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Professionalità in medicina tra pubblico e privato. Intervista ad Alberto Ricciardi

 

Locandina Seminario di Urbino

Locandina Seminario di Urbino

di Tiziana Migliore

Già prima della pandemia, nelle proteste in piazza dei no-vax, lo slogan più diffuso era “Io sono il medico di me stesso”. A settembre del 2019, sul tema della crisi di fiducia nell’autorevolezza e nelle specializzazioni scientifiche, organizzavamo a Urbino, al Centro Internazionale di Scienze Semiotiche Umberto Eco, due seminari: I cittadini scienziati fai da te e La competenza esperta: tipologie e trasmissione. Ma non potevamo certo immaginare, finché il Covid-19 non lo ha reso evidente, quanto fosse attecchita in molti l’idea folle, contronatura, che ci si educa da soli. Si è arrivati a ritenere intollerabile che qualcuno abbia conoscenze maggiori e migliori per la cura intellettuale e fisica altrui.

Eppure filosofi del Novecento, come Gilles Deleuze, e sociologi e antropologi contemporanei insistono nel dire che l’individuo è un’intersezione di una serie di collettività (Harry Collins, “Language and Practice”, in Social Studies of Science, 2011) e che prima vengono le “corrispondenze” con altri umani, con animali, piante e oggetti, poi gli esseri singoli, risultato di queste “linee” (Tim Ingold, Siamo linee, 2021). Perfino la domanda posta a Margaret Mead, pare, da uno studente – quando una comunità progredisce tanto da diventare “civile”? – riceve una risposta che va in questa direzione.

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da Creative Commons

Una comunità è civile non quando esimi esponenti la fanno evolvere con il loro pensiero e linguaggio, né grazie a macine di pietra, a pentole di terracotta, all’etichetta o al ben vestire. Il primo segno di civiltà in una cultura, secondo l’antropologa, è un femore rotto che viene guarito. Perché un animale, se si rompe una gamba, muore. Non può fuggire dal pericolo, andare al fiume a bere o cercare cibo; è carne per predatori che si aggirano intorno a lui. Nel mondo umano e fra umani e animali, invece, un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con chi è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e aiutato a riprendersi. La cura dell’altro, che è un dono reciproco, è il punto preciso in cui la civiltà inizia.

Sulla scia di questa tesi, abbiamo incontrato a Venezia un importante ortopedico italiano, Alberto Ricciardi, per un’intervista sui problemi che un professionista in ambito sanitario incontra oggi. Fra i principali c’è il bivio della scelta fra pubblico e privato, che è un aut aut inasprito da finanziamenti politici sbilanciati e da preconcetti duri a morire.

Alberto Ricciardi è il primario di Ortopedia dell’Ospedale Civile SS. Giovanni e Paolo di Venezia. È specialista nella chirurgia dell’anca, del ginocchio e della spalla e si avvale di una tecnica all’avanguardia per l’artroprotesi dell’anca, chiamata Amis (Anterior Minimally Invasive Surgery), con la quale raggiunge l’articolazione per via anteriore e posiziona la protesi senza incidere i tessuti muscolari o ledere nervi, tendini o vasi. Questo medico fiore all’occhiello della sanità pubblica che rimette in piedi il paziente dal giorno dopo (perfino operando entrambe le anche in un colpo solo) e gli permette di tornare a una vita normale in tre settimane, esegue circa 250 interventi all’anno su ricoverati che provengono da varie regioni italiane. Il passaparola funziona, nel suo caso, perché unisce all’expertise una rara e spontanea capacità di empatia.

Sulla scorta della tesi di Margaret Mead che un femore rotto, curato da qualcuno e guarito è il punto preciso in cui la civiltà inizia, lo abbiamo incontrato a Venezia per un’intervista, in un momento di stallo di molti reparti a causa della variante Omicron che rende difficile la gestione clinica, logistica e organizzativa delle strutture ospedaliere.

Dr. Ricciardi, dove ha imparato la tecnica chirurgica che utilizza? L’ha ereditata in ospedale dall’équipe di Ortopedia che l’ha preceduta?

«Nel 2008, nell’ospedale di Castelfranco Veneto, dove ho iniziato a fare il primario, impiegavano la tecnica tradizionale. Dopo aver partecipato a Tours, in Francia, a un corso teorico-pratico sulla chirurgia protesica dell’anca per via anteriore, ho deciso di passare a questo approccio, convinto della sua maggiore efficacia. Diversi accessi chirurgici sono possibili per arrivare all’articolazione e impiantare una protesi e l’accesso ancora oggi preferito a livello internazionale è quello postero-laterale. L’accesso anteriore, che usiamo noi a Venezia, ha il vantaggio di essere intermuscolare, internervoso e di rispettare la vascolarizzazione. Esiste da molti anni, ma è stato scarsamente utilizzato perché, nell’impianto dello stelo protesico, esporre il femore prossimale non è facile.

Negli ultimi anni un’azienda svizzera ha sviluppato un tipo di protesi favorevole all’impianto per via anteriore e in particolare ha dotato il chirurgo di un dispositivo di posizionamento dell’arto che permette movimenti di rotazione-estensione-adduzione, consentendo un’ottima esposizione del femore prossimale. Il grande pregio di questa corporation, che la rende credibile e competitiva rispetto ai grandi colossi del design ortopedico, è di aver messo in atto, in una propria Accademia, non solo programmi di formazione dei chirurghi finalizzati all’apprendimento delle tecniche, all’innovazione e alla sperimentazione, ma anche processi di educazione alla cultura del lavoro e all’attenzione per lo stato del paziente». 

Venezia, Ospedale civile

Venezia, Ospedale civile SS. Giovanni e Paolo

Come avviene l’acquisizione di competenze in un campo come la chirurgia? 

«L’aggiornamento e la ricerca in chirurgia sono fondamentali. Oggi noi ospedalieri facciamo fatica a spostarci, perché il personale è ridotto. Io continuo a recarmi con una certa frequenza nei centri internazionali di riferimento in modo da acquisire sempre nuove nozioni, in particolare per poter svolgere gli interventi chirurgici delle patologie più complesse e meno frequenti. Sono un tutor della via anteriore e 5,6 volte l’anno tengo dei corsi di formazione teorici e pratici per giovani chirurghi in collaborazione con l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. Il primo passo per un apprendista, in appositi cadaver lab, è l’apprendimento della tecnica accanto a chirurghi esperti. Il passo successivo è l’impianto della protesi a cuore battente, su primi pazienti, ma sempre con la vicinanza del chirurgo esperto, il che consente di procedere per gradi e di conoscere e fare esperienza non da soli». 

In questi mesi, negli ospedali pubblici, tutti gli interventi chirurgici non urgenti, anche se programmati, e terapie importanti sono stati rinviati per garantire risorse adeguate ai malati Covid. La mancanza di letti e di organico rischia però di penalizzare altri pazienti fragili o cronici. In fatto di concorsi qualcosa si sta muovendo nelle specializzazioni carenti come anestesia e rianimazione e medicina d’urgenza, ma il profilo retributivo rispetto alle stesse categorie nel resto d’Europa resta basso. Potremmo trovarci ad avere tanti posti di specializzazione e poi nessuno che si presenta… Cosa direbbe per incentivare la professione del medico nel sistema sanitario pubblico a chi vorrebbe intraprenderla, ma esita? 

«La formazione di un medico chirurgo può avvenire solo ed esclusivamente in ospedale. Oggi i giovani medici sono sempre più attratti dalla libera professione pura o dalla libera professione in convenzione. E tentano di specializzarsi in un unico settore. La chirurgia ortopedica è molto vasta: abbraccia diverse età, dalla neonatale al grande anziano, tutta la traumatologia e i vari distretti scheletrici (spalla, gomito, mano, anca, ginocchio, piede, colonna…). Specializzarsi immediatamente in un unico campo è a mio avviso svantaggioso. Bisogna partire da una conoscenza dell’intero apparato locomotore, trascorrendo almeno 5-10 anni in una divisione ospedaliera, facendo dapprima esperienza in traumatologia, dedicandosi poi alla branca che si predilige per specializzarsi in seguito esclusivamente in quel settore. La formazione deve essere ospedaliera.

Certo, nel sistema sanitario pubblico, la situazione non è rosea. È recentissima un’inchiesta sul malcontento degli ospedalieri nel Veneto (Nuova Venezia, Mattino di Padova, Tribuna di Treviso, 07/02/2022): 9 su 10 vogliono abbandonare le strutture in cui lavorano. I problemi sono precisi e lampanti, ma non sono mai stati affrontati di petto: la carenza di personale medico e paramedico, che rende l’impegno orario di molto superiore a quello stabilito dalla legge (anziché 38 ore, tutti sforano le 50); la politicizzazione delle aziende, che rende difficili se non impossibili le assunzioni di personale per merito e le progressioni di carriera se non si hanno raccomandazioni; l’inadeguatezza degli stipendi rispetto al monte ore orario, al tipo di lavoro che si svolge e alle responsabilità che si hanno. Ho sempre creduto e credo fortemente nel sistema pubblico, che è il vero mondo del medico, ma capisco i giovani che non ne sono attratti». 

41asxb-v-plIl recente saggio di Bernardo Sordi Diritto pubblico e diritto privato. Una genealogia storica (Il Mulino, 2020) ricostruisce lucidamente il lungo itinerario della distinzione fra pubblico e privato, mostrando da un lato come essa rimandi a due modelli fondamentali di ordine attraverso i quali si è storicamente organizzata la convivenza umana, dall’altro che il rapporto fra pubblico e privato in termini di visione antitetica – koinon/idion, empire/propriété, interesse generale/interessi particolari – inizia solo con lo Stato moderno, che cattura il diritto privato nell’orbita dell’individualismo giuridico.

A Roma pubblico e privato non erano sfere esclusive, ma effetti prospettici di un popolo riunito intorno al diritto e all’interesse comune (Cicerone, De re pubblica). È quando la signoria della volontà dello Stato si trasfigura in manifestazione di potere che i due punti di vista divergono: fra Settecento e Ottocento il Codice si fa garante dell’“individuo insulare”, astratto e separato dalle formazioni sociali, e, in parallelo, l’antico diritto pubblico cede il passo all’amministrativo, a uno Stato-macchina rigidamente accentrato che sostituisce la giustizia sociale con funzioni di controllo e di concessione. Oggi il fronte pubblicistico ha finito per essere privatizzato dal suo incontro con l’economia, da cui le aspre accuse mosse al Governo e alle Regioni di finanziare aziende sanitarie private con fondi pubblici. E la società civile, che pretende di separarsi da questo Stato in cui non si identifica, sospinge la “grande dicotomia” verso l’onda lunga della proprietà e della libertà (vd. i no vax). La relazione fra pubblico e privato si riduce così a una mera questione di opportunismi, a definizioni stipulative circoscritte, mantenendosi intatte a livello macro separazioni di principio, dogmatiche.

Sulla base della sua esperienza, ci sono modi per ovviare a queste sovradeterminazioni individualistiche e statualistiche? La differenza fra i due approcci può dar luogo, dal basso, a forme di cooperazione virtuosa, a beneficio del paziente ed esemplificative di una via meno divisiva?

«La cooperazione fra pubblico e privato è indispensabile ma ci sono difficoltà oggettive, una fra tutte il conflitto di interessi. Per il chirurgo ospedaliero non è possibile collaborare a scopo scientifico con le aziende che forniscono le protesi all’ospedale. Le aziende partecipano a gare regionali e sono valutate da commissioni di medici che non potranno più avere rapporti di collaborazione per 10 anni. È un ostacolo da superare! Per evitare reali conflitti di interesse potrebbero essere istituite delle commissioni di controllo super partes che stabiliscano se e quando apparecchi di qualsiasi tipo debbano essere impiantati, se sono di qualità e se le collaborazioni sono di tipo scientifico, prima che economico.

Gli scandali di corruzione scoppiati in passato sugli omaggi e le tangenti che i medici, in cambio di prescrizioni “mirate”, prendevano da industrie farmaceutiche e case produttrici di apparecchi e dispositivi, hanno creato tanti e tali preconcetti sulle attività di consulenza da impedire di ragionare con buon senso. Il risultato è che oggi, nella sanità pubblica, ci si accanisce contro la figura del medico senza più apprezzare la sua expertise.

La Riforma Bindi del 1999 (legge 833/78) illustra perfettamente l’inettitudine nell’affrontare in modo corretto i problemi. L’ex ministro della Sanità ha pensato bene di abbattere le liste di attesa negli ospedali non garantendo remunerazioni dignitose ai professionisti di valore, facendo assumere nuovo personale o aumentando i posti letto, ma rendendo incompatibili pubblico e privato e scaricando l’intera responsabilità del malfunzionamento delle strutture sui dipendenti. Questa legge oggi molto contestata ma ancora in vigore ha obbligato medici e personale sanitario a scegliere se lavorare in esclusiva con il Servizio sanitario nazionale o meno. Chi opta per l’esclusiva (intra moenia) riceve un’indennità di 750 euro, è incentivato con circa 1000 euro al mese (forse non c’era altro modo per giustificare un aumento per stipendi del settore tra i più bassi in Europa!) e si impegna a operare privatamente, fuori dal normale orario di lavoro, in ospedale o per conto dello stesso nel proprio studio. Il paziente paga una tariffa modica alla struttura, il medico rilascia fattura sul bollettario aziendale e le casse delle aziende ospedaliere si rigenerano, con denaro idealmente da investire in tecnologia e formazione. I sanitari che non scelgono l’esclusiva possono svolgere la libera professione altrove (extra moenia), ma non ricevono l’indennità né incentivi. Le falle di questo sistema si sono subito aperte. Siccome gli ospedali non avevano spazi dove far svolgere ai sanitari l’attività privata, nel 2013 qualche genio della sanità o della finanza ha partorito l’idea dell’attività intramuraria “allargata”, utilizzando cliniche private o convenzionate. Queste case di cura incassano i compensi, ma una percentuale spetta all’ASL di appartenenza. Così il tabù del settore privato, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra!

La legge di riordino del servizio sanitario nazionale sottovaluta il fatto che ad essere richiesti extra moenia, anche per formare generazioni più giovani e trasmettere saperi, nella maggior parte dei casi sono i migliori. Non investe su di loro per gratificarli e trattenerli. Non riconosce ai sanitari il diritto di far pagare il loro operato a chi vuole. Insinua la supposizione – falsa – che i medici trascurino i pazienti “non paganti” e prediligano quelli che hanno soldi per potersi curare. Ma soprattutto innesca un meccanismo perverso di separazione fra pubblico e privato per poi surrettiziamente negarlo».

Tra marzo e maggio del 2021 la CGIL, alcuni quotidiani veneziani e la senatrice del Movimento Cinquestelle Oriella Vanin, con un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute Speranza e un video inquietante che circola su Internet, l’hanno accusata di marketing sanitario per un protocollo d’intesa sottoscritto dall’allora direttore generale della ULSS 3 ‘Serenissima’ Giuseppe Dal Ben e da Francesco Galli, amministratore delegato degli istituti Ospedalieri Bergamaschi. La convenzione le avrebbe consentito, insieme alla sua équipe dell’Unità di Ortopedia dell’Ospedale, di operare due volte al mese al policlinico privato San Pietro del Gruppo San Donato di Bergamo. Lo staff veneziano sarebbe stato pagato dalla ULSS veneta che avrebbe ricevuto i corrispettivi da Bergamo. Si è scatenata una bufera perché, come dipendenti pubblici e nell’orario ordinario di lavoro, avreste fornito le vostre prestazioni in ambito privato e fuori Regione a pazienti ricoverati in questa clinica lombarda, danneggiando gli utenti del territorio veneto e veneziano.

All’interrogazione il ministro non ha risposto, ma lo scorso novembre ha indicato con chiarezza la strada da percorrere per il Servizio sanitario nazionale: “una collaborazione pubblico/privato essenziale per la sinergia positiva che ne deriva. Investimenti pubblici e investimenti privati sono la vera modalità per rendere più forte il sistema Paese” (www.anaao.it, 03/11/2021). Sindacalisti, giornalisti e politici, che pure parlano di lei come di un “luminare”, le hanno mai chiesto chiarimenti prima di sparare a zero contro la convenzione? Altrimenti viene da pensare che abbiano agito senza cognizione di causa, attratti da pregiudizi e luoghi comuni con cui è facile ottenere il consenso. 

«Non mi è mai stato chiesto di spiegare la convenzione. Alla fine del 2019 il Gruppo San Donato mi ha contattato per assumermi e rilanciare il centro di protesica del Policlinico di Bergamo. La proposta era allettante dal punto di vista sia professionale sia economico, ma ho deciso di non lasciare l’ospedale di Venezia. Il Gruppo ha allora tentato di stipulare una convenzione con il SS. Giovanni e Paolo per avere me e la mia équipe lì, con il patto di non ricoverare pazienti provenienti dal Veneto. Il San Donato avrebbe riconosciuto non direttamente a me, ma alle casse dell’ospedale un corrispettivo in base al numero degli interventi effettuati all’anno. Una percentuale sarebbe poi andata a noi. La convenzione era vantaggiosa non solo per me, ma per tutta l’azienda.

Chi ci ha accusato di sottrarre tempo all’ospedale per fornire prestazioni sanitarie nel privato dimentica che noi dipendenti pubblici possiamo esercitare in strutture pubbliche solo ed esclusivamente in orario di lavoro, che non sempre in Italia vuol dire durante i giorni “feriali”.  Saremmo potuti andare a Bergamo, sotto l’egida dell’ULSS 3 di Venezia, il sabato o la domenica, perché nel privato convenzionato, a differenza del pubblico, è possibile operare anche nei fine settimana! Aggiungo che il direttore di un reparto non deve timbrare il cartellino né è tenuto alla reperibilità. Dura in carica 5 anni e viene giudicato, alla fine del proprio contratto, non in base all’orario ma rispetto a specifici parametri, nel mio caso il numero di interventi, il numero di ricoveri, la percentuale di dimissioni corrette in base alla patologia e così via.

Alla sanità pubblica manca capacità di visione imprenditoriale. Se la stessa cosa fosse accaduta nel privato, anziché penalizzarmi, sarei stato incoraggiato a recarmi altrove perché, intrattenendo relazioni e creando bacini di utenza all’esterno, mi sarei fatto conoscere per come lavoro e avrei attratto pazienti nella struttura in cui opero. Anche la medicina deve essere imprenditoriale e non si vede perché questo dovrebbe necessariamente stridere con la scienza e la coscienza del medico, con la sua deontologia». 

41rxvueq1xsC’è un gap cognitivo profondo sulla medicina oggi. In parte dovuto al fatto di cullarci che tutto sia come prima, quando la gente si fidava della scienza, senza voler sapere. Dalla seconda metà del Novecento, invece, filosofi come Michel Foucault hanno puntato l’attenzione sul tema del rapporto corpo-malattia-lavoro medico (cfr. la recente pubblicazione dei testi delle sue tre conferenze a Rio de Janeiro nella raccolta Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, a cura di Paolo Napoli, Donzelli, 2021). Poi Internet, dando libertà di parola a tutti, ha favorito le opinioni personali, sempre più diventate convinzioni, sull’autorevolezza altrui. Che qualcuno orienti le nostre scelte riconoscendogli una competenza per farlo è fuori moda. Passa l’idea che ci si educa e ci si cura da soli. “Io sono il medico di me stesso”, è lo slogan più diffuso nelle proteste dei no-vax.

A più di cinquant’anni dalla “biopolitica” foucaultiana, che dipingeva la medicina come una strategia di assoggettamento della persona attraverso l’intervento sul corpo, molti continuano a parlare di “dittatura sanitaria” invocando il ritorno a una “vita naturale” e la loro estraneità alla tecnica. Di fatto, però, la medicina lavora da più di due secoli sulla costruzione del benessere collettivo e questa presunta alleanza individuo-natura-libertà, difesa anche fino alla morte, ha tutta l’aria di essere un mito contemporaneo. Per lei che significati hanno la medicalizzazione e la pratica della cura? 

Ricciardi

Alberto Ricciardi

«La decisione individuale è necessaria e la cura non può essere imposta, per rispetto nei confronti della persona. Da questo punto di vista l’alleanza individuo-natura-libertà è giusta. La libertà, però, presuppone un’adeguata conoscenza di tutte le circostanze particolari che contornano la scelta (Aristotele) e i no-vax non sembrano rendersi conto che il loro essere liberi è in gioco insieme a quello degli altri. I non vaccinati influenzano negativamente il corso dell’infezione da Covid e lo Stato, da garante dei diritti di tutti i cittadini, dovrebbe imporre la vaccinazione.

Come ortopedico, chirurgo della funzione, non mi limito all’esame clinico e alla visione degli esami strumentali (Rx-TC-RM ecc.), ma ascolto il paziente. Ed è solo sulla scorta delle sue condizioni, della sua reale sofferenza quotidiana che suggerisco di operarlo. Alcuni casi risultano più difficili di altri, ci sto male se si complicano e non mi do pace fino a quando non riesco a trovare una soluzione». 

Chiaro che medici così dediti al proprio lavoro vengano richiesti da più aziende, pubbliche e private. Il modo per convincerli a restare negli ospedali non è certo quello di adottare un rigido meccanismo soverchiamente vincolante del diritto alla libera professione, ma al contrario, destinando più risorse alla sanità pubblica, di retribuirli per come meritano e valorizzarli per la risonanza che hanno all’esterno e le attestazioni di stima che ricevono. 

Dialoghi Mediterranei, m. 55, maggio 2022

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 Tiziana Migliore, è professore associato di Semiotica all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” e segretario scientifico del Centro Internazionale di Scienze Semiotiche “Umberto Eco” che vi ha sede. Vicepresidente dell’Associazione Internazionale di Semiotica Visiva (AISV-IAVS), ha pubblicato le monografie Miroglifici (2011), Biennale di Venezia (2012), I sensi del visibile (2018) e più di ottanta articoli scientifici italiani e internazionali (inglese, francese, spagnolo, russo, lituano). Collabora con Il manifesto e La Repubblica.

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