieri e ciò (come anche la composizione della commissione giudicatrice) fu oggetto di critiche. A vincere, ma non con voto unanime, fu il progetto di Ximenes che, ritenuto scarsamente ispirato al processo d’indipendenza, fu modificato con l’inserimento di episodi e personaggi legati a quel momento storico. Inaugurato il 7 settembre 1922, in occasione del primo centenario dell’indipendenza, il monumento fu completato nel 1953 con la costruzione della cripta e, quindi, con la tumulazione delle salme dell’imperatore don Pedro I e di sua moglie imperatrice Leopoldina e anche dell’imperatrice Teresa Cristina [10].       

Obelisco di San Paolo

Obelisco di San Paolo

L’Obelisco di San Paolo è stato eretto come memoriale della rivoluzione del 1932 contro la dittatura del presidente Getulio Vargas e del ristabilimento della Costituzione. Custodisce i corpi di quattro studenti e altri 713 combattenti [11]. L’Obelisco è un progetto dello scultore italo-brasiliano Galileo Ugo Emendabili (8 maggio 1898 – 14 gennaio 1974), arrivato in Brasile nel 1923 per sfuggire al regime fascista instaurato in Italia. Fu realizzato in puro marmo travertino e la sua esecuzione fu affidata all’ingegnere tedesco residente in Brasile, Ulrich Edler.     

A Emendabili è dovuto anche il Monumento al grande architetto e urbanista brasiliano Ramos de Azevedo, denominato anche Monumento al Progresso, inaugurato nel 1934, costruito su una grande base quadrangolare alta più di 5 metri. Quattro figure femminili simboleggiano le arti e vi è anche la figura di De Azevedo. L’altezza totale del monumento è di 23,7 metri, con un peso totale di 22 tonnellate. Il gruppo di bronzo rappresenta la figura del Genio, montato su un cavallo alato, che sostiene con la sua mano Nike, la dea della Vittoria. La fonderia delle sculture avvenne sotto la responsabilità di un altro italiano, Giuseppe Rebellato.                        

Monumento a Ramos de Azevedo

Monumento a Ramos de Azevedo

Il giovane Emendabili imparò, innamorandosene, l’arte dell’intaglio del legno in una bottega di proprietà del padre, Ludovico. Ad Ancona, sua città natale, lavorò nello studio del sordomuto Clementi, un esperto ebanista. Nel 1915 si iscrisse al corso speciale di scultura della Reale Accademia di Belle Arti di Urbino. Fu allievo dello scultore Domenico Jollo e studiò disegno con Ludovico Spagnolini. Frequentò lo studio dello scultore Arturo Dazzi ed entrò in contatto con il lavoro degli scultori Ivan Mestrovic, Adolf Wildt e Arturo Martini. Già abbastanza affermato, nel 1921 Emendabili fu scelto per scolpire l’opera Libertà, monumento in onore del repubblicano Giuseppe Meloni, un giovane che era stato vittima di un’imboscata da parte degli squadristi Questa opera accentuò l’opposizione di Emendabili al fascismo italiano, perciò fu considerato un intellettuale dell’opposizione a Mussolini. Per sfuggire alla repressione nel mese di giugno 1923 egli partì da Genova con la moglie per recarsi a Buenos Aires. Durante il viaggio, fu avvertito dal comandante di un tentativo per farlo fuori, decise di cambiare destinazione e sbarcò nel porto di Santos il 3 luglio 1923, continuando per San Paolo e restando qui fino alla sua morte nel 1974. Fece presto valere le sue doti e vinse numerosi concorsi, ma l’Obelisco fu la sua opera più significativa. Restò sempre legato all’Italia e mantenne anche la cittadinanza italiana. Sia San Paolo che Ancona dedicarono una mostra a questo grande scultore, citato spesso nella bibliografia sull’arte in Brasile [12]. 

Edificio Italia

Edificio Italia

La collettività italiana nel 1956 iniziò la costruzione di un suo grattacielo con 165 metri di altezza e 46 piani, denominato Edificio Italia, progettato dall’architetto tedesco Franz Heep e costruito tra il 1956 e il 1965. Ancora oggi è uno dei luoghi turistici più importanti della città. Il primo e secondo piano ospitano la sede del Circolo Italiano, la cui storia si intreccia con la storia di Sao Paulo. Nella sommità un ristorante noto come Terraço Italia permette di godere una vista di 360° del panorama cittadino.    

Naturalmente la collettività italiana non si limitò a realizzare questo segno della sua riuscita integrazione. Un’altra opera di spicco fu l’Edificio Matarazzo., voluto da Francisco Matarazzo II, membro di questa famosa famiglia imprenditoriale e realizzato, nel biennio 1938-1939, da Marcello Piacentini (1881-1960), il massimo protagonista in Italia nel settore dell’architettura e dell’urbanistica nel periodo fascista. Inizialmente fu sede di rappresentanza del gruppo aziendale Matarazzo, nel 1974 fu ceduto al gruppo Audi, mentre dal 2004 è diventato sede della municipalità di San Paolo. L’edificio è noto anche per la sua ampia terrazza verde realizzata nell’ultimo piano. 

Edificio Martinelli

Edificio Martinelli

L’Edificio Martinelli, voluto dall’imprenditore italo-brasiliano Giuseppe Martinelli, è uno storico palazzo con le facciate esterne rivestite di granito rosato, costruito tra il 1924 e il 1934. In quell’anno risultò essere il più alto grattacielo della città, per giunta realizzato in cemento armato, un sistema innovativo rispetto alla tecnica tradizionale di costruire in mattoni. Il progetto fu dell’architetto ungherese Vilmos (William Fillinger (1888-1968) della Accademia di Belle Arti di Vienna. L’imprenditore, privo di un sostegno governativo, non fu più in grado di portare a termine l’opera con le sue forze, perciò cedette una parte del progetto all’Istituto Nazionale di Credito per il Lavoro Italiano all’Estero, mentre nel 1943 il governo locale rilevò per sé l’edificio.      

Anche il lucchese Giuseppe Martinelli, così come Matarazzo, viene annoverato tra i giganti del Brasile perché essi, con le loro iniziative imprenditoriali, concorsero a trasformare il Brasile da un’area rurale in un Paese moderno, industrializzato e tecnologico. A loro e ad altri imprenditori fu dedicata nel 2016, la serie televisiva ‘Gigantes do Brasil’. 

Giuseppe Marchetti, anniversario

Giuseppe Marchetti, anniversario

5. Una vita breve ma intensa: lo scalabriniano Giuseppe Marchetti 

Il lucchese Giuseppe Marchetti (1869l-1896), diventò sacerdote diocesano e nel 1894 fu presto consapevole del dramma dell’emigrazione perché un terzo dei suoi parrocchiani, nel piccolo paese di Compignano, erano emigrati. Dopo aver sentito una toccante esposizione del vescovo degli emigrati, monsignor Giovanni Battista Scalabrini, imperniata sulla necessità di assistere queste persone, si mise a disposizione del vescovo e partì per il Brasile, diventando anche missionario scalabriniano.

Dopo un anno d’intensa attività ritornò in Italia, fermandosi solo un mese, giusto il tempo necessario per raccogliere offerte e individuare benefattori, avvalendosi a tal fine di una grande capacità di persuasione. Durante questa sua seconda traversata una madre, in punto di morte e di fronte ad un marito disperato, gli affidò il figlio di pochi mesi. Colpito da questo evento e dalla grave situazione degli orfani, padre Giuseppe maturò la vocazione di occuparsi dei minori impossibilitati a vivere in famiglia con le loro madri: decise di adoperarsi per assicurare loro un’adeguata assistenza. Nacque così, su sua iniziativa, l’Orfanotrofio Cristoforo Colombo. Poiché questi orfani erano bisognosi di assistenza femminile, padre Giuseppe fece pressione su mons. Scalabrini per costituire l’istituto delle Missionarie di San Carlo, note come Missionarie Scalabriniane, da affiancare al ramo maschile già in precedenza formato. Assunta, la sorella di padre Giuseppe, e un gruppo di donne del suo paese furono le prime suore del nuovo istituto. La loro opera fu fondamentale per potenziare e stabilizzare le iniziative avviate da questo prete, piccolo di statura ma grande nella progettazione degli interventi e nella loro realizzazione

Prete dinamico e di specchiate virtù, morì precocemente all’età di soli 27 anni, riuscendo però a fare opere caritative più di quanto altri fecero nel corso di una lunga vita. Di lui mons. Scalabrini ebbe a dire: «O è matto o è santo». La seconda ipotesi è stata quella avallata dalla Chiesa cattolica, che ha avviato il processo di riconoscimento delle sue virtù eroiche. Proprio per questo motivo non si può non menzionare l’aspro contrasto insorto tra gli anarchici e i missionari scalabriniani. A scatenarlo fu il fatto che, assente momentaneamente padre Giuseppe, si recò nell’orfanotrofio una sedicente familiare, che portò via dalla struttura una minore, ospitata insieme a suo fratello. Venutone a conoscenza il padre, completamente all’oscuro, protestò e gli anarchici gli diedero man forte, giungendo anche ad accuse infamanti, come abuso sessuale della ragazza e sua uccisione. La disputa fu vivacissima, sulla carta stampata e addirittura in un contradditorio e ci volle del tempo prima che le acque si calmassero. Anche a prescindere da questo antefatto, era allora costante l’opera dei due pilastri che si proponevano agli emigrati come riferimento ideale: la Chiesa cattolica attraverso i missionari e gli anarco-socialisti. Era un contesto molto diverso da quello attuale in cui papa Francesco è riconosciuto come un riferimento credibile sia della solidarietà a chi ha bisogno sia della difesa dei diritti. Oggi è più agevole pervenire a un giudizio più equilibrato. Da una parte padre Giuseppe deve essere considerato un simbolo di una schiera di sacerdoti che vollero essere vicini agli immigrati, a San Paolo come nelle fazendas e nelle colonie, assistendoli non solo spiritualmente nella dura esperienza migratoria di fine secolo e aiutandoli a inserirsi. D’altra parte, il discorso socialista, al netto delle sovrastrutture dell’anticlericalismo, ha tenuto viva e ha incentivato l’attenzione sui fondamentali diritti di giustizia, solidarietà e libertà. San Paolo, che da tempo è ridiventata una grande realtà, deve molto a questi due riferimenti ideali [13]. 

Bambini lustrascarpe (ph. Giuseppe Pastore)

Bambini lustrascarpe (ph. Vincenzo Pastore)

6. Vincenzo Pastore: i bambini di Sao Paulo nell’obiettivo del fotografo italiano 

Le fotografie sono anche memorie, storie e diventano mondi. C’è tanto su cui scrivere e tanto già è stato scritto. Si aggiunge questo breve contributo dovuto a due donne che hanno visto nelle fotografie scattate da Vincenzo Pastore un materiale molto ricco per riflettere e apprendere il quotidiano della città di So Paulo nel periodo che si colloca tra il 1910 e il 1918. Restringendo il campo di osservazione al tema che maggiormente ci interessa, abbiamo scelto come argomento l’infanzia, così come colto dall’obiettivo di Pastore. Questo ci fa vedere il tempo, che contiene la memoria e la nostra storia, e non si riferisce soltanto a due Paesi (Brasile e Italia) così come erano all’inizio del XX secolo. Ci fa vedere un altro tempo con alcune delle sue caratteristiche: la crescita della città, le rovine contemporaneamente presenti, i bambini e le donne, parte di questo processo, talvolta nel silenzio e talvolta nel fragore della vita che esplodeva nel corso della pianificazione urbanistica della città.

Vincenzo Pastore era un italiano nato a Casamassima nel 1865. Emigrò da giovane in Brasile e trascorse la vita a Sao Paulo. Quando vi arrivò nel 1899, già sposato in Italia con Elvira Pastore, aprì uno studio fotografico, prima nella via Assembleia e dopo nella via Direita, dove rimase fino al termine della sua vita. La sua bravura nell’arte della fotografia fu riconosciuta e gli procurò dei premi in Brasile e in Italia (nella città di Torino). I due quartieri, dove si svolse il suo lavoro, erano nella parte centrale della città. Qui si trovavano i negozi ed era fiorente il commercio, e qui erano ubicate le piazze e le scuole e non mancavano diversi laboratori fotografici.

Mercato municipale (ph. Giuseppe Pastore)

Mercato municipale (ph. Vincenzo Pastore)

Torna opportuno precisare un aspetto molto importante del suo lavoro non ancora pienamente conosciuto. In molte sue fotografie i protagonisti erano i bambini. Queste immagini, accurate da un punto di vista estetico, sono importanti fonti documentali della vita cittadina e di quella delle persone comuni che abitavano a Sao Paulo. Pastore osservò e registrò quelle cose alle quali le persone non prestavano attenzione: le piccole scene della vita quotidiana. Egli ci fa vedere le condizioni dell’infanzia urbana a Sao Paulo, una città che andava modernizzandosi. Camminare per le strade era il suo modo di trovare i soggetti da fotografare: una forma ovviamente molto diversa de quella seguita per fare ritratti, per i quali era un professionista molto affermato.

Il filosofo Georges Didi-Huberman avrebbe successivamente scritto sull’importanza dell’immagine come testimonianza e anche come pensiero, collegandosi così con quanto sostenuto da Walter Benjamin. Bisogna considerare che si tratta di testimonianze di vita e di relazioni tra persone, non di copie bensì dì creazioni originali. Osservando le immagini fotografate da Pastore riteniamo sia fondato affermare che i bambini in quel tempo furono protagonisti nel processo di urbanizzazione. Ci riferiamo all’infanzia, soprattutto povera, che si occupava della vendita dei giornali, o anche lavorava come lustrascarpe, e nel mentre giocava nei viali.

Largo da Fà, 1921 (ph. Vincenzo Pastore)

Largo da Fà, 1921 (ph. Vincenzo Pastore)

La città in quel periodo era pervasa dalle idee di modernizzazione e di progresso e, in pratica, l’infanzia fu intesa dalle politiche pubbliche come una presenza che andava nella direzione opposta. Si pensava che i minori avrebbero dovuto essere estromessi dallo spazio pubblico e messi nei riformatori. Il viale, quindi, era visto come un posto che non doveva essere occupato dall’infanzia. Ogni giorno era possibile vedere circolare un’immagine dell’infanzia povera e anche pericolosa. Questa era una presentazione dei minori fatta con tinte molto forti, anzi troppo forti. Il tempo del gioco e della chiacchierata infantile non avrebbe dovuto coesistere con l’avvio della modernità e l’avvento del capitale. Invece, osservando i bambini fotografati da Pastore, ci sembra che essi cercassero di sfuggire alla restrizione loro imposta, presentandosi di fatto come una denuncia. Si pensava, infatti, che tutti i bambini fossero di disturbo alla città e fossero capaci solo di commettere piccoli furti. Pastore, in effetti, ci fa vedere la presenza di automobili e anche l’assenza di bambini nello spazio urbano.

Per fare uno studio approfondito è necessario mettere insieme le immagini con altre fonti storiche, ad esempio, con i giornali, le interviste, le memorie; bisogna tenere conto delle testimonianze di quelli che vissero quell’esperienza, come anche bisogna tenere conto di quanto è stato scritto su quell’epoca. Come precisato prima, l’obiettivo di questo breve saggio è consistito nel soffermarsi solo sull’occhio con cui questo fotografo italiano scattò le sue fotografie in quel determinato periodo storico di Sao Paulo. La città, nel suo sviluppo, si attenne alle rigide regole di un capitalismo sfrenato a scapito della vita dei bambini, che però aggirarono le restrizioni e, alla fine, riuscirono lo stesso a trovare modo di manifestarsi nella quotidianità. 

Francesco Matarazzo

Francesco Matarazzo

7Un gigante dell’imprenditoria: Francesco Matarazzo 

Francesco (diventato Francisco in Brasile) nacque a Castellabate, un piccolo comune dell’Italia meridionale, a un centinaio di chilometri da Napoli. Inizialmente si occupò della proprietà agricola lasciatagli dal padre, ma senza restarne soddisfatto. Nel 1881, all’età di 27 anni, decise di emigrare. Un amico di famiglia aveva scritto che il Brasile offriva grandi opportunità di riuscita economica.  

A conoscenza del grande consumo che nel Paese si faceva del lardo, investì i soldi portati dall’Italia nell’acquisto di venti tonnellate di lardo, che andò a comprare negli Stati Uniti. Tornando in Brasile con la nave che aveva imbarcato la merce, al momento dello sbarco nella baia di Guanabara (Rio de Janeiro), tutte le botti di lardo caddero in mare. Con i pochi soldi rimasti Francisco, stabilitosi a Sorocaba (Stato di San Paolo) ebbe il coraggio di ricominciare come venditore ambulante. Intanto maturò l’idea di vendere lardo in lattine (e quindi anche in piccole dosi) anziché in botti, evitando gli sprechi e favorendo la conservazione e la diffusione del prodotto.

Nacque così a Sorocaba, nel 1883, il primo stabilimento per la produzione di lardo. Maturò anche l’idea di comprare direttamente i maiali dai quali ricavare il lardo da vendere e di metterlo in commercio a prezzi più bassi rispetto al prezzo del prodotto importato. Sostenuto dall’andamento delle vendite, acquistò in blocco tutti i maiali dagli allevatori operanti nello Stato, tagliando rifornimenti ai concorrenti. Lasciato il fratello Andrea a sovrintendere la produzione e la vendita a Sorocaba, nel 1890 si trasferì nella città di San Paolo e fondò con i fratelli l’azienda Matarazzo & Irmãos: Giuseppe divenne responsabile di un’azienda a Porto Alegre e Luigi fu preposto al magazzino di generi alimentari a San Paolo, diventando un punto di riferimento per la numerosa collettività italiana.

Dei maiali, Francisco non solo estraeva il lardo ma vendeva anche la carne a tagli o la trasformava in salsicce, mentre utilizzava le ossa per produrre i bottoni delle camicie. Interessato alla diversificazione dell’attività, iniziò a importare frumento dagli Stati Uniti. L’azienda diventò la Companhia Matarazzo S.A., con 41 azionisti di minoranza. Nel 1900, in considerazione del suo prestigio, fu eletto presidente del Banco di Napoli. Nel 1908, prevedendo che il coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra tra la Spagna e il Messico avrebbe pregiudicato l’arrivo della farina, la importò dall’Argentina noleggiando appositamente una nave e, pertanto, in quel periodo fu l’unico ad averla a disposizione. Nel 1900 realizzò il primo mulino nella città di San Paolo, tenendo così conto dell’ampio uso che si faceva della farina a seguito della presenza italiana.

30726733_2037325149816546_8456909391734505472_nAmpliando continuamente le attività, Francisco giunse ad attivare 365 fabbriche sparse in diverse parti del Brasile. Il suo fatturato complessivo era molto alto (il quarto del Brasile) e il 6% della popolazione di San Paolo lavorava alle sue dipendenze. Nel 1911 le Indústrias Reunidas Fábricas Matarazzo (IRFM) si erano ampliate in una maniera straordinaria attraverso la presa in carico di ulteriori attività connesse con quella originaria. Il fabbisogno di cotone per insaccare il grano lo portò a creare una fabbrica tessile. Altri esempi del suo dinamismo imprenditoriale furono: la costruzione di una raffineria e l’impegno nel settore chimico con la fabbrica di rayon; l’importazione di grano e la sua trasformazione in farina in un suo mulino, l’acquisizione di una flotta di navi; l’attivazione di una industria olearia con oli di diverso tipo; la produzione di sapone, candele, lattine, mobili in legno e stoviglie.

Attento alla sostanza delle cose e alla concretezza, non riponeva alcuna fiducia nella burocrazia e nelle scartoffie. Raramente ricorreva alle lettere perché preferiva telefonare. Un’altra sua strategia fu quella di non puntare su elevati costi di vendita, cercando invece di acquistare le materie prime a prezzi bassi. Questo grande imprenditore non ebbe solo successi economici. Fu nominato conte dal re d’Italia Vittorio Emanuele III per i rifornimenti alimentari da lui inviati in Italia durante la Prima Guerra Mondiale. Fu un ammiratore di Mussolini e non mancò di segnalarsi con le sue donazioni al regime fascista e, tuttavia, in Brasile, nella rivoluzione costituzionale del 1932, aiutò gli insorti contro la dittatura con la fornitura di munizioni.

Ammirato dagli italiani, non lo fu altrettanto da una buona parte della borghesia locale, mostratasi distante e spocchiosa. Egli, comunque, nel 1928 partecipò alla fondazione del Centro delle Industrie dello Stato di San Paolo (CIESP). Francisco morì il 10 dicembre 1937 a seguito di una crisi di uremia. Ebbe 12 figli e molti nipoti. Egli fu l’uomo più ricco del Brasile, l’italiano più ricco del mondo, detentore di una fortuna ritenuta la quinta più grande del pianeta; le sue 365 aziende avevano, all’epoca, un valore stimato di 20 miliardi di dollari. Alla sua morte questo straordinario impero industriale andò in decadenza, sia a seguito di discordie tra gli eredi non in grado di eguagliare l’intraprendenza manageriale del capostipite, sia anche per l’aumento della concorrenza e la mutazione dei parametri imprenditoriali, più incentrati sulle specializzazioni produttive, che sulla loro integrazione come Francisco fece all’inizio del Novecento. Non mancò qualche occasione favorevole non colta, come fu il mancato assenso della famiglia Matarazzo all’invito dall’allora presidente Juscelino Kubitschek di partecipare, con la Volkswagen, alla creazione della prima casa automobilistica del Paese.

Di fronte alle nuove sfide si fece sentire la scomparsa di questo imprenditore, geniale nella sua semplicità, tenace e non propenso allo spreco anche dopo essere diventato straricco, come attesta questo aneddoto. In occasione di una sua visita in Italia il sarto del suo paese gli chiese perché, mentre il figlio gli aveva ordinato sette abiti, lui si fosse limitato ad uno solo. Questa fu la sua risposta: «Perché lui ha un padre ricco, ed io no». Ancora oggi operano aziende che discendono dall’impero Matarazzo, la cui storia è motivo d’orgoglio per il Brasile e per l’Italia. 

Lina No Bardi, 1946

Lina Bo Bardi, 1946

8. Lina Bo Bardi: una grande innovatrice della politica artistico-culturale

Quando si fa riferimento ai simboli della città di San Paolo, subito viene in mente l’edificio del Museo d’Arte di San Paolo Assis Chateaubriand, più semplicemente conosciuto come MASP. La sua sede attuale, inaugurata nel 1968, è diventata il grande monumento dell’Avenida Paulista, il centro finanziario, politico e culturale della città. Infatti, l’imponente architettura di cemento armato sembra galleggiare sulla strada, quasi sospesa in aria e sostenuta soltanto dai quattro pilastri rossi che spiccano sul grigio caratteristico di San Paolo.

La concezione di quest’opera è dovuta a Lina Bo Bardi. Nata a Roma nel 1914, Lina si laureò in architettura nella Regia Scuola di Architettura (oggi Università La Sapienza) nel 1939. Negli anni successivi, collaborò con Carlo Pagani e Gio Ponti a Milano, dove sviluppò un’intensa attività editoriale. Tuttavia, la sua vita si trasformò quando, nel 1946, fu chiamata in Italia, insieme al marito Pietro Maria Bardi, ad organizzare una mostra d’arte italiana in Brasile. Pensava di ritornare in patria dopo sei mesi, ma subito si accorse che il Brasile era il Paese ove voleva vivere, e lì trascorse la sua vita fino alla morte, avvenuta nel 1992. La sua presenza lasciò delle tracce profonde sulla cultura brasiliana.

Lina considerava che il peso della cultura europea immobilizzava l’Italia. Dopo la guerra, quando l’Italia doveva avviare la sua ricostruzione, l’orientamento predominante era quello di seguire i modelli stabiliti dalla tradizione. In Brasile, al contrario, c’era tutto da fare e, soprattutto, si presentava la possibilità di creare una nuova tradizione a partire da una nuova realtà. Nonostante San Paolo fosse una città in cui lo sviluppo economico era riscontrabile dappertutto, la mentalità predominante era improntata a una forte tendenza conservatrice. Fu in questo scenario di prosperità economica e tradizionalismo culturale che Assis Chateaubriand, un ricco imprenditore brasiliano, volle creare un Museo per ospitare le opere che man mano era andato acquistando nel mercato d’arte internazionale. Così nacque il MASP, e per dirigerlo Chateaubriand scelse Pietro Maria Bardi.

Sin dall’inaugurazione del Museo, avvenuta nel 1947 in una sede provvisoria in via Sete de abril, il percorso espositivo adottato faceva capire che l’obiettivo di Lina e Pietro Maria era quello di dare un senso moderno e inconsueto alle pitture europee che formavano la collezione paulista. Il 1947 fu anche l’anno di pubblicazione dell’opera Il museo immaginario di André Malraux. Impossibile non puntualizzare l’importanza di questo libro per il museo idealizzato da Lina, che prevedeva la disposizione delle opere secondo un ordine che non fosse cronologico o geografico. Nello stesso tempo, si svolgevano nel museo diversi corsi e attività culturali, così come delle mostre didattiche temporanee presentate al pubblico con pannelli arricchiti di immagini e testi destinati a fornire una visione generale della storia dell’arte.

MASP

San Paolo, Centro Culturale SESC Pompeia

La scelta museografica per il MASP aveva dei netti precedenti italiani. Nel 1934 Edoardo Persico e Marcello Nizzoli avevano allestito con pannelli sospesi, staccati dalle pareti, la Sala delle Medaglie d’Oro nella Mostra dell’Aeronautica, a Milano. In un modo del tutto originale, gli oggetti esposti in primo piano lasciavano intravedere quelli collocati dietro. Nel 1941, ancora a Milano, Franco Albini seguì e approfondì questo modello nella Pinacoteca di Brera. Nella mostra del pittore Gino Bonichi, detto Scipione, i quadri, distaccati dalle pareti e sospesi all’interno della sala, annunciavano quello che Lina sarebbe andata a mettere in pratica qualche anno dopo.

Oltre a questi modelli espositivi, Lina Bo Bardi aveva dei riferimenti intellettuali molto precisi. Da una parte c’era Antonio Gramsci, che rappresentò il grande filo conduttore del suo pensiero. L’idea secondo la quale ogni intellettuale deve intraprendere una vera battaglia nella ricerca di una cultura autentica del Paese fu da lei considerata una soluzione adeguata per affrontare la realtà brasiliana. D’altra parte esercitarono il loro peso gli studi dell’antropologo Ernesto de Martino sulle società contadine del sud d’Italia, anche se questi erano molto recenti, in quanto apparsi solo alla fine degli anni 50.

A questa base teorica si sommava il contesto brasiliano. In questo senso, ci sono due avvenimenti da ricordare. Infatti, rimonta almeno al Settecento il mito della formazione del Brasile a partire della fusione dei suoi tre gruppi costitutivi, cioè gli indios, gli africani e i portoghesi. Inoltre, nel Novecento il concetto di “brasilianità” cominciò a prendere forma. Era ormai presente gran parte degli interventi dei modernisti nella Settimana dell’Arte Moderna del 1922, movimento realizzato nel Teatro Municipale di San Paolo. Tra le diverse proposte presentate da quella occasione in poi, l’immagine del cannibale fu assunta come un fattore positivo, come se i brasiliani, seguendo simbolicamente l’esempio di alcune delle etnie indigene esistenti all’arrivo dei portoghesi, dovessero nutrirsi del pensiero europeo per impadronirsi della sua forza vitale e creare in questo modo una cultura propria e nuova. Su queste idee si concentrò l’interesse di Lina per identificare l’arte popolare brasiliana e, quindi, confrontarla con le tradizioni europee.

Negli anni 60 Lina si trasferì a Salvador, capoluogo dello Stato di Bahia, nel nord-est del Paese, dove diventò direttrice del Museo d’Arte Moderna. Nell’esercizio del nuovo incarico, promosse il restauro del Solar do Unhão, un palazzo del periodo coloniale subito utilizzato per ospitare il Museo d’Arte Popolare di Bahia. La prima mostra in questo Museo fu realizzata nel 1963 e si intitolò Nordeste. Al posto di pitture, sculture, disegni o fotografie, la mostra presentava gli oggetti creati dagli artigiani locali. Si trattava di associare la ricchezza e la diversità regionali in modo da creare per la cultura moderna una sorta di serbatoio etico che non si trovava più nelle grandi città.

Lo sviluppo, però, non è una strada in linea retta. Nell’anno successivo accade in Brasile il colpo di stato che diede inizio alla dittatura militare, per cui Lina dovette ritirarsi dalla direzione del Museo. Cercò di portare la mostra Nordeste a Roma, ma ne fu impedita dal governo brasiliano. Queste esperienze furono, poi, riprese a San Paolo. Quando l’edificio del MASP fu inaugurato nella Avenida Paulista, Lina sorprese tutti con due iniziative. La prima fu quella di seguire il modo espositivo già messo in pratica da Persico, Nizzoli e Albini. In sostanza, l’architettura del MASP si configura come un unico spazio libero, senza pareti interne. Quindi furono sistemati in questo grande salone i cosiddetti cavalletti di cristallo, nei quali quelle notevoli opere europee (da Raffaello a Delacroix, da Rembrandt a Cézanne) furono esposte, come detto, senza un ordine cronologico o geografico. Inoltre, le didascalie furono collocate dietro i cavalletti, in modo che prima si potesse vedere l’opera e solo dopo, volendolo, conoscere l’autore.

L’altra iniziativa riguardò la prima mostra temporanea del Museo, che si chiamò La mano del popolo brasiliano. Aperta al pubblico nel 1969, l’esposizione esibiva oggetti industrializzati come lampadine elettriche o barattoli di latte in polvere che avevano preso vita nelle mani del popolo, il quale aveva assegnato loro altre funzioni, trasformandoli in lucerne, secchi o vasellami per uso di cucina. In un unico colpo si capiva la creatività, la povertà e la disparità che caratterizzavano e ancora oggi caratterizzano il Brasile.

Lina Bo Bardi, benché non abbia lasciato che poche opere  specifiche, è riuscita a cambiare la vita culturale e artistica brasiliana. La sua Casa di vetro, il Museo d’Arte Popolare di Bahia, il MASP e il SESC Pompeia sono esempi di un Brasile in cui c’era il desiderio di conoscersi profondamente per progettare un presente più giusto e gioioso per tutti. Come lei disse una volta, una architettura difettosa è il risultato di un contesto sociopolitico difettoso. In buona sostanza, lei intendeva l’architettura come uno specchio della società, una lezione che purtroppo non abbiamo ancora imparato. 

91qct4cja3l9. Il riavvicinamento tra gli italiani delle due sponde: una prospettiva auspicabile 

L’influsso esercitato per la modernizzazione di San Paolo da parte italiana è stato notevole. Dire che questa è la città del mondo che consuma maggiormente la pizza non è tutto. Vi sono diversi altri indicatori di “italianità” a livello sociale, artistico, culturale ed economico. Questo saggio non si è proposto di citare tutti gli italo-brasiliani che hanno concorso alla grandezza di San Paolo. Altrimenti avremmo dovuto soffermarci, ad esempio, su Vittorio Fasano per la catena dei suoi ristoranti (diffusi in tutta l’America Latina), su Gabriella Pascolato per l’introduzione della moda italiana a San Paolo (alla sua vita è dedicato il libro O fio da trama), su Pasquale Caccino, fondatore del Centro universitario Italo-brasiliano, sul giornalista Mino Carta, fondatore di diverse riviste di successo e tanti ancora, che si sono distinti nel passato e anche di recente.

Dalla prima emigrazione di fine Ottocento ad oggi è passato tanto tempo. Il primo romanzo sull’immigrazione italiana in America Latina, intitolato Sull’ Oceano, fu scritto da Edmondo De Amicis nel 1898. L’utilizzo del termine italo-brasiliani esprime la possibilità di essere legati al Paese e alla città di accoglienza, senza trascurare la patria di origine dei propri antenati, l’orgoglio di vivere in una delle grandi città del mondo e quello di discendere dalla terra degli antichi romani. Lo stesso Brasile riconosce questa duplice dimensione e con una legge del 2008 ha stabilito che il 21 febbraio sia il «Dia acional do Imigrante Italiano».

A distanza di anni e di generazioni si deve ritenere scontato che i discendenti degli italiani si identifichino più pienamente con il Brasile, ma ci si può chiedere anche cosa rimanga in loro delle origini: ad esempio, sentimento religioso, attaccamento alla famiglia, etica dello sforzo, senso del risparmio, propensione alla solidarietà, preparazione del cibo come arte popolare, sensibilità alla forma e all’eleganza.

Altre radici sono più impalpabili, ma sono parimenti presenti: la storia millenaria dei luoghi di origine, le città d’arte, i paesaggi, non necessariamente più belli di quelli attuali, ma diversi. Tutto quello che si può conservare delle proprie origini, senza che sia disfunzionale agli impegni attuali, può arricchire la personalità degli italo-brasiliani. Questo esito è potenziale e dipende dalla capacità individuale che consente di evitare un assorbimento esclusivo negli impegni attuali, e dalla riscoperta di un riferimento alle origini degli antenati e al loro Paese, segnato da una storia eccezionale. La stessa lingua italiana, seppure difficile da riprendere, una volta imparata arricchisce la personalità e conferma in tale percorso. Si tratta, quindi, di una conquista personale che presuppone tenacia e occasioni opportune.

Influisce al riguardo anche la disponibilità degli italiani che non sono emigrati a ricordarsi dei loro “parenti geograficamente lontani”, più di quanto ora non avvenga. Con questo auspicio è stato scritto il presente saggio, soffermandosi sul caso eccezionale della metropoli di San Paolo, che invita a riflettere sulla globalizzazione ante litteram realizzata dall’Italia con la sua emigrazione, scoprendo stimolanti punti di convergenza con i Paesi nei quali vivono le collettività italiane [14]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
[*] I paragrafi 1, 2, 3. 5, 9 sono firmati da Franco Pittau, il paragrafo 4 da Sandra Waisel do Santos, il 6 e 7 da Marcia Gobbi e Maria Cristina Stello Leite, il n.8 da Alexandre Ragazzi. 
Note
[1] Ogg Gomes L., Pittau F., “L’infanzia e l’educazione partecipativa in Brasile e in Italia: ordinamenti giuridici, teorie ed esperienze£, in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022.
[2] È stata anche coautrice di un articolo in cui sono state ripercorse le tappe e le prospettive della vicenda migratoria italiana in Brasile: cfr. Iorio F, Pittau F., Waisel dos Santos S., “Brasile: trenta milioni di oriundi italiani nel Paese del meticciato”, in Dialoghi Mediterranei, n. 48, marzo 2021.
[3] Nei servizi giornalistici non manca certamente l’enfasi nel presentare la grandezza di questa metropo,i, cfr. ad esempio: Meneghini P., “La New York del Sud America”, in Messaggero di S. Antonio, 10 giugno 2020, https://messaggerosantantonio.it/content/la-new-york-del-sud-america. Gina Ferrero Lombroso (1872-1944) fu figlia e, come medico (1872-1944), anche collaboratrice del padre Cesare nelle sue ricerche antropologiche e sulla criminalità. Di educazione liberale e anticonformista e antifascista, motivo per cui dovette rifugiarsi in Svizzera. Scrittrice versatile, si occupò anche del Brasile: scrisse, infatti, il volume: Nell’America Meridionale (Brasile, Uruguay, Argentina): Note e impressioni, Milano, Terse 1908.
[4] Censo Étnico-Racial da Universidade de São Paulo, 2001 
[5] Lingua P., La storia del Brasile 1500-2000, Genova, ECIG, 2000 
[6] Sul processo di urbanizzazione degli italiani cfr. Povoa Neto H., “Gli emigrati italiani e il processo di urbanizzazione a San Paolo del Brasile”, in Fondazione Migrantes, Rapporto Italiani nel Mondo 2009, Edizioni Idos, Roma, 2009: 371-370.
[7] Spostato T., «Memoria e Identità Situazionale nelle comunità di italodiscendenti a Sao Joao del Rei, Minas Gerais, Brasile», https://doi.org/10.4000/pontourbe.1307
[8] Cfr. Trento A., Do Outro Lado do Atlàntico. Un século de Imigrado Italiana no Brasil, Edizioni Nobel, Sao Paulo, 1989
[9] la citazione è tratta dal libro di Paolo Lingua.
[10] https://www.al.sp.gov.br/noticia. Per realizzazione del monumento si è tenuto conto di diversi valori simbolici. Ad esempio, 72, i metri di altezza, è un numero composito da 7 e da 2, che sommati fanno 9: 9 sono i gradini d’ingresso. Il prato attorno all’obelisco ha una superficie di 1932 metri, l’anno della rivoluzione costituzionale contro Getulio Varga, che sconfisse i paulisti, ma conscio che la sua posizione era a rischio, fu indotto a promulgare una nuova Costituzione nel 1934.
[11] Tra i combattenti è incluso il nonno di Sandra Waisel, che ha scritto questo paragrafo.
[12] Cfr. sulla storica testata della comunità italiana: Rigo E. “Il monumento a Ramos de Azevedo dello scultore”, in Fanfulla, 13 genn. 1934; G. D. Leoni G. D., “L’arte di Galileo Emendabili per la gloria di San Paolo”, in Fanfulla, 9 luglio 1953
[13] Cfr. Nignami E., “Il controllo delle coscienze nel Nuovo Mondo: missionari e anarchici alla conquista degli emigranti italiani nel Brasile della Republica Velha”, https://storicamente.org/bigmani-emigranti-italiani-brasile-chiesa-cattlica-anarchici
[14] Questo, ad esempio, ha fatto recentemente la prof.ssa Lisandra Ogg Gomes sui punti di contatto in materia di educazione all’infanzia: Ogg Gomes L., “L’Infanzia e l’educazione partecipativa in Brasile e in Italia: ordinamenti giuridici, teorie ed esperienze”, in Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/linfanzia-e-leducazione-partecipativa-in-brasile-e-in-italia-ordinamenti-giuridici-teorie-ed-esperienze/
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Marcia Gobbi, esperta in scienze dell’educazione, area sociologia, cultura ed educazione, è professoressa presso l’Università statale a di San Paolo. Si occupa dell’ampio tema dell’infanzia e della città, con particolare riferimento all’educazione e anche alla lotta per la casa portata avanti dalle donne e dai bambini: su questo specifico aspetto, nell’ambito di un ampio progetto del Consiglio federale brasiliano delle ricerche, sta conducendo a Roma un’indagine sulla vita dei bambini immigrati in una struttura occupata. Interpreta la vita dell’infanzia anche attraverso le immagini ritenendole importante fonte documentale. 
Franco Pittau, dottorato in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ‘70, quando condusse un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania, impegnandosi nella tutela giuridica degli emigrati italiani. È stato l’ideatore del Dossier Statistico Immigrazione, il primo annuario del genere realizzato in Italia. Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Interculture Migrazioni (MEDIM) presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione..
Alexandre Ragazzi, ha conseguitò il diploma di specializzazione in Storia dell’Arte del Novecento presso la Scuola di Musica e Belle Arti del Paraná (EMBAP), seguendo poi un Master e un Dottorato di ricerca in Storia dell’Arte nell’Università Statale di Campinas (UNICAMP), quest’ultimo in collaborazione con l’Università di Firenze. È stato assegnatario di diverse borse di studio. Per i suoi approfondimenti ha soggiornato più volte in Italia, da ultimo a Roma per un anno sabbatico (2022-2023). Attualmente è professore presso il Dipartimento di Teoria e Storia dell’Arte dell’Università dello Stato di Rio de Janeiro (UERJ) e membro del Comitato Brasiliano di Storia dell’Arte (CBHA). I suoi interessi di ricerca si concentrano soprattutto sul rapporto tra pittura e scultura durante il Rinascimento e il Manierismo.
Maria Cristina Stello Leite, Master e dottorato in educazione nell’area delle scienze sociali e dell’educazione, si è dedicata allo studio dell’immagine fotografica, della città e dell’infanzia con contributi pubblicati in libri e riviste che trattano l’argomento. Questo specifico tema è stato sviluppato nella sua tesi di dottorato intitolata “Bambini nella città: registrazioni nel processo di urbanizzazione di San Paolo attraverso le fotografie di Vincenzo Pastore (1900-1910)”. Nel suo lavoro si occupa della formazione pedagogica a Sãn Paulo. É stata maestra nella scuola dell’infanzia e attualmente è coordinatrice pedagogica in una scuola pubblica di Jacareí, una piccola e accogliente città dello Stato di San Paolo. 
Sandra Waisel dos Sanos, cittadina brasiliana di discendenza austriaca (il cognome originario è Weisel) e italiana (Gasparini) per via materna. È nata e cresciuta nello Stato di San Paolo e ha studiato nella capitale. I contatti con gli italiani e la frequentazione dell’Italia, l’hanno portata alla riscoperta delle origini e al perfezionamento dell’italiano, lingua che, nell’ambito di un progetto di solidarietà, si sta prestando a insegnare ad alcuni immigrati a Roma.

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