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Parole incollate con lo sputo

 

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

per l’italiano

di Nino Giaramidaro

Pedalo a fatica. Sulla lieve salita del corso Calatafimi verso Mezzomonreale mi manca il fiato: ad ogni respiro la candida mascherina mi chiude il naso come una molla di pince-nez e quasi si incolla sulla bocca. Subisco una moderata nemesi di quando nel pre Covid deridevo i giapponesi che imperversavano nel loro smog a piedi o pedalando alacri e mascherati su biciclette provate. E mi affiora un sorriso immaginando che le rispettabili “frue”, “holgy”, “froken” o “rouva” vanno in giro sotto il chache-nez europeo.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Ora mi sfrecciano a destra e a sinistra biciclette assistite, nobili di prezzo, con guidatori che fanno finta di pedalare, “motopattini” – sì, è giusto questo nome, come di quelli “in dialetto” con le ruote a palline e tutti di legno, auto fabbricazioni fra i ’50 e i ’60 del secolo passato. Muti, indifferenti, con uno sguardo smarrito oltre, sicuri del calcolo dei millimetri lasciati come distanza di sicurezza; e gli incredibili monoruota, anch’essi silenti, condotti da eleganti dotati di cuffiette, che brandiscono smartphone “dernier cri”.

Mi sento precipitato in un film di fantascienza un po’ attempato, di prima che i registi decidessero che automobili e altri mezzi di locomozione avveniristici dovessero volare. Ogni tanto rintrona il rombo delle marce basse “tirate” di una 800cc, 1.000, mille e due che ancora mi fanno vergognare della Vespa 125 e della Gilera 150 con carburatore doppio corpo. Insomma, inspiegabilmente il mio pensiero va alla scena di Indiana Jones che davanti ad un arabo che sfoggia un’incredibile abilità nel fare volteggiare la scimitarra, tira fuori la Colt e gli spara.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Arranco con un rapporto tre in rispetto dell’estetica stradale: per non fare la figura di coloro che pedalano in scioltezza e velocità e mi sembra rimangano sempre allo stesso punto. Gli indirizzo qualche colpo di campanello prima di sorpassarli. Apprezzo la raccomandazione che mia moglie non dimentica ogni volta che esco con la mia Olmo e la mascherina bianca: “Stai attento”.                                         

Ma sulla bici si cede volentieri al guardarsi intorno, all’accorgersi del prima e del dopo Covid, cambiamenti non tutti imposti dal virus: la moltitudine di negozi di sigarette elettroniche – narghilè rinsecchiti per maleficio – che hanno trasformato un gesto elegante, carico di storia e di melodia: “Come una sigaretta”, Luciano Virgili e Achille Togliani, “Fumo di una sigaretta”, Franco Battiato, “Sigarette”, Neffa – cosa sarebbe stato Jean Gabin senza la sigaretta?.                                                                             

Le gimkane dei rider, fattorini senza contratto che portano i cibi a casa di anziani e di coloro i quali non vogliono nemmeno andare a fare la spesa timorosi del contagio. Nel centro città (Palermo) la più parte di negozi di abbigliamento, mercerie, bottonifici, guantai ecc. ecc. trasformati in mangia e bevi sotto nomi incredibili e imperscrutabili. Fame coraggiosa, cittadinanze afflitte dal supplizio di Tantalo.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

E il caffè. Non si fa più con la fumante Bialetti “caricata” con abbondanti cucchiaini di miscela, ma con cialde e capsule – irrisorio caffè racchiuso nella plastica – infilate in una machina fornita in comodato d’uso, pubblicizzata da una miriade di “punti vendita”. La mia passeggiata in bici approda ai tavolini all’aperto di un bar per sorbire un caffè con lo zucchero di canna.                                              

Dovrei dire nella “bolla” del bar, anche se questa parola mi sovviene la bolla pontificia, quella di sapone, sinonimo di vescica, messa in bolla. L’arzigogolo del Covid si è appropriato come una civetteria del discorso che sempre più difficilmente diventa “transitivo”. C’è anche la “cabina di regia” che a me sembra più littoria di comitato ristretto il quale era stato sostituito da tavolo (“faremo un tavolo”, qualcosa di astratto nella sua astrattezza).  È diventata una specie di gara lessicale, anche con arditezze (a chi la spara più grossa) che sbigottiscono non solo la Crusca.   

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Il presidente Draghi ha dato una piccola frenata al fantalinguaggio: anziché dire “smart work” ha sennatamente preferito “lavoro agile”; un ostacolo minimo contro la conquista dell’imbecillitas mentis, ovvero l’inferiorità naturale verso la quale sembra condurci la rinunzia emorragica alle nostre parole, al nostro lessico con le sue significazioni intraducibili. Papa Francesco, argentino, parlando della Madonna di Fatima l’ha chiamata Nuestra Señora di Fatima perché è il suono di queste parole che sente dentro, mai avrebbe pensato a Our Lady of Fatima.                                                                             

Next opening rimane una pietra che non dà suoni, come recovery fund – che genera i recovery bond – mentre su tanti muri della Palermo storica c’è ancora la freccia azzurra con inscritto Ricovero, parola chiarissima ancora oggi e che contiene anche una valenza ospedaliera in contrasto con l’ottimismo – cartaceo – che vorrebbe fare intendere la locuzione europea.

Un mio professore di latino per definire la labilità delle risposte degli studenti usava dire che erano parole ‘ncuddati cu’ la sputazza.                                                     

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Attardiamoci sull’argomento. Spesso si leggono frasi tipo “yes, I do”: un non senso del fare che nell’albero genealogico di ognuno arriva al facio-facis-feci-factum-facere: più di venti secoli di riconoscimento difeso da “fra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, “quando mammeta t’ha fatta vuo’ sape’ comme facette”, “cosa fatta capo ha”. Ne La mossa del cavallo Camilleri colloca il ragioniere Giovanni Bovara in un pasticciaccio brutto che lo accusa dell’assassinio del laido padre Artemio Carnazza. Lo sfortunato e innocente riesce a salvarsi con la “mossa del cavallo”: smettendo cioè di pensare in italiano, che gli rendeva incomprensibili le accuse architettate in siciliano, e ricorrendo al dialetto per comprendere tutto e perfettamente.                                                                        

Altro che inglese, circonlocuzioni di dubbio italiano, sfarfallìo di acronimi e sigle care a tutti coloro che non riescono a rinunciare all’occulto. Per comprendere ciò che si deve della pandemia non aiuta il pnr e nemmeno pnrr – suoni alla De Filippo – che anche per esteso risultano ostici, ci vorrebbero parole mondate dalla fretta di raggiungere le locomotive di Marinetti. Perché, a quanto sembra, la velocità è diventata il fine del nostro arrabattarci, non più il mezzo che conduce al raggiungimento di uno scopo. Come dire un correre a perdifiato senza sapere dove si deve andare.

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Palermo (ph. Nino Giaramidaro)

Un esempio luminoso di questa nuova filosofia è sostenuto dalle televisioni: tutto vi diventa lampo, pubblicità che si accavallano l’una sopra l’altra senza dare il tempo di capire di cosa si parli, titoli e cast di film inafferrabili, notiziari sincopati e paperati senza rossore, istigazione allo zapping che fa cadere dalla padella nella brace. Così, lanciati verso l’incomprensibile, fustigati da «stupidi che dicono cose giuste per ragioni sbagliate» (Umberto Eco) e cervelloni che si compiacciono di fare il contrario, la via Maqueda appiedata si riempie come un uovo di gente che va e viene a tutte le ore, senza l’accortezza del metro e mezzo regolamentare e con le mascherine “a saltare”.  

Ma mimetizzati sotto questa inspiegata velocità, ci sono scopi più che spregevoli. A Montemurlo (Prato) Luana d’Orazio è morta – sostiene il perito della Procura della Repubblica – perché i due “orditoi” sarebbero stati manomessi per evitare interruzioni nel funzionamento e velocizzare la produzione. Nei cantieri edili operai e manovali muoiono perché non c’è tempo per badare alla sicurezza; muoiono tanti altri lavoratori stravolti dalla fatica, costretti a farsi letteralmente in quattro. Il Papa esorta a “rispettare il lavoro”, che sia “umano e dignitoso” e a non dimenticare emarginati e poveri. «Se i poveri sono messi ai margini, come se fossero i colpevoli della loro condizione, allora il concetto stesso di democrazia è messo in crisi e ogni politica sociale diventa fallimentare». Per dirla in tridentino: vox clamantis in deserto.

Dialoghi Mediterranei, n. 50, luglio 2021

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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.

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