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Ciad si gira: “Lingui”, legami sacri

 locandinapg1di Aldo Nicosia

 L’insostenibile “leggerezza” dei titoli

Una madre, una figlia è la traduzione italiana del titolo del film Lingui. Les liens sacrés (2021), del regista ciadiano Mahamat Saleh Haroun (1961), una coproduzione di Francia, Belgio, Germania, Ciad. La versione italiana è stata lanciata da poco nel nostro Paese e sicuramente sarà doppiata. Il titolo che a mio avviso è stato tradotto in un modo abbastanza banale elimina il contenuto di quello originale, francofono. Persino quello della versione inglese mantiene il termine “Lingui” (di una lingua ciadica a me sconosciuta), che è chiave di volta della filosofia del regista, seguito immediatamente dal sottotitolo “sacred bonds”.

2Con questo film si ripropone per l’ennesima volta il seguente interrogativo: perché i titoli italiani di film di cinematografie extraeuropee subiscono sistematicamente drastici tagli che tendono ad eliminare i termini specifici di lingue lontane?  Perché sull’altare del dio guadagno si sacrificano, con arrogante spregiudicatezza, termini importanti che nelle altre versioni europee vengono mantenuti? Tra l’altro lo stesso regista nei titoli di alcuni suoi lungometraggi è solito inserire un termine attinto dalla sua lingua madre, una delle tante parlate oralmente nel suo Paese, ma senza formale riconoscimento.

Nella versione italiana di Daratt: saison sèche (2006), uno dei maggiori successi del regista che dagli anni ‘80 si è stabilito in Francia, la “stagione secca” del sottotitolo originale è stata trasfigurata in “stagione del perdono”, mentre in quello della versione inglese veniva tradotto alla lettera con “dry season”.

3Di solito, nei film di Haroun, ma spesso anche in altre cinematografie, il sottotitolo è una traduzione del primo titolo, che, senza alcuna spiegazione, forse suonerebbe troppo esotico e distante per un pubblico europeo, che è poi il target principale dell’opera cinematografica.

Il sottotitolo della versione italiana, che suppongo sia stato ispirato da una frase che si trova nella locandina della versione francese (“le pardon est la seule victoire”) consegna direttamente allo spettatore italiano un indesiderato spoiler. 

4In precedenza, la costante dei termini in lingue locali nei titoli si era vista con Abouna (2002), che in arabo standard e anche ciadico, significa “nostro padre”. Nel sottotitolo inglese troviamo la traduzione “our father”, in quella francese “notre père”. Chissà come lo avrebbero tradotto i distributori italiani, se ne avessero fatto una versione, che a tutt’oggi, non mi risulta esistere!

Legami sacri, religione e tradizioni

Linghi (secondo la grafia francofona Lingui ma senza la tipica nasalizzazione) si riferisce a quei legami di solidarietà, determinati dalla consanguineità, che nella società ciadiana rimangono sempre forti e sono risolutivi di situazioni difficili, spesso secondo meccanismi e modalità ormai non più riscontrabili in un Occidente sordo a gesti di mutuo soccorso.

5Quei sacri legami, obliterati dal titolo italiano, sono decisivi nella trama di un film che esprime una narrazione lineare con convincente realismo (tranne nell’uso del francese nei dialoghi tra madre e figlia), delineando una realtà con connotati verosimili, per poi svilupparli secondo sbocchi e soluzioni narrative che trascendono la stessa verosimiglianza, quasi in un’atmosfera di favola piena di ottimismo.

La vicenda si svolge in un povero quartiere della periferia di N’Djamena, capitale del Ciad, in un imprecisato anno del nostro millennio. L’unico appiglio è l’uso di modesti telefoni cellulari, probabilmente perché le condizioni economiche della famiglia dei protagonisti non consentono di più.

Amina era stata bandita dalla famiglia d’origine quando da adolescente era rimasta incinta. Maria, la figlia quindicenne, frequenta un liceo per sole ragazze, nel rispetto della tradizione islamica. Anche lei è isolata dalla società del quartiere, in ragione del suo status di ragazza madre. Membri integranti della piccola famiglia sono un gattino dal malinconico miagolio, e un magrissimo ed esuberante cagnolino, su cui si focalizza l’affetto delle due donne.

Molti uomini ronzano intorno alla loro casa, a partire dal vicino Ibrahim, personaggio inquietante già dalle prime scene (le lancia profferte di …matrimonio, e per convincerla, a mo’ di promemoria, le ricorda il suo status di donna reietta). L’imam di una piccola moschea, al cui interno non sono ammesse le donne, è personaggio invadente che la rimprovera per le sue assenze nelle preghiere canoniche quotidiane.

da Una madre, una figlia, Amina e Maria

da Una madre, una figlia, Amina e Maria

Amina si guadagna da vivere costruendo cestini coi fili di ferro, estratti con sudore e fatica da vecchi copertoni. Una vita semplice, scandita dal lavoro al suq o per strada, attraverso strade sterrate o ponti sopra il placido lago Ciad.

La fotografia di molte scene, all’alba o al tramonto, tra i sentieri del villaggio, è struggente e comunica il classico ritmo della imperturbabile quotidianità di un paese del Sahel, ritmata dall’appello alla preghiera o dal duro lavoro. La telecamera spesso è ferma e segue solo lateralmente i movimenti di madre e figlia, oltre che degli altri personaggi. Il lirico paesaggio naturale, adornato dagli abiti a colori vivaci delle donne del quartiere, contrasta con lo squallore di lamiere come porte, copertoni, barili, ferraglia, cumuli di rifiuti, indice di un’economia di sussistenza ma anche dell’operosità di una popolazione che si arrabatta con dignità per tirare avanti. Parallela a questa corre anche una vita totalmente diversa, quella delle élites occidentalizzate della capitale, con adolescenti che organizzano feste promiscue e fanno uso di alcool. 

Da Lingui, Amina e Maria

Da Una madre, una figlia, Amina e Maria

Effetto specchio

La tranquilla quotidianità di Amina viene sconvolta dalla scoperta che la figlia è incinta: si replica così un destino che l’aveva vista protagonista quindici anni prima. Come l’io prende consapevolezza di sé attraverso la propria immagine riflessa allo specchio, tale evento scioccante le permette di comprendere meglio se stessa e la sua traumatica vita. E se è vero che l’identità dipende sempre dallo sguardo di qualcuno, l’immagine speculare della figlia le permette di prendere coscienza, nonché di suscitare nuove emozioni nel suo rapporto con lei.

Ci sono molti aspetti comuni tra le vicende delle due (ad esempio l’espulsione di entrambe dalle scuole che stavano frequentando), ma la madre (e lo spettatore) conosce solo una parte della verità. Con varie zoomate sul viso di Amina e l’uso sapiente del contrasto tra silenzio e rumori diegetici, Haroun scandaglia l’animo della donna. In una scena memorabile, dopo una corsa spasmodica alla ricerca della figlia, Amina si ferma ansimante: avvertiamo il suo respiro per alcuni secondi, con effetto ralenti, un’espressione sconsolata, poi il silenzio totale, finché la scena si sposta sul lungo e rumoroso ponte, con la telecamera che inquadra da lontano la figlia. 

7La svolta

Il punto di svolta del film scatta immediatamente dopo il climax d’incomprensione tra madre e figlia. La prima rivela cosa le è successo: l’abbandono della famiglia, del suo innamorato. La confessione ha il potere di riattivare quel legame sacro, il lingui cui fa riferimento il titolo del film, e che permette il prodursi di eventi futuri risolutivi.

Da questo momento in poi Amina riesce a fare a meno di tutte le inutili figure maschili che la circondano, incapaci di offrirle un po’ di sostegno. Avviene, sebbene in modo un po’ manicheo, quello che si può definire come una sorta di empowerment femminile, un processo che mira a modificare le relazioni di potere nei diversi contesti sociali, al fine di realizzare le aspirazioni delle due donne.

Mirabile è la scena in cui il potere catartico della danza sfida non solo l’immobilismo della religione, simboleggiato dalle litanie dell’aurora, ma innesca un percorso di guarigione da quella gabbia in cui l’avevano rinchiusa gli stereotipi sociali maschili. Il ritmo tambureggiante della musica parzialmente diegetica (solo nella mente della madre, ma non della figlia) riesce a coinvolgere anche lo spettatore meno ottimista. Il potere magico del lingui è senza limiti, ma è rigorosamente declinato al femminile. Come riuscirà a forgiare i destini di Amina e Maria?

Se il regista di questo lungometraggio fosse stato una donna, costei sarebbe stata facilmente tacciata di misandria. Haroun col già citato Abouna aveva mostrato la pusillanimità di un padre che abbandona la propria famiglia, sconvolgendo la vita della moglie e dei suoi due figli. La loro ricerca del padre si rivelerà senza esito.

In un altro lungometraggio, Un homme qui crie (2010), aveva messo in scena un genitore che sacrifica il figlio facendolo partire in guerra, per rancore nei suoi confronti. Quando i fantasmi della sua scellerata scelta lo scuoteranno fino a fargli riscoprire il valore dei legami di sangue, sarà troppo tardi.

Da Darrat saison seche

Da Daratt. Saison sèche

Nel già citato Daratt. Saison sèche, nel contesto della guerra civile che ha devastato il Ciad, l’orfano Atim va in città alla ricerca dell’assassino del padre. Lo trova, uomo rude ma buono, senza figli, con una moglie incinta che perde anche il bambino. L’ironia della sorte è che lui gli offre lavoro, gli si affeziona, e vuole adottarlo, non prima di aver chiesto il permesso…. al padre. Ovviamente non sa ancora di averlo ucciso lui stesso.

Haroun ha messo in scena tante volte fievoli “sintomi” di paternità, annullata, rifiutata o desiderata, ma mai ottenuta, alludendo metaforicamente all’assenza di una guida di un Paese martoriato. Con Lingui. Les liens sacrés insiste ancora sul tasto della famiglia senza padre ma con precettori bacchettoni, facendo emergere, per contrasto, il ruolo decisivo della maternità e delle donne, in generale

Ad avviso del regista la modernità si costruisce con l’istruzione, i valori di umanità, tolleranza, amore per la vita mondana, lontano dai rigidi dettami religiosi e da riti e tradizioni che ingabbiano corpi e menti. Come a dire: Ciad, si gira…pagina.

Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022

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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).

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