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Paesi appenninici e aree marginali: un dibattito distante dalle comunità locali?

                                                                                                      

Pieve Torina Macerata, prima metà del 900

Pieve Torina Macerata, prima metà del 900

il centro in periferia

di Augusto Ciuffetti 

Sono ormai decenni che si assiste alla crescita e alla piena maturazione di un dibattito su aree interne da rigenerare [1], e su piccoli paesi invisibili posti in spazi marginali, alla ricerca di un possibile futuro [2], destinato inevitabilmente a sovrapporsi a quello sulla montagna appenninica ripetutamente colpita da disastri naturali (terremoti e alluvioni), le cui conseguenze sono amplificate dall’azione dell’uomo. A questi ultimi si sommano le crisi sociali generate dalla perdita continua di abitanti e da processi, in forte espansione, come l’invecchiamento della popolazione.

Tale dibattito, però, molto affollato, con studiosi di ogni genere, accademici, amministratori, giornalisti, politici e letterati, tutti pronti a fornire personali ricette salvifiche, oppure a riesumare mondi ormai scomparsi sull’onda di una malcelata nostalgia fine a sé stessa, appare sempre più astratto e con scarse ricadute pratiche, risultando, quindi, poco convincente. Il fatto che sia arricchito da letture affascinanti o da ipotesi capaci di amplificare tendenze ormai già in atto nella società e che sia spesso sorretto da suggestive visioni, non aiuta a renderlo più circostanziato e meno incline alle facili retoriche, alle mode e tendenze del momento. L’acquisizione di originali percorsi di riflessione, inoltre, che per apparire più solidi fanno ampio uso di inutili neologismi e che insistono su ritrovate identità dei territori, o sulla loro carica poetica [3], si configura ormai come un dato definitivo, che poco altro può ancora aggiungere.

Il prossimo anno ricorre il decennale del lancio di una politica allora giustamente considerata innovativa e di fondamentale importanza: la Strategia nazionale aree interne, promossa dall’Agenzia per la coesione territoriale. Oltre alla definizione delle aree pilota, delle azioni da intraprendere e di alcuni interventi specifici, nel suo insieme, a distanza di dieci anni, che per una politica di questo tipo, destinata a ribaltare nell’immediato le tendenze economiche presenti in territori periferici, sono un lasso di tempo rilevante, la SNAI non ha prodotto alcun cambiamento [4]. Sicuramente si è tracciato un percorso, viziato in negativo dalle solite prassi italiane che tendono a modificare, in sede locale, progetti e ipotesi sulla base di esigenze e interessi considerati vitali per le comunità, ma in realtà distanti da queste ultime.

In questo percorso, ma secondo delle logiche molto discutibili, che difficilmente possono condurre a interventi validi e significativi, si inseriscono ora i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le sue direttive, infatti, sono rivolte ad incentivare singole progettazioni, singoli luoghi, senza tener conto della dimensione territoriale nel suo complesso. La lunga storia della pianificazione economica, presente in molte stagioni dell’Italia repubblicana, insegna un dato molto semplice e per certi aspetti banale: l’efficacia di un intervento si deve sempre alla sua capacità di rivolgersi ad ampi contesti territoriali, colti nel loro insieme e nella loro complessità. Viceversa, ogni ricaduta positiva rischia di essere vanificata proprio nel momento in cui si decide di procedere, come sembrano indicare le linee adottate per il PNRR, in un’artificiosa ed inutile separazione tra il villaggio oggetto di finanziamento e il suo contesto geografico di riferimento [5].

9788842828341_0_536_0_75Per consentire a tale dibattito di essere più diretto, meno teorico e maggiormente sentito dalle comunità locali sarebbe opportuno orientarlo verso quattro aspetti o approcci, in parte già presenti, ma ancora poco considerati, che si possono definire nel modo seguente, invertendo radicalmente ogni prospettiva di lettura ed analisi: dall’attualità alla centralità della storia, come strumento per costruire il futuro, insieme alla dimensione della memoria; dai progetti generali verso le particolari e reali esigenze di ogni singola comunità; da una politica nazionale “standardizzata” ad una riconsiderazione degli assetti amministrativi locali, in grado di operare nuove “ricuciture” territoriali e di consentire nuovi dialoghi tra spazi lontani e diversi; da una visione troppo incentrata su un presente molto ingombrante e già rapidamente superato verso l’acquisizione di una salda consapevolezza rispetto ad un futuro che impone un immediato cambiamento del paradigma economico. Quest’ultimo aspetto è fondamentale.

Le aree interne, in particolare quelle montane, in riferimento ai prossimi anni sono fin da ora chiamate a svolgere un ruolo centrale sul fronte dell’ambiente, del cambiamento climatico e della riconversione energetica, anche in considerazione della contemporanea crisi di quei modelli urbani e industriali che hanno sorretto la crescita economica dell’Italia dal suo “miracolo” in poi e che hanno contribuito alla definizione degli spazi appenninici come luoghi della marginalità. Nello stesso tempo, però, tali crisi impongono un totale ripensamento e superamento dell’attuale sistema economico, espressione dell’età dell’antropocene, legato ad un capitalismo che consuma ben oltre ogni limite di sostenibilità e genera rifiuti che contemplano anche esseri umani [6]. È all’interno di tale quadro che va collocato l’attuale dibattito su aree interne e paesi appenninici, in modo che possa avere ancora una sua valenza, senza rimanere un semplice esercizio intellettuale.

La centralità della storia, indispensabile per individuare forti identità (in chiave positiva) e caratteristiche di “lungo periodo” di un determinato territorio, funzionale alla definizione di coerenti progetti di sviluppo, può apparire un dato scontato, ma non sempre è così. I progetti realizzati in modo generalizzato, senza tener conto delle peculiarità territoriali, colte nelle loro diverse stratificazioni storiche, non producono mai alcun risultato. Nella maggior parte degli interventi elaborati fino ad oggi l’analisi storica è quasi sempre relegata ad un ruolo subalterno o semplicemente introduttivo. Nonostante si richiami la necessità di procedere con delle attente ricostruzioni storiche degli spazi economici e sociali, queste ultime sono sempre superate, disattese o totalmente dimenticate nelle successive fasi dei percorsi progettuali [7]. La decontestualizzazione storica di questi ultimi, che molto spesso diventa anche geografica, costituisce un grave errore di prospettiva, che non può che condurre al fallimento di ogni intervento concepito o condotto in questo modo: non serve a nulla riproporre modelli già codificati e basati su una generica idea di sviluppo poco rispettosa delle caratteristiche di un territorio, sia sul piano ambientale e paesaggistico, sia in riferimento a usi, costumi, modalità e forme di regolamentazione e accesso alle risorse, che derivano sempre da complessi processi dal respiro plurisecolare. La centralità dell’Appennino nel basso medioevo e nell’età moderna, i suoi caratteri originali (pluriattività, mobilità, gestione collettiva delle risorse naturali attraverso comunanze e università agrarie) e il suo profilo come spazio da sempre alternativo ai modelli economici e sociali dominanti, dovrebbero costituire, invece, le basi di ogni progetto [8].

5732-barbetti-cop-promoAlla centralità della storia in una dimensione pubblica o collettiva bisognerebbe poi aggiungere anche una visione giocata sulle esperienze delle singole persone, di quei vecchi e nuovi montanari che decidono di prendere le aree appenniniche come punto di riferimento esistenziale e che attingono al passato attraverso la chiave, certamente non priva di ambiguità, ma nello stesso tempo insostituibile, della memoria. Ognuno, rispetto alle incertezze del futuro, dovrebbe trovare «un modo nuovo di essere antico» [9]. Lungo il delicato filo rosso che unisce questi due livelli di storia, si collocano poi quelle narrazioni di luoghi e vicende che scaturiscono direttamente dalla frequentazione dell’Appennino, sia come spazio della quotidianità, sia come spazio da attraversare “lentamente” a piedi lungo sentieri e mulattiere [10].

Per ragionare sui progetti che nascono “lontano” dalle aree interne e che sono calati dall’alto senza tener conto della storia e delle esigenze di ogni singolo territorio è necessario partire dall’uso disinvolto del termine borgo. È da una lettura del tutto esterna alla realtà dell’Appennino, funzionale solo ed esclusivamente alle esigenze omologanti delle città e delle loro culture, che deriva l’uso di questo termine, privato di ogni riferimento storico e calato dentro una contemporaneità che rende tutto conforme, in sostituzione di paese, più tradizionale e maggiormente aderente alla storia rurale italiana. È quanto accade, del resto, anche con l’espressione area interna, utilizzata per identificare degli spazi in passato connotati in vario modo: marginali, arretrati, periferici, montani. L’esistenza di zone disagiate o fragili [11], a seconda della lettura che di queste aree si vuole dare, non costituisce una novità giunta a maturazione solo negli ultimi decenni. Si tratta, ancora una volta, di una realtà che ha una sua precisa dimensione o matrice storica, soggetta a trasformarsi nel tempo e di cui sarebbe opportuno tener conto [12].

L’uso del termine ‘borgo’ risponde a logiche urbanocentriche, le quali guardano alla montagna e alle aree interne appenniniche in nome di un utilitarismo che vuole semplicemente strumentalizzare questi spazi come ancore di salvezza, valvole di sfogo per città ormai invivibili. In questa chiave, il bel borgo ristrutturato rischia di diventare un possibile riferimento solo per un’élite sempre più ristretta, invece di rappresentare una valida risposta alle esigenze concrete di un’intera società. La progettualità rivolta ai paesi della dorsale appenninica non può che scaturire, dunque, dai paesi stessi, mediante un processo di partecipazione diretta da parte di tutti gli abitanti. Tale prospettiva implica il definitivo superamento di una condizione di subalternità o di inferiorità fatta propria da chi vive nelle aree marginali, per effetto di modelli esistenziali forti e totalizzanti imposti dagli stili di vita delle grandi città. In definitiva, si tratta di superare il fenomeno dello spaesamento, alimentato sia dai processi migratori, sia dalla difficile resistenza di coloro che decidono di rimanere [13]. Si tratta di invertire lo sguardo, ripartendo in chiave critica proprio dagli spazi marginalizzati, come giustamente si sostiene nel Manifesto per riabitare l’Italia [14].

Rispetto ai grandi disegni, ai paesi servono dei progetti più adeguati e maggiormente calati nelle loro realtà, come espressione dalle stesse comunità e dalle loro articolazioni interne. È soltanto in questo modo che si può definire un insieme di interventi capace, non solo di resistere nel tempo e di offrire concrete opportunità, ma anche di salvaguardare l’ambiente. Come giustamente si sottolinea in riferimento ad una realtà dell’Irpinia, ma con un valore più generale, 

«[…] per fermare lo spopolamento e risollevare le sorti dei borghi del margine è necessaria un’azione chirurgica, minuziosa, diffusa che crei un’inversione dello sguardo, culturale ancor prima che di sviluppo» [15]. 

120211465-7a04c619-4756-4f44-81e8-66ea1c7f43a3Ciò che si richiede è un’azione molecolare, pensata per ogni luogo, ma che abbia sempre come riferimento costante le questioni che investono tutti i centri abitati delle aree interne, dalle politiche per la casa ai servizi di ogni tipo, dalla creazione di spazi pubblici e infrastrutture alla definizione di nuove attività produttive, in una visione che dalla società nel suo complesso abbia poi la capacità di raggiungere ogni singola persona.

In tal senso, il contributo delle comunità locali è fondamentale, ma solo se a queste ultime viene concessa la possibilità di elaborare dei progetti originali, tali da configurarsi come dei veri e propri laboratori dal carattere innovativo. Negli ultimi anni, numerosi sono i progetti, soprattutto grazie a gruppi di giovani fortemente motivati a rimanere nei loro paesi, o che hanno deciso di ritornare a vivere nelle aree interne, che sono maturati in Italia. Non si tratta della semplice riscoperta di attività agricole o silvopastorali in una chiave più moderna, ma anche di nuove forme di turismo e di percorsi imprenditoriali, magari caratterizzati dalla valorizzazione di antichi mestieri, destinati a ritagliarsi degli spazi significativi nelle dinamiche economiche globali.

In definitiva, sono queste molteplici esperienze, molto diffuse lungo la dorsale appenninica e quasi sempre elaborate in una dimensione collettiva (cooperative di comunità, attività connesse ai beni comuni, imprese sociali, comunità energetiche, imprese legate alla dimensione del paese con la partecipazione attiva degli abitanti) [16], ad indicare possibili percorsi futuri, e a rendere evidente ogni differenza tra borgo (l’idea di villaggio come merce in un quadro di relazioni che rispondono solo alle esigenze dei territori “forti” della penisola italiana) e paese (il villaggio come sede di relazioni sociali, che progetta e sperimenta per la sua sopravvivenza, attingendo alla sua storia e alle sue tradizioni, impegnato a difendere i suoi equilibri ambientali e ad opporsi a qualsiasi forma di sfruttamento): 

«[…] la pervasività borgo-centrica, la borgomania, separa invece di unire, spezza il rapporto vitale tra l’insediamento e il suo intorno, persegue la polarizzazione contro il policentrismo, congela la lunga e contrastata storia dell’insediamento umano nel nostro paese, in favore di una fissità senza tempo che è il contrario della storia e annulla la geografia dei luoghi, come se i borghi potessero esistere senza le relazioni con le aree che li circondano» [17]. 

9788855223386_0_536_0_75Ben oltre la retorica utilizzata negli ultimi anni per descrivere i paesi delle aree interne, questi ultimi restano dei luoghi difficili da vivere, dai quali si parte e si ritorna, accettando un’esistenza fatta di continui adattamenti rispetto a tutto ciò che manca [18]. Il loro orizzonte è quello dei paesaggi dell’abbandono o scartati, perché non in linea con le dinamiche di mercato o di produzioni industriali ed agricole fortemente massificate [19]. Progettare in questi luoghi partendo dal “basso” vuol dire, in definitiva, superare le disuguaglianze sociali e territoriali, mettendo al centro di ogni intervento il lavoro. Se lo schema che si propone è quello di un netto rifiuto di ogni logica omologante, insita nelle idee e nelle procedure pensate in un altrove diverso dalle aree interne, a favore di piccoli processi di trasformazione gestiti localmente, allora ciò che le istituzioni politiche ed accademiche sono chiamate a fare è di facilitare e guidare tali processi, rendendo fattibile la loro realizzazione in tempi relativamente brevi. Molto spesso, infatti, i paesi dell’Appennino non hanno le competenze e gli strumenti necessari per accedere alle fonti di finanziamento. Alle istituzioni politiche non si chiedono progetti, bensì validi strumenti operativi, per fare in modo che venga superata ed annullata ogni forma di residualità.

Un significativo sostegno in tal senso può arrivare anche da una “rivisitazione” delle circoscrizioni amministrative, in modo da rendere più omogeneo, almeno da questo punto di vista, lo spazio montano interno. Un’ipotesi certamente difficile da attuare, ma l’unica in grado di assicurare provvedimenti più mirati ed efficaci e regimi fiscali più adatti per gestire la complessità e la fragilità di questi territori. La destrutturazione dell’apparato amministrativo periferico, con il superamento di comunità montane e province, di certo non ha favorito la coesione territoriale, a vantaggio delle aree metropolitane e dei loro problemi. Si tratta di una questione che potrebbe trovare un’adeguata collocazione all’interno dell’attuale dibattito politico sulle autonomie, da sempre condizionato dal solito dualismo nord-sud.

In altre parole, c’è bisogno di nuove e radicali politiche pubbliche, ma ciò, inevitabilmente, mette in gioco una classe dirigente italiana schiacciata sul presente e non sempre all’altezza delle situazioni, sia da un punto di vista morale, sia in termini di competenze, sia a livello centrale, sia in sede periferica. In questa fase storica, inoltre, la debolezza delle aree interne emerge anche rispetto ai costi da sostenere per la transizione energetica. Il tema è particolarmente complesso e si somma ai percorsi concessi in passato alle zone più densamente abitate della penisola italiana per accedere proprio alle risorse della montagna: acque, boschi e ambiente in generale.

nuovi-sentieri-di-sviluppoPer essere più forti e quindi più aperti ed accoglienti, i paesi dell’Appennino hanno bisogno di recuperare peculiarità e identità [20], ma nello stesso tempo anche di ricucire relazioni con altri territori. Si tratta di una prospettiva che deriva anch’essa dalla storia plurisecolare della dorsale appenninica. Se dal medioevo in poi, le montagne stabiliscono saldi legami con pianure più o meno distanti grazie ai pastori transumanti, ai lavoratori che emigrano stagionalmente e ai venditori ambulanti, integrando economie differenti e spazi profondamente diversi sotto il profilo geografico, oggi queste relazioni si possono di nuovo stabilire con le città costiere e le vicine zone collinari. Si tratta di tornare a tessere, senza prevaricazioni, una fitta rete di trame e interdipendenze, che tra mondo rurale ed ambito cittadino esistono fin dal basso medioevo.

La prospettiva non può che essere quella della costruzione di una nuova alleanza tra montagna e pianura, tra entroterra e costa, funzionale alla definizione di equilibri economici, demografici e sociali indispensabili a tutti [21]. Un’alleanza di questo genere, da sempre presente nelle articolazioni geografiche della penisola italiana, è venuta meno durante gli anni del “miracolo economico”, il quale ha spezzato ogni possibile rapporto isolando le aree interne, trasformate in spazi arretrati e marginali destinati a fornire manodopera attraverso continui processi migratori. Alcune ipotesi di ricucitura avanzate recentemente transitano da espressioni, come metromontagna, che in realtà identificano qualcosa di molto antico [22].

Pievebovigliana Macerata. festa nella piazza del mercato, anni venti del 900

Pievebovigliana Macerata. festa nella piazza del mercato, anni venti del 900

Accanto alla necessità di collocare il dibattito su aree interne e paesi dell’Appennino nell’ambito di quello ben più ampio ed importante delle questioni ambientali, sulle quali si gioca il futuro dell’intero pianeta, un altro tema fondamentale per questi luoghi è quello dell’accoglienza (si tratta di un altro aspetto che ha profonde radici storiche): non può esserci futuro per l’Appennino senza una salda e convinta accoglienza, non solo in riferimento a chi fugge da fame, guerre e discriminazioni di ogni tipo ed approda in Italia, ma anche rispetto alle nuove forme di povertà che si stanno delineando nel nostro Paese. Le più recenti indagini sulla povertà e sull’esclusione sociale pubblicate in Italia indicano non solo un forte aumento di quest’ultima in termini assoluti, ma anche una sua maggiore incidenza all’interno delle città più grandi e sovraffollate [23].

In questa prospettiva, dunque, i paesi spopolati delle aree interne possono arrivare a svolgere un ruolo decisivo anche come spazi di accoglienza, pur considerando tutte le forme di disuguaglianza ancora presenti. Dotando i centri montani e le aree interne dei servizi di cui necessitano (sanità, istruzione, collegamenti con l’esterno, reti informatiche), essi potranno recuperare un’inedita ed originale centralità anche nei confronti della “cura” di ogni povertà. È soltanto mettendo al centro di ogni intervento le persone e le comunità, insieme al tema ineludibile del lavoro, che l’Appennino potrà cancellare una lunga stagione di voluta marginalità, tornando a rappresentare un saldo e sano punto di riferimento per un’intera società in cerca di un profondo rinnovamento. Ciò si potrà realizzare solo partendo da una consapevolezza dal sapore irrinunciabile: non esistono spinte verso il futuro senza riferimenti ad un passato più o meno recente [24], articolati intorno a delle memorie individuali e collettive recuperate, ricostruite e protette. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Note
[1] Si veda Aree interne. Per una rinascita dei territori rurali e montani, a cura di Marco Marchetti, Stefano Panunzi e Rossano Pazzagli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017.
[2] Anna Rizzo, I paesi invisibili. Manifesto sentimentale e politico per salvare i borghi d’Italia, il Saggiatore, Milano 2022.
[3] Franco Arminio, Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizio di paesologia, Laterza, Bari-Roma 2008; Id., Geografia commossa dell’Italia interna, Bruno Mondadori, Milano 2013.
[4] Sabrina Lucatelli e Filippo Tantillo, La strategia nazionale per le aree interne, in Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni riconquiste, a cura di Antonio De Rossi, Donzelli, Roma 2020: 403-416; L’Italia lontana. Una politica per le aree interne, a cura di Sabrina Lucatelli, Daniela Luisi e Filippo Tantillo, Donzelli, Roma 2022.
[5] Senza entrare, in questa sede, nel merito delle ampie criticità presenti nei processi di selezione dei ventuno borghi destinatari di progetti e finanziamenti, si veda Carmela Chiapperini, Emanuela Montenegro e Gianfranco Viesti, Ventuno fortunati borghi, in Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, a cura di Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, Donzelli, Roma 2022: 161-168.
[6] Marco Armiero, L’era degli scarti. Cronache dal wasteocene, la discarica globale, Einaudi, Torino 2021.
[7] Un esempio: nel progetto Nuovi sentieri di sviluppo per l’Appennino marchigiano dopo il sisma, definito dalle università di Urbino, Camerino, Macerata e Ancona (Università Politecnica delle Marche), in accordo con il Consiglio regionale delle Marche, e nel Patto per lo sviluppo e il sostegno alle aree colpite dal sisma, che si collocano nel percorso metodologico della SNAI, i brevissimi e schematici richiami storici non sembrano avere alcun collegamento con i percorsi di ricostruzione e di rilancio economico previsti. Si veda Nuovi sentieri di sviluppo per l’Appennino marchigiano dopo il sisma del 2016, a cura di Ilenia Pierantoni, Daniele Salvi e Massimo Sargolini, Consiglio regionale delle Marche, Ancona 2019. Si veda anche Massimo Sargolini e Ilenia Pierantoni, Per una rinascita delle aree interne dell’Appennino centrale. Il caso studio dell’area del “Nuovo Maceratese”, in «Glocale», n. 13, 2017: 39-58.
[8] Mi permetto di rimandare ad Augusto Ciuffetti, Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea, Carocci, Roma 2019.
[9] Il riferimento è al libro di Marco Scolastici, Una yurta sull’Appennino. Storia di un ritorno e di una resistenza, Einaudi, Torino 2018.
[10] Oltre a Paolo Piacentini, Appennino atto d’amore. La montagna a cui tutti apparteniamo, Terre di mezzo, Milano 2018, si veda Alessandro Vanoli, Pietre d’Appennino. A piedi sulle strade che raccontano la Storia, Ponte alle Grazie, Milano 2021, ed Enrico Barbetti, Storie e sentieri dell’Appennino, Clueb, Bologna 2022.
[11] Antonella Tarpino, Il paesaggio fragile. L’Italia vista dai margini, Einaudi, Torino 2016.
[12] Si veda Roberta Biasillo, Dalla montagna alle aree interne. La marginalizzazione territoriale nella storia d’Italia, in «Storia e futuro», n. 47, 2018, in http://www.storiaefuturo.eu/dalla-montagna-alle-aree-interne-la-marginalizzazione-territoriale-nella-storia-ditalia.
[13] Oltre al saggio di Antonella Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012, si rimanda alla vasta produzione di Vito Teti, in particolare ai seguenti testi: Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati, Donzelli, Roma 2004; Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni, Donzelli, Roma 2017; La restanza, Einaudi, Torino 2022.
[14] Manifesto per riabitare l’Italia, a cura di Domenico Cersosimo e Carmine Donzelli, Donzelli, Roma 2020: 3-10.
[15] Stefano Ventura, Teora, Irpinia. Un progetto per ripopolare l’Appennino, in Aree interne e comunità. Cronache dal cuore dell’Italia, a cura del Collettivo Print, Pacini editore, Pisa 2022: 71.
[16] Il volume citato nella precedente nota si configura come una sorta di catalogo delle esperienze di questo genere che stanno interessando le aree fragili o interne della penisola italiana.
[17] Filippo Barbera, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, Il paese dei borghi. Introduzione, in Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi, cit.: X.
[18] Vito Teti, Paese, in Manifesto per riabitare l’Italia, cit.: 171-176.
[19] Si vedano i due saggi di Fausto Carmelo Nigrelli, Il paesaggio scartato. Una risorsa formidabile per le città in affanno e le aree interne, e di Rossano Pazzagli, Paesaggi dell’osso. Le aree interne italiane tra abbandono e rinascita, in Paesaggi scartati. Risorse e modelli per i territori fragili, a cura di Fausto Carmelo Nigrelli, Manifestolibri, Roma 2020: 31-60 e 61-79.
[20] Il riferimento è anche alle identità di più facile lettura, in grado di rievocare il passato, come quelle legate al cibo. Si veda al riguardo, il volume della Fondazione Appennino, Buon Appennino. La cultura del cibo nell’Italia interna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022. In chiave storica, invece, sull’uso del cibo in relazione al rapporto tra società moderna, consumismo ed aree interne, mi permetto di rimandare ad Augusto Ciuffetti, Cibo, mestieri e spazi sociali nell’Appennino centrale, in «Marca/Marche. Rivista di storia regionale», n. 18, 2022: 145-160.
[21] Su questa prospettiva stanno lavorando, nelle Marche, ormai da molti anni, gli studiosi coordinati da Paolo Coppari e Marco Moroni che fanno riferimento ai Cantieri mobili di storia. Si tratta di un’iniziativa nata in seno all’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea di Macerata, per sostenere i territori colpiti dal terremoto del 2016.
[22] Metromontagna. Il progetto per riabitare l’Italia, a cura di Filippo Barbera e Antonio De Rossi, Donzelli, Roma 2021.
[23] Si veda l’ultimo rapporto della Caritas Italiana, L’anello debole. Rapporto 2022 su povertà e esclusione sociale in Italia, a cura di Federica De Lauso e Walter Nanni, Edizioni Palumbi, Teramo 2022.
[24] Volutamente si parla di spinte verso il futuro, invece di usare espressioni come crescita o sviluppo economico. 

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Augusto Ciuffetti, professore associato di Storia economica presso la Facoltà di Economia “Giorgio Fuà” dell’Università Politecnica delle Marche, ed insegna Storia dell’Adriatico e del Mediterraneo nell’Università degli studi di Macerata. È presidente dell’associazione RESpro-Rete di storici per i paesaggi della produzione ed è tra i fondatori dei Cantieri Mobili di Storia, un gruppo di studiosi attivamente impegnato a sostenere i territori colpiti dal terremoto del 2016. Tra le sue monografie più recenti si segnalano le seguenti: Un banchiere innovatore. Ritratto di Luigi Bacci nella società marchigiana della seconda metà del Novecento, il Mulino, Bologna 2020 (con Marco Torcoletti); Appennino. Economie, culture e spazi sociali dal medioevo all’età contemporanea, Carocci, Roma 2019; La consorteria della possidenza. I notabili umbri tra Ottocento e Novecento, Il Formichiere, Foligno 2017; Il fattore umano dell’impresa. L’Azienda Elettrica Municipale di Milano e il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra, Marsilio, Venezia 2017; La concordia fra i cittadini. La Società Unione e Mutuo Soccorso di San Marino tra Otto e Novecento, Centro sammarinese di studi storici, Repubblica di San Marino 2014; Carta e stracci. Protoindustria e mercati nello Stato pontificio tra Sette e Ottocento, il Mulino, Bologna 2013.

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