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Purezza e comunità. Considerazioni preliminari in tempo di quarantena

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Riti di purificazione zoroastriano

dialoghi intorno al virus

di Giovanni Cordova

18 aprile

L’eccezionalità dell’attuale ondata pandemica sta generando effetti dirompenti in ogni spettro della vita associata e individuale. Linguaggio; tecniche del corpo; prassi e consuetudini sociali; confini tra individuo e società, pubblico e privato, Sé e comunità; abitudini quotidiane; assetti del mercato del lavoro; rapporti tra governance locale e nazionale; persino riti collettivi garanti del passaggio dal qui e ora all’oltre – che lo si declini su un piano sacro e trascendente o profano. Significati generali e interessi contestuali hanno in appena un mese subìto un rapido e radicale riorientamento, rivelando una stupefacente connessione – non necessariamente sincrona – tra micro- e macro-politiche globali (Appadurai 2001; Bromberger 2006).

Anche il campo della scienza ha fatto registrare sobbalzi non trascurabili. La sovraesposizione mediatica di medici, epidemiologici, virologi – alcuni dei quali particolarmente sensibili ai bagliori catodici – ha contribuito alla riabilitazione del parere ‘esperto’ contro la frammentazione post-moderna dell’autorità esegetica in svariati campi del sapere. Ma tale restaurazione è stata solo parziale: la tumultuosa e faticosa radiografia del virus Covid-19 operata da agenzie e attori operanti nel campo medico o farmaceutico e spesso in disaccordo tra loro genera disorientamento nelle percezioni popolari e nel senso comune se accompagnata dal registro saccente e messianico di alcuni scienziati, protesi ad affermare apoditticamente la non democraticità della scienza. Non intendo in questa sede richiamare una riflessione sulla natura dei fatti e dei paradigmi scientifici, su cui nelle ultime settimane si è assistito a una vivace produzione intellettuale da parte di un’altra categoria di scienziati, quelli afferenti alle scienze umane e sociali. Antropologi, sociologi, psicologi, scienziati politici e filosofi hanno problematizzato con vivacità il nesso tra sapere e potere in relazione al trattamento politico della pandemia, illuminando il portato sociale e culturale di cui fatti apparentemente neutri quali un microbo sono in realtà ‘densi’, come l’antropologia medica, per citare solo una tradizione disciplinare, ha dimostrato in merito alle ampie rifrazioni sociali, politiche e comunitarie della malattia.

Questo dibattito scientifico, non solo italiano, ovviamente, e che prende forma nell’ecumene deterritorializzata del web e di cui sarebbe improbo segnalare i riferimenti data la mole del materiale prodotto, riveste un’importanza cruciale in tempi di sacrificio dell’esercizio della critica – e della protesta – in nome dell’unità (ma di che tipo?) del corpo politico della nazione di fronte all’emergenza. Se “non tornerà più come prima”, nonostante la famelicità dell’accumulazione capitalistica per spoliazione (Mellino 2014; Harvey 2004) e in contesti di disastri (Klein 2007) – del resto, secondo le denunce di alcuni sindacati, industriali e capitani d’impresa non hanno mai spento i motori nemmeno nella fase più drammatica della curva epidemica – è perché la quotidianità reimmaginata per imprimere un altro ordine delle cose sarà stata fabbricata anche nelle riflessioni condivise e dibattute in queste settimane.

kleinE ancora, è oltremodo necessario tentare riflessioni critiche, anche al costo di essere derisi con ignominia sui quotidiani della stampa mainstream, come avvenuto recentemente in seguito ad alcune riflessioni provocatorie di Giorgio Agamben, in tempi di sospensione della trasmissione della conoscenza e di affermazione della didattica a distanza. Quest’ultima, sui cui si stanno predatoriamente affacciando aziende operanti nel campo del trattamento dei big data, solo per indicarne una tipologia, rischia di soverchiare egemonicamente modalità ‘tradizionali’ di condivisione del sapere anche dopo la pandemia, immunizzando i contesti educativi di quel potenziale corrosivo e sovversivo proprio della dimensione esperienziale e gruppale della scuola e, in misura più ridotta, dell’università: sapere è potere, ma è anche contropotere. E non sarà certo la teledidattica, con i suoi mostruosi limiti, a formare soggettività politiche e culturali avvertite delle contraddizioni dello spirito del nostro tempo.

In queste pagine non intendo riprendere temi e prospettive già al centro di analisi condotte da autorevoli studiosi. Avverto il limite di sistematizzare in senso esplicativo e non solo descrittivo la traiettoria di un ‘fatto sociale totale’ ancora non del tutto chiaro e sedimentato nella coscienza di chi scrive. Del resto, si tratta di una pandemia inizialmente presentata come una semplice influenza e che al momento, secondo l’OMS ha una letalità dieci volte superiore all’influenza ‘suina’ del 2009. Inoltre, non sono un sostenitore del finalismo immanente alla storia e sono tendenzialmente cauto a celebrare l’evento pandemico come riduzione della tossicità dell’antropocene o occasione di riequilibrio del rapporto tra uomo e natura.

Mi limiterò pertanto ad alcune considerazioni che partono con un semplice esercizio autoetnografico, consapevole del fatto che l’etnografo lavora attraverso il Sé dell’antropologo per contestualizzarlo e trascenderlo (Okely, Callaway 1992), senza escluderlo per facilitare il traguardo di una conoscenza neutra, asettica, impersonale. È da questa dialettica di esperienza e conoscenza che il fieldwork diviene l’esito non soltanto di un esame delle categorie ‘esterne’ ma anche di un’esperienza interiore e intima (Claugh 2006), forse la sola possibile in tempi di domesticità forzata, assai complicati per fare etnografia.

814lvaxxv1lAuto-disciplinamento.

Sono tra i privilegiati a potersi concedere alcune passeggiate al seguito del proprio cane – e non il contrario. Eppure, nonostante l’invidia – legittima – che questa possibilità ha suscitato tra chi invece non possiede un animale d’affezione, i movimenti legati alle necessità fisiologiche del proprio cane non sono del tutto liberi. Molti comuni hanno chiuso l’accesso alle strade e ai viali oggetto di predilezione da parte di runner e pedoni. Sui primi si è scatenata una vera e propria campagna di stigmatizzazione. Ora, su come la discorsività disciplinare del “Io resto a casa” si stia combinando in modo originale con forme di altruismo prescrittivo è stato già oggetto di ipotesi circa nuove modalità di soggettivazione parzialmente svincolate dai modelli ideologici dell’agentività individuale liberale (Cutolo 2020).

Quello che ho osservato e problematizzato sulla mia stessa persona è l’impatto micro-fisico dei dispositivi politico-retorici ampiamente veicolati in queste settimane. Risiedendo in una località affacciata sul mare, mi è stata preclusa la possibilità di passeggiare sulla via marina oltre che sul corso principale. Inoltre, in rete e nei canali telematici di chat, sono rimbalzati gli aneddoti riguardanti forze di polizia che intimavano a padroni e cani di non allontanarsi oltre un isolato dalla propria abitazione, invitando i presunti trasgressori a far rientro in casa. Tale prescrizione, vagamente richiamata nella recente e confusa produzione normativa e dettata apparentemente dal buon senso, che è l’arbitraria affermazione del senso comune della maggioranza, appare in contrasto con le più elementari conoscenze del comportamento animale, soprattutto nel caso dei cani maschi, che urinano non solo per soddisfare un’esigenza fisiologica ma anche per marcare il territorio, motivo per il quale amano dilazionare l’urina su medio-lunghi percorsi.

Inoltre, la patogenicità dell’uscita col cane sembra risiedere maggiormente nel contravvenire a una serie di relazioni ordinate più che nel suo potenziale virale contaminante. In queste settimane riecheggiano un po’ ovunque le celebri pagine di Purezza e pericolo (2014), in cui Mary Douglas argomenta straordinariamente come i sistemi simbolici di purezza e sporcizia siano consustanziali alle ordinazioni e alle classificazioni sistematiche delle cose. Lo sporco sfida le categorie culturali pubblicamente elaborate e pertanto è una faccenda ‘fuori posto’. Rendendo sfocati i confini tra sacro e profano, oltre che tra società ‘primitive’ e ‘civilizzate’, i meccanismi di attribuzione della colpa che vediamo all’opera tanto nelle pratiche quotidiane quanto nelle griglie penali fabbricate durante la pandemia, ci esortano a individuare nella contaminazione una potente risorsa giudiziaria: «non c’è niente che possa stare alla pari con essa per convincere i membri della comunità dei loro doveri. Un pericolo comune dà loro un pretesto, la minaccia di una contaminazione per l’intera comunità costituisce un’arma per la coercizione reciproca. Chi può resistere a usarla se ha a cuore la sopravvivenza della propria comunità?» (Douglas 2014: 11).

Una sera di fine marzo, durante un’uscita serale – l’ultima della giornata – col mio cane, percorrendo vie e strade letteralmente deserte, e dunque con un minimo rischio di incorrere o procurare contagio, allontanandomi di tre o quattro isolati dalla mia abitazione, mi sono passate accanto due vetture della polizia, a luci accese. Ho per alcuni secondi temuto di essere fermato a causa di un comportamento non troppo assertivo rispetto alle recenti prescrizioni – e a quel non detto ma fortemente consigliato, indipendentemente dalla sua validità epidemiologica o sanitaria, di uscire da casa non coprendo spazi e tempi superiori al necessario. Le vetture della polizia hanno proseguito il loro cammino e i poliziotti si sono limitati a rivolgermi un’occhiata indagatrice, ma sono rimasto ugualmente turbato per la mia momentanea reazione, che definirei ‘ansia da conformismo sociale’.

Non si trattava dell’ordinario fastidio che mi arreca essere oggetto di controllo documentale – abituale nelle stazioni, ad esempio – durante quelle interazioni nelle quali si sostanziano palesemente le asimmetrie nei rapporti di forza che affiorano dall’arbitrarietà con cui le forze dell’ordine scelgono chi controllare, invitando perentoriamente al riconoscimento althusseriano di un assoggettamento di cui il controllo d’identità è indice performativo (Fassin 2013).

611rl9la-qlIn quell’occasione, mi sono chiesto piuttosto se, complice uno stato di latente vulnerabilità psico-politica amplificata da una condizione di potenziale pericolo come una pandemia, quel timore non fosse stato in fondo il sintomo dell’incorporazione di una descrizione egemonica della realtà operata da una configurazione di potere attiva nella produzione di soggettività. Attingendo alla profondità antropologica della scrittura gramsciana, Giovanni Pizza (2020) ha recentemente evidenziato le potenzialità di un esame delle modalità concrete – etnografiche – con cui lo Stato dialoga intimamente con i cittadini, ovvero su come si riproduca quotidianamente e molecolarmente la sua inevitabile presenza nella vita quotidiana. Pizza invita a «considerare lo Stato espanso, allargato, frammentato e vivente nell’intimità della vita quotidiana. L’attenzione alla dimensione molecolare dello Stato e alla produzione corporea di senso comune che lo legittima all’interno della società civile è al cuore di un tale lavoro» (Pizza 2020: 102).

Mai come in queste settimane andrebbe considerato lo Stato sia come dispositivo di dispositivi (Cutolo 2017) che come articolazione quotidiana di pratiche ed esperienze che produce senso comune incorporato. Lo Stato plasma l’adesione simbolica all’ordine sociale ma, allo stesso tempo, questo senso comune incorporato è volto alla disincorporazione delle relazioni sociali.

81fcurae2mlSacrificare la comunità?

L’adesione all’ordine del distanziamento sociale – esplicito nella voglia di esercito che viene propagato sulla rete innanzi ai video degli irresponsabili trasgressori – e la soddisfazione che, in commenti disseminati qua e là e raccolti con una postura che definirei proto-etnografica, trapela nel vedere piazze finalmente vuote, strade sgombre, forze dell’ordine che scorrazzano indisturbate nelle città, mi inquietano, benché in questa fase sarebbe superficiale e oltremodo generalizzante individuarvi l’affermazione incontrastata di una soggettività patologicamente identificata in un ideale sociale anti-collettivo più che atomistico. Nello spazio del web infatti assumono proporzioni maggioritarie soggetti e posture abili a ritagliarsi ampia visibilità, indipendentemente dal loro ancoraggio ‘reale’. E non dobbiamo stupirci se, come nota Gino Satta (2020), l’allarmismo generato dalla retorica degli italiani recalcitranti al rispetto delle regole poggia su dati infondati. In fondo, è la trasgressione a fondare e giustificare la proibizione, e nelle riflessioni durkheimiane non è da essa che il mantenimento della coesione sociale viene minato, ma dall’anomia.

Sempre Mary Douglas (2014: 34) rilevava come le credenze nella contaminazione siano oggetto e animino rivendicazioni e contro-rivendicazioni sociali: «il tipo di contatti che sono ritenuti dannosi riveste anche un peso simbolico», dal momento che le idee sulla contaminazione vengono «usate come analogie per esprimere un punto di vista generale sull’ordine sociale».

Così appare reato non giustificare il proprio solitario spostamento, a meno di non addurvi una necessità non procrastinabile, mentre oltre il 60% dei cantieri e delle aziende in Lombardia, centro epidemico alla stessa stregua di Wuhan e New York, non ha mai chiuso. Al destino di bambini, anziani, disabili – pur nell’eterogeneità dei rispettivi statuti – non è stato attribuito carattere d’urgenza, mentre le pressioni di Confindustria e delle classi sociali che controllano la produzione economica hanno esercitato ben altro peso politico, influendo massicciamente sulla gestione della pandemia. La triade ‘curare-sorvegliare-punire’ non mette affatto fuori gioco una quarta azione paradigmatica, produrre, al netto dei pur evidenti rallentamenti cui questa dimensione economica è andata incontro.

Riflettendo sugli effetti performativi del potere, Judith Butler (2017) suggerisce di analizzare le pratiche di resistenza collettive e democratico-popolari impegnate nella fondazione di una discorsività altra, senza fermarsi alle retoriche che adottano esplicitamente. L’autrice le qualifica infatti primariamente come ‘incarnate’.

Riporto a tal proposito alcuni ampi passaggi tratti dall’introduzione al volume della studiosa tradotto in italiano col titolo Alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva. Riguardo a quelle azioni collettive critiche e transitorie, che spesso evaporano non appena assumono la consistenza di quelle forme di governo inizialmente combattute,

«dovremmo forse soffermarci sull’importanza del fatto che i corpi si riuniscono, e che i significati politici messi in atto da tali dimostrazioni non sono solo legati al discorso, scritto o orale che sia. Le varie tipologie di azioni incarnate esprimono significati in modi che, in senso stretto, non sono né discorsivi né prediscorsivi. In altre parole, le modalità di aggregazione esprimono già un significato molto prima di ogni particolare istanza che possano porre, e a prescindere da essa. I raduni silenziosi, incluse le veglie o i funerali, spesso esprimono un significato che eccede ogni particolare descrizione, scritta o verbale, di ciò che effettivamente sono. Queste modalità performative, incarnate e plurali, sono parte fondamentale di ogni possibile comprensione del “popolo”, pur nella loro necessaria parzialità […]. Il motivo per cui la libertà di riunione è solitamente distinta dalla libertà di espressione consiste precisamente nel fatto che il potere che il popolo ha di riunirsi è di per sé un’importante prerogativa politica, separata dal diritto di dire ciò che ha da dire una volta che il raduno è avvenuto. Il radunarsi esprime un significato che eccede ciò che viene detto, e questo modo di significazione è in sé una messa in atto corporea e concertata, una forma performativa plurale. […] Dal momento che la performatività è stata spesso associata alla performance individuale, può essere importante riconsiderare quelle forme di performatività che possono operare solo attraverso forme di azione coordinata, le cui condizioni e i cui obiettivi consistono nella ricostituzione di forme plurali di agency e di pratiche sociali di resistenza. Così, il movimento o l’immobilità, il collocarmi con tutto il corpo in mezzo all’azione di un altro, non è né il mio atto né il tuo, bensì qualcosa che accade in virtù della relazione che c’è tra noi, che deriva da quella relazione, che crea ambiguità tra l’io e il noi, e che cerca al contempo di preservare e di disseminare il valore generativo di quell’ambiguità in una relazione attiva e di deliberato sostegno reciproco, una collaborazione, ben distinta da un’allucinata fusione o confusione (Butler 2017: 15-19).

61prktigcjlLo stato di emergenza politico/sanitaria ha incistato del sospetto il legame sociale. Come emendarlo per rigenerare le potenzialità trasformative e progressive dell’essere in società? L’immunità che stiamo forsennatamente ricercando non prevede forse, nelle sue declinazioni veicolate dalle agenzie governamentali, l’abolizione del munus che Roberto Esposito, nella sua lettura della comunità, pone a fondamento della vita in comune? La comunità è sì una collettività «i cui membri condividono un’area territoriale come base di operazioni per le attività giornaliere» (Parsons 1951: 97), ma la disposizione all’agire comune risiede tanto nella percezione «soggettivamente sentita» (Weber 1922) di una comune appartenenza e di un’identità di interessi quanto nella condivisione di un impegno reciproco – quasi un mutuo indebitamento, un dovere, dall’etimo munus – che proietta ogni suo membro sull’altro da Sé (Esposito 2006). Il filosofo italiano ci avverte che comunità non è il ‘pieno’ che risulta dalla «mimesi riproduttiva di un modello originario» (ibidem:100), ma una condizione di indebitamento permanente dovuto alla costante apertura all’altro che porta ciascun soggetto a trascendere se stesso e ogni pulsione di finitezza (individuale e collettiva).

esopositoFutura immunità

Se ogni definizione immunitaria della comunità comporta l’elaborazione di nuove griglie dell’esclusione sociale, un rischio ancor maggiore è che dunque dietro un indefinito atto di protezione si consumi il biopolitico esonero forzato dalla reciprocità e dunque il sacrificio stesso della comunità (Preciado 2020). Con ciò assisteremmo al passaggio finale dall’utopia della “futura umanità” alla distopia della “futura immunità”.

L’economia morale liberale normalizza l’individualismo per poi rimuovere tuttavia i reali pericoli della vita sociale dai mondi locali, rigettando le minacce a una esistenza sicura nella cornice di una vaga e supposta ‘società del rischio’ (Bihel, Good, Kleinman, 2007), in cui i soggetti sono chiamati a riconoscere e fronteggiare rischi dipinti come incombenti mediante il ricorso a dispositivi e tecnologie del sé (Foucault, 1992).

Bisognerebbe in effetti assegnare al neoliberismo statuto di ‘forma di vita’, la cui logica profonda risiede ben al di là di considerazioni meramente economiche, incardinandosi entro stili, aspirazioni, frustrazioni, economie morali. La razionalità di mercato e la responsabilizzazione individuale vengono estese a ogni meandro dell’esistenza umana (Wacquant 2012), imponendosi come una nuova incontestabile ragione del mondo attraverso la produzione di un certo tipo di relazioni sociali, forme di vita e soggettività (Dardot, Laval 2009).

Ma è presto per assemblare conclusioni definitive. Dall’India al nord Africa, all’America centrale, in ogni parte del mondo la governamentalità macro- e microfisica da Covid-19 incontra resistenze, tattiche, declinazioni sovversive. In Italia, ad esempio, le rivolte nelle carceri nel mese di marzo ci ricordano come l’impatto delle misure di sicurezza all’interno delle istituzioni totali siano ipocrite, del tutto inutili sul piano sanitario e oltremodo deleterie per il benessere complessivo della persona.

La partita resta aperta, il futuro della soggettività neoliberale che istituzioni e agenzie hanno senza sosta fabbricato e ancorato a modelli culturali negli ultimi decenni (McGuigan 2014) appare quanto meno incerto di fronte all’irruzione decisa nel dibattito e nella sfera pubblica del diritto alla salute collettiva e alla sua parziale preminenza sulle libertà individuali. Vero è che attorno alle categorie di purezza e pericolo prende forma il patto costitutivo di ogni comunità. Ricordiamo tuttavia che «il paradosso finale della ricerca di purezza è che essa è un tentativo di forzare l’esperienza entro categorie logiche di non-contraddizione: ma l’esperienza non è malleabile, e chi si lascia attrarre da questo tentativo cade in contraddizione» (Douglas 2014: 249).

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
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Giovanni Cordova, dottorando in ‘Storia, Antropologia, Religioni’ presso l’Università ‘Sapienza’ di Roma, si interessa di processi migratori – con particolare riguardo al sud Italia, società multiculturali e questioni di antropologia politica nel Maghreb. Per la sua ricerca di dottorato sta esaminando la dimensione politica ‘implicita’ nella vita quotidiana dei giovani tunisini delle classi sociali popolari nonché la commistione tra i linguaggi della religione e della politica. Prende parte alla didattica dei moduli di antropologia nei corsi di formazione rivolti a operatori sociali e personale della pubblica amministrazione in Calabria e Sicilia.

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