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Ragionando su mitografie identitarie e snodi storici

Eleonora d'Arborea

Eleonora d’Arborea

di Luciano Marrocu 

Sarà meglio partire dal perché ho deciso di scrivere questa Storia popolare dei sardi e della Sardegna, o meglio dal perché, quando l’editore ha affacciato la proposta di una storia della Sardegna “dai nuraghi ai giorni nostri”, ho detto subito di sì. C’erano diversi motivi di bassa cucina a spingermi in questa direzione, non ultimo il fatto che da almeno vent’anni mi stavo occupando di storia della Sardegna tra la fine del Settecento e il Novecento inoltrato e che, di conseguenza, almeno un terzo dell’eventuale libro poteva considerarsi, se non scritto, ben avviato. Andando avanti nella stesura, ho però preso atto che dietro la scelta di fare questo libro c’era soprattutto la voglia di dire la mia in questo assordante (ma anche coinvolgente) “parlare di Sardegna” che è diventato il tratto più caratteristico dell’attuale panorama culturale sardo. Cercavo in realtà una risposta a domande del tipo, ma tu che tipo di sardo sei? ma non è che il tuo orgoglio di essere sardo sia scandalosamente debole, quando non addirittura inesistente?

Forse capita solo a chi come me fa lo storico di mestiere che domande come queste cerchino le loro risposte nello studio della storia. O magari la storia è solo il rifugio di chi è immalinconito da una incerta appartenenza a una comunità che sembra capace di raccogliersi solo intorno a conclamati (e a volte roboanti) valori identitari. Insomma, avvicinandomi a questa storia della Sardegna “dai nuraghi ai giorni nostri”, da una parte volevo semplicemente mettere a profitto gli strumenti di analisi acquisiti in tanti anni di mestiere, dall’altro cercavo un più solido ancoraggio personale.

Nella mia testa, il libro era sin dall’inizio diviso in due sezioni: la prima, dalle origini sino ai primi decenni della dominazione sabauda, doveva soprattutto basarsi sulla vastissima letteratura storiografica esistente; nella seconda, dall’ultimo decennio del Settecento ai giorni nostri, ritenevo di poter ricorrere a una lunga frequentazione delle fonti primarie. Non è stato certo un caso che nelle numerose presentazioni del volume domande e interventi riguardassero quasi sempre la prima parte, in particolare la “civiltà nuragica”, spesso vista come il capitolo iniziale di una storia nazionale. (Nicolò Atzori ha opportunamente notato come i caratteri ideali di uniformità e unicità riconosciuti alla fase nuragica «abbiano contribuito a definire una narrazione permeante i processi di auto-identificazione del sardo contemporaneo»). Al che la mia unica risposta – ho paura scarsamente convincente per il mio uditorio – consisteva nel proporre un salto in avanti di millenni per arrivare alla rivolta antifeudale guidata da Giommaria Angioy: se proprio si voleva una storia nazionale, là bisogna cercarla, quando la parola nazione aveva iniziato ad assumere il significato che in buona parte mantiene oggi.

Parlando poi di nuraghi, di Giganti di Monte Prama, di pozzi sacri e domus de janas capitava anche a me di percepire quell’alone di mistero e di fiaba che tanto affascinava il mio uditorio. Salvo poi ricompormi per spiegare come proprio la crisi di quella che chiamiamo “civiltà nuragica” inaugurasse una fase aperta a nuovi promettenti sviluppi. Avrei potuto aggiungere le lucide considerazioni fatte da Tatiana Cossu quando spiega come le celebratissime statue di Mont’e Prama (e le meno celebrate ma altrettanto importanti riproduzione di nuraghi sotto forma di modelli) mostrano «l’organizzazione della memoria culturale intorno ad un passato divenuto ormai ‘altro’ e in quanto tale proiettato in una dimensione eroico-mitica».

hqdefaultContinuando a ragionare sulle “strutture dell’identità” non si può che arrivare a Eleonora d’Arborea, la cui figura è ancora oggi centrale in cosmogonie identitarie che trovano inequivoci significati nazionali nella vicenda della “giudicessa”, chiamata a essere tale dalla drammatica fine del fratello Ugone III e capace in un baleno di sbarcare nell’isola a rivendicare i diritti della dinastia e a ristabilire l’ordine nel giudicato. Non si tratta insomma, almeno per quanto mi riguarda, di censurare l’uso in chiave identitaria della vicenda degli Arborea e della loro ricorrente aspirazione a farsi “signori de Sardinia”, quanto di porsi sul terreno dell’analisi storiografica per riportare fasti e nefasti della “naciò sardesca” allo specifico significato che assumono nell’Europa del XV secolo.

Quanto alla mitografia che innerva sardismi e indipendentismi non ho mai cercato né di scansarla, giudicandola marginale, né di censurarla previa dotta decostruzione. Capisco che non sia propriamente questo il compito dello storico, ma mia intenzione è stata anche quella di offrire alle diverse e variegate mitografie identitarie in circolazione materiali per raffinare la propria strumentazione o magari arrivare a sempre utili operazioni di autoanalisi. Proprio in questa chiave, mi sono soffermato a lungo sulla “Sarda Rivoluzione”, cercando di evitare la trappola della interpretazione univoca. Che sarebbe facilmente smentita dall’atteggiamento contraddittorio della nobiltà e della borghesia cagliaritane, capaci di entusiasmi nazionali nei momenti iniziali del processo rivoluzionario salvo poi, previo piagnisteo, mettersi nelle mani della dinastia sabauda quando la rivolta diventa antifeudale.

Come sottolinea Valeria Deplano, anche il XX secolo è stato ricco di mitografie identitarie. Viene in mente il popolarissimo inno della Brigata Sassari, il cui titolo Dimonios riporta alle numerose formazioni di “devils” nate nel corso della Prima guerra mondiale – la brigata Ghurka e i Maori Pioniers, gli esempi più noti – ai cui componenti venivano attribuiti quei tratti di selvaggia ferocia che li rendeva pressoché perfetti come carne da macello e materiale di propaganda.

Ha ragione Pietro Clemente – che qui voglio ringraziare per esserci generosamente assunto l’arduo compito di dimostrare che della Storia popolare dei sardi e della Sardegna valesse la pena parlare, ha ragione Pietro nel suggerire che proprio il dispiegarsi del libro attraverso i secoli, affidato inoltre a un’unica mano, può aiutare una lettura per così dire unitaria della storia dell’Isola. Forse anche Raffaele Cattedra allude a questa possibilità, quando dice di essersi a momenti ritrovato nel libro come in un romanzo, i cui protagonisti e le cui storie non possono che rimandare al quadro unitario che le contiene. E Flavio Soriga, quando parla del fatto che la storia possa essere per il romanziere «un meraviglioso campo da gioco, un parco dei divertimenti», non allude ai mille fili che legano le vite effettivamente vissute a quelle solo immaginate?

149593_121883864650493_403585435_nRagionando intorno alla categoria di autonomia subalterna, Costantino Cossu affaccia la convinzione difficilmente contestabile che, tra la fine del Settecento e i giorni nostri, forti tratti di subalternità hanno impedito alle classi dirigenti isolane anche solo di affacciarsi alla prospettiva della nazione. Si può osservare come, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, una grande parte di queste classi dirigenti si riconosca convintamente nella prospettiva dell’unità nazionale italiana, un orientamento confermato con la nascita dello Stato unitario. Rimane tuttavia da capire quanto dello spirito subalterno che lungo tutto il Novecento continua a caratterizzare la ricerca dell’autonomia sia il frutto di una incerta (o comunque debole) coscienza nazionale, o quanto invece sia il portato di una ineludibile debolezza economica. In altri termini, le classi dirigenti sarde contano poco (se non pochissimo) non perché incapaci di elaborare ideologie e strategie nazionali efficaci ma per il semplice fatto che, dopo essersi fatte soffiare le miniere, su ben poco possono contare per esercitare una qualche pressione sui centri di potere dello Stato.

Un discorso parzialmente diverso va fatto per il sardismo politico, per il Psd’Az cioè. Che, potendo alla sua nascita mettere in campo la risorsa costituita dal consenso pressoché totalitario che gode tra i reduci sardi, conquista una considerevole visibilità (e un qualche peso politico) a livello nazionale. Un esito estremo e per certi aspetti paradossale di questa fase è il “sardofascismo”: che è fenomeno complesso e articolato ma comunque alla base del fatto che buona parte della classe dirigente politica sarda sotto il Fascismo sia di estrazione sardista. Sono venuti poi, per il Psd’Az, alti e bassi, sino al malinconico esito attuale della sua parabola, con il suo leader, Christian Solinas, eletto presidente della Regione, dopo che la sua candidatura è passata al vaglio della Lega e della destra sovranista italiana.

Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023

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Luciano Marrocu, insegna Storia contemporanea all’Università di Cagliari, dove vive, ed è autore di saggi e romanzi. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il salotto della signora Webb (1992), Orwell. La solitudine di uno scrittore (2009) e i romanzi Fàulas (2000, 2010), Debrà Libanòs (2002), Il caso del croato morto ucciso (2010), Affari riservati (2013). Per la casa editrice Donzelli ha curato il volume La Sardegna contemporanea (2015), e per Laterza ha scritto, Storia popolare deli sardi e della Sardegna (2021).

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