Stampa Articolo

2023: nel buio, delle luci

Presepio di Maria Lai (ph. Sergie Domingie, Courtesy ©Archivio Maria Lai by Siae 2022) )

Presepio di Maria Lai (ph. Sergie Domingie, Courtesy ©Archivio Maria Lai by Siae 2022) )

il centro in periferia

di Pietro Clemente

Buona fine e miglior principio

Questo numero di Dialoghi Mediterranei, redatto come ultimo del 2022, è anche il numero uno del 2023: chiude un anno e ne apre un altro. È un ponte, una soglia, un confine traversato. Contiene il Natale e il fine anno che si trasforma in Capodanno. Tutti grandi temi della ritualità, della vita collettiva da secoli.

Non ho mai avuto grande simpatia per il Natale. Da laico e non credente non lo festeggiavo. Da bambino il Natale significava la presenza a casa di mio padre, presenza rara durante tutto l’anno. Lui preparava il presepio con il muschio, usava la carta argentata per il ruscello. Gesù bambino arrivava la notte del 24 dicembre e i Magi comparivano la notte del 5 gennaio. Poi con le figlie e i nipoti abbiamo vissuto tutti i cambiamenti: abbiamo fatto l’albero, il primo nipote si chiedeva dove Babbo Natale parcheggiasse la sua slitta, e poi via via la scoperta da parte prima delle figlie e poi dei nipoti del mistero di Babbo Natale e dei suoi doni.

babbo-natale-giustiziato-7139811-2Progressivamente sono passato dalla indifferenza rituale per le feste di questa fase dell’anno al rileggerle in una chiave diversa. Familiare soprattutto, ma legata al mondo degli antenati, come è nella prima fase del lungo ciclo invernale che si apre con la commemorazione dei defunti e arriva fino alla fine del Carnevale. Pieno di possibili doni, di questue, di fuochi accesi nella notte, in passato come ora. Dopo la lettura del Babbo Natale giustiziato  [1] di Claude Lèvi Strauss, il Natale mi sembra una sorta di alleanza tra gli antichi e i nuovi esseri umani. E anche tra i morti e i nuovi nati. Come dice l’antropologo francese: tra i non più iniziati (decaduti socialmente o per morte o per età) e gli ancora non iniziati. Molte volte durante la pandemia ma ancora oggi questa espressione di ‘non più membri’ della società mi torna in mente perché sento che la mia classe d’età è considerata decaduta da governanti vecchi e nuovi.

Vivere il Natale come festa comune è il vero rito sociale, cui nemmeno il laico si sottrae, il senso sacro di queste scadenze sta nel tempo della vita, nel racconto, nella memoria. Nella presenza degli antenati. Portatori di doni e riconosciuti come fondatori di storie. La dimensione dei piccoli paesi è congeniale a questa visione ‘elementarmente umana’ della nascita e della fine. Buona fine e miglior principio. Questi riti mostrano l’essenziale: sono ben lontani dalla ripetizione primitivistica dei ‘riti agrari precristiani che affondano le radici nella notte dei tempi’ (Frazer). Per ricordare il Natale dei piccoli paesi ho scelto due testi poetici di due uomini nati alla fine dell’Ottocento perché ne mostrano il nucleo più forte e significativo [2].

Presepie
Tant’anne, nu minute.
Fore, la vita ‘n suonne.
Le case arrampicate
Strette a lu campanile
Ze ne so sciute
Da na curnice de presepie antiche
A lu rechiame de la campanella;
chill’ulme loche a balle
le pupazzi elle a riga.
‘N copp’a la neve
Pedate a fila a fila.
Passa la maiellese e le scancella [3].
***
Certo, ci vuole proprio un villaggio
perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta.
In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato,
e neppure il gri­do atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza.
In città è persino tempo perso andar cer­cando una cucina
nel cui cuore ne­ro sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo.
E infine, con tante luci che vi oscurano le stelle,
è troppo pretendere attecchisca la speranza che, alla punta di mezzanotte,
i cie­li si spalancheranno e dallo squar­cio s’affaccerà una grotta azzur­ra [4]. 

presepio-lai-libroQuando Maria Lai nel suo libro di disegni e di pensieri sul Natale [5] mostra i tratti profondi e comuni di quella nascita e la legge laicamente come parte del sacro della vita, mi tornano alla mente alcuni passi di quella Glossa sulla Resistenza che ormai più di trenta anni fa mi aiutò a capire [6] i nessi tra il potere e gli individui, i nodi non rinunciabili per la dignità della vita umana, la possibilità dell’evento, le ferite nella sensibilità. Un piccolo vocabolario che mi è rimasto sottopelle, come un tatuaggio [7]. 

Fuochi nella notte 

Affidare speranze per il futuro al linguaggio antico delle feste del ciclo dell’anno può darci qualcosa di nuovo e una idea del possibile. Nel ciclo delle feste invernali i fuochi erano e sono un linguaggio importante, sono grandi pratiche rituali e sociali e al tempo stesso sono grandi metafore. Mi piace citare a questo proposito l’espressione di Mahler ripresa da un amico dell’ANPI Toscana: «La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri». Forse dobbiamo dare risalto al fuoco reale e metaforico, dentro di noi e nel rapporto con la vita (Il cristallo e la fiamma fu anche un tema dell’epistemologia letteraria di Italo Calvino nelle Lezioni Americane [8]). Forse c’è un nesso tra la nozione di ’infanzia dell’evento’ [9] e il fuoco, i fuochi da accendere. Si possono trovare i fuochi in Val Pellice nella notte del 16 febbraio per celebrare la concessione della libertà di culto alla Chiesa valdese. I fuochi della ’focarazza’ nella notte del 23 novembre a Santa Caterina di Roccalbegna, le ‘fiaccule’ del Monte Amiata a Natale, i fuochi del 16 gennaio per Sant’Antonio, le ‘fracchie’ e le ‘farchie’ che hanno spesso un valore e una memoria di libertà nella storia del luogo. Occorre trovare un nuovo senso all’evento di accendere un fuoco. O rinnovare quello già in uso.

Ho trovato in una intervista a Zero Calcare su Robinson (10.12.22: 6-9) una traccia in questo senso. Il dialogo tra Luca Valtorta e Zero Calcare trova intorno alla fiamma un nodo che ha a che fare con la libertà, con la liberazione. Zero Calcare descrive l’organizzazione dello spazio della sua mostra a Milano [10] come un camminare in una situazione post-apocalittica in cui i sopravvissuti alle distruzioni cercano di ritrovarsi a distanza

«Zero Calcare: uno dei modi di farlo è accendere dei fuochi che permettono di vedersi da una parte all’altra e parlarsi. Sono i vari fuochi delle resistenze che possono essere politiche, umane e così via. Quelle che nonostante il disastro animano questo paese
Luca Valtorta: Joe Strummer dei Clash nell’ultima parte della sua vita organizzava proprio dei falò attorno a cui la gente si incontrava suonando
Zero Calcare: I riferimenti sono tre: il primo è proprio Joe Strummer con i falò, il secondo La strada di Cormac McCarthy, con padre e figlio che portano il fuoco e devono fare in modo che non si spenga e poi Il signore degli Anelli quando da una montagna all’altra tutti gli avamposti accendono le loro fiaccole e si vedono nonostante siano molto distanti».

Fuochi reali intesi come eventi, fuochi metaforici intesi come eventi della nostra sensibilità collettiva, fuochi dentro di noi e fuochi fuori di noi, buoni per ritrovarci insieme e fare luce. Fuochi contro la guerra, contro l’incombere della morte, contro tutte quelle morti che fanno dei nostri cuori dei giganteschi cimiteri [11]. E quindi da scoprire, da seguire, da rilanciare. In un anno nuovo nel quale buttare dalla finestra incertezze, paure, rassegnazioni, disperazioni, droni e polizia religiosa iraniani, per trovare inventandola in casa e con i materiali del bricolage pratico e immaginativo domestico qualcosa che dia l’avvio a un possibile fuoco che ci raccolga intorno insieme come quelli di Joe Strummer, e che abbia anche l’effetto delle tende ricovero che vanno moltiplicandosi in Ucraina per cercare legna per accendere il fuoco della resistenza fisica e di quella morale [12]. 

Falò di Sant'Antonio nel Museo del costume di Nuoro (nuoronews.it)

Falò di Sant’Antonio nel Museo del costume di Nuoro (nuoronews.it)

Il centro in periferia  

I paesi sono i luoghi giusti dove accendere fuochi reali e metaforici, luoghi dove i fuochi vengono accesi o tornano ad essere accesi sempre più spesso, anche se – diversamente dal passato – con l’autorizzazione e la presenza dei pompieri. Dal 2008 il Museo del Costume di Nuoro, con l’aiuto dei pompieri, introdusse l’uso di fare il falò di Sant’Antonio e il rito di questua nel cortile del Museo. Anche il nostro Centro in Periferia (CIP) è a suo modo una piccola fiamma o forse una scintilla per ‘invertire lo sguardo’, ri-orientare lo sviluppo verso i luoghi e riabitare le zone interne. In questo numero 59 ne ritroviamo le ragioni più profonde in una serie di testi ‘basilari’ per comprendere i grandi temi dell’Italia periferica.

In effetti, quasi per caso, i dieci testi che abbiamo raccolto si sono disposti a indicare i temi e le forme che più caratterizzano dall’inizio il progetto di questa rubrica. Ci sono tre saggi metodologici che lavorano criticamente su concetti cardine, norme, leggi, linguaggi (Ciuffetti, Lupatelli, Teneggi). due testi di dibattito e riflessione legati a specifici luoghi (Meloni, Tarpino), due etnografie locali che mettono alla prova strumenti e questioni (Tucci, Rossi), un testo sul PNRR nel paese di Cavriglia in Toscana (Bertoncini) che descrive storia, patrimonio, scenario del luogo, e inoltre due contributi di aggiornamento della rubrica legati alla continuazione di resoconti in atto, anche essi problematici e ricchi di suggestioni. È come se spontaneamente mi avessero dettato la struttura più efficace del CIP. Ne sono soddisfatto, anche perché come ho già precedentemente segnalato, avevo l’impressione che questo progetto di informazione, dialogo e riflessione si fosse un po’ impoverito negli ultimi numeri.  

logo-green-communities-c-uCuor d’Appennini  

I primi tre scritti hanno un altro comune denominatore: l’Appennino come ‘cuore’ delle aree interne, dell’Italia montana. Di quella Italia che ha dimenticato di essere un paese di montagna. La storia del territorio è un nodo presentato più radicalmente che altrove, perché le vocazioni e le potenzialità dei territori stessi vanno misurate non solo e non tanto con i mondi contadini che li hanno abbandonati ma con i mondi precedenti che ne hanno definito la storia e la civiltà. Si dà risposta così anche al senso comune che vede nel passato preindustriale solo povertà e chiusura sociale, secondo una costruzione del moderno che denigra le fasi precedenti per autodefinirsi come nuova e migliore.

A guardare nei tempi lunghi, nella storia particolare, nelle storie plurali, si aggiungono nuovi orizzonti di possibilità alla memoria e all’esperienza. Voglio segnalare lo scritto di Ciuffetti che tratta il tema dell’accoglienza. Non quella del turismo nelle varie forme, che pure è importante e domina il dibattito, ma quella dei nuovi migranti del mondo, che sono la risorsa principale per contrastare uno spopolamento che è anche denatalità radicale. Un tema questo ancora ostico nelle proposte e nelle discussioni. Lupatelli mette in campo la sua idea guida che vede le green communities come forma di governo del territorio, legate a iniziative dei comuni, a dispositivi della politica e della legislazione, che si intrecciano con la nuova configurazione e natura delle comunità nelle aree interne. Qui ecologia, energie pulite, solidarietà, critica del centralismo energetico si connettono, e di fatto si apre un chiarimento, per chi legge il CIP, che sarà potenziato nei prossimi numeri con altri interventi su specifici temi concettuali e politici del ‘riabitare l’Italia’. Teneggi pone al centro della nuova domanda di vita dei paesi le cooperative di comunità come risposta a punti di vista esterni versus interni, tra comunità immaginate per altri, e decise da residenti vecchi o nuovi ma in un disegno comune. Il tema della comunità connette i tre testi, ma leggendoli si capisce bene che la comunità è proprio ciò che non c’è e che non nasce per definizione ma per pratica. Teneggi la definisce proprio per la sua natura di progetto che sottolinea la sua assenza: comunità che non c’è. La comunità è quel che manca. Nei tre testi è interessante il linguaggio, non solo riflessivo e critico ma anche auto interrogante, come se volesse evitare l’idea che basta enunciare delle idee per risolvere i problemi.  

montiferru_fbMontiferru 

Con la costante presenza in iniziative formative, in consulenze, in progetti locali la Scuola di sviluppo locale che ha sede a Seneghe si propone come un nodo territoriale che mette insieme l’intervento di Baldino, Meloni, Uleri, con i temi trattati da Teneggi che proprio a Seneghe mise a punto il suo ‘manifesto’. La Scuola di Seneghe opera da tempo sul turismo rurale: la crescita della «domanda turistica esperienziale all’interno delle economie rurali nelle aree interne diventa dimensione chiave per il ripensamento e la progettazione dello sviluppo locale di questi territori in connessione a una nuova centralità dell’agricoltura che con esso si articola e si connette, determinandone la specificità e la qualità dell’offerta». Che è anche per gli antropologi un modo ulteriore di parlare di patrimonio senza ridurlo a pura storia incorporata e monumentale. 

Tarpino propone il duro confronto tra «i tratti paradossali di un Italia stretta fra i “Troppo vuoti” delle montagne povere, delle terre alte in genere e delle aree interne e i “Troppo pieni” delle metropoli, delle coste e dei paradisi turistici». Il suo intervento inizia con una drammatica memoria fondativa del filosofo Benedetto Croce, coinvolto giovanissimo nel grande terremoto di Ischia. È il fronte dell’Italia delle zone devastate in cui si misura la volontà della politica di investire nei luoghi e non nel definitivo abbandono. Si ha spesso l’impressione che l’abbandono sia visto come un fenomeno ineluttabile da assecondare, una idea che misura soprattutto la cecità della politica.

Nelle nostre riflessioni si incontrano, si alternano e si oppongono il livello della lenta costruzione con quello della improvvisa distruzione, della permanenza delle rovine prodotte da una guerra che la violenza dello sviluppo sregolato e privatistico impone al mondo storico e naturale dei territori. Difficili scenari per la nostra immaginazione: il pianeta e l’antropocene, il rischio ecologico finale, le guerre e le superpotenze cariche di armi, i conflitti religiosi e il mondo dei diritti. Quando pensiamo alla crescita delle nuove comunità nei piccoli paesi oscilliamo tra il desiderio di arricchire il mondo complesso di modalità più adeguate di vita e la sensazione di un mondo nel quale occorrerà ricominciare da capo l’impresa elementare del vivere sociale, forse in una terra distrutta. 

Antropologie dei luoghi e musei 

I testi di Tucci e Rossi ci portano nei luoghi con sguardi etnografici attenti a strumenti e pratiche. Insieme al testo di Bertoncini ridanno rilievo al dibattito sul ruolo dei musei e degli ecomusei nello sviluppo locale, e nella coscienza di luogo. L’ecomuseo delle acque di Gemona ci offre una esperienza che è al tempo stesso l’indicazione di uno strumento a favore delle comunità locali:

«La mappa di comunità degli ecomusei si distingue in modo netto per essere situata su un altro piano: quello di chi vive in un territorio e ha con esso una forte intimità culturale, fatta di esperienze, abitudini, eredità, stratificazioni, che non sono sempre immediatamente evidenti al di fuori di uno stesso, particolare, contesto sociale».

Un suggerimento di metodo utilissimo anche per la nascita delle comunità e di una memoria storica più ricca e dettagliata che si connette allo scritto sugli ecomusei dei dintorni urbani ex industrializzati (Agulli, Sasanelli), ecomusei i cui spazi sono quelli più trasformati e con forte perdita di memoria. Ricordo il lavoro dell’Ecomuseo urbano di Milano Niguarda (EUMMEcomuseo Urbano Metropolitano Milano Nord – EUMM (eumm-nord.it)) dove la forza della mappa di comunità è riuscita a fare riapparire una spazialità completamente perduta.

Cavriglia, Museo delle Miniere

Cavriglia, Museo delle Miniere

Rossi si interroga sulla nascita di un Museo come risposta all’interruzione, prodotta dal Covid, della rievocazione storica del Carnevale di Casciano Val di Pesa. Sul museo come strumento riconosciuto da una comunità che si fa ‘comunità patrimoniale’ e che costruisce mezzi di potenziamento di sé stessa usando a questo scopo uno strumento altrimenti in crisi come il museo. 

Un museo sta anche nel cuore del PNRR (Bertoncini) che il Comune di Cavriglia (Arezzo) ha vinto per la ricostruzione della frazione di Castelnuovo di Avane o dei Sabbioni. Il Museo Mine – che ho visto nascere, legato a un progetto di Gianfranco Molteni – connette la storia mineraria, quella medievale e quella del passato vicino tra mondo rurale in crisi e passaggio del fronte con la strage nazista [13].  Una sfida straordinaria che ci piacerà seguire insieme alle altre sfide legate ai PNRR. In Sardegna il PNRR è andato a Ulassai, il paese noto per il lavoro artistico di Maria Lai, mentre investimenti minori ma significativi sono andati a centri come Seneghe e Armungia, quasi un riconoscimento del lavoro locale sulle aree interne fatto dalla scuola di Seneghe e dall’Associazione Casa Lussu insieme con i musei comunali.

Osservare il PNRR nell’applicazione a queste realtà sarà forse il nodo principale del prossimo anno per chi si occupa del riabitare l’Italia. Nonostante tutte le giuste critiche sulle forme di erogazione, sui criteri ministeriali, sulla mancanza di coordinamento e programmazione, il PNRR è forse la forma più clamorosa e unica di investimento finalizzato ai luoghi che ci sia dato vedere. 

Giangiacomo Barozzi

Giancorrado Barozzi

Storie di storie 

A volte il tema dello sviluppo di una pratica di Public History si connette con i temi della memoria dei luoghi. Il racconto degli ecomusei di aree ex industriali (Agulli, Sasanelli) mostra la varietà delle temporalità, degli strati del passato, contrasta le semplificazioni, mostra l’industria nelle sue generazioni e dismissioni, morti e rinascite nelle sue diverse tipologie. Apre dialoghi tra città e territorio:

«Partendo proprio dallo studio e il recupero della memoria di siti industriali in dismissione agli inizi degli anni duemila, con il progetto “Ecotempo” le ricerche ecomuseali sono evolute studiando, sotto vari punti di vista, i mulini industriali del capitalismo agrario coevi al mulino settimese e le fabbriche di stampo novecentesco». 

Così come sono storie di storie, accumulo prezioso di memorie, le note di storia associativa legate alla nascita della Pro Loco di Fiamignano: il rito dei 50 anni di storia dell’associazione viene dilazionato ai 52 anni a causa del Covid e pone al centro la realizzazione di un murale nel quale viene fissato nella memoria visiva ‘l’evento della nascita’. Nel murale ci sono le donne che 50 anni fa facevano la cernita delle lenticchie di Rascino, nodo della ripresa della comunità e del lavoro della pro-loco.

«I piccoli paesi sono fatti così, anche le cose minute possono assumere un grande significato, una pittura può rappresentare molto, perché in essa ognuno può direttamente o indirettamente ritrovarsi… Ora quelle nostre donne sono una presenza stabile, baciate dal sole del mattino e protette dalla pioggia invernale… Ad un dipinto di paese si può chiedere molto più di quanto si possa esigere da uno cittadino» (Adriani, Giuliani, Paris). 

La notte di Natale è morto Giancorrado Barozzi, studioso di tradizioni popolari e di storia orale. La sua ricerca sulla narrativa di tradizione orale, sul folklore, sulla storia del mantovano, sul carnevale, sui musei è ben documentata sul web. In particolare il suo Atlante demologico lombardo. Nel numero 72 de La ricerca folklorica, si trova il suo ironico racconto autobiografico di studioso impegnato e appassionato. Tutti lo ricordano come persona gentile e colta, studioso dalle grandi e molteplici risorse intellettuali. Era del 1950 ed ha affrontato con coraggio e consapevolezza un tumore che ha combattuto per diversi anni.

Buon 2023. 

Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023 
Note
[1] C. Lévi Strauss, Babbo natale giustiziato, Palermo, Sellerio 1995 (ed.or. 1952), già edito come Babbo Natale suppliziato in Id., Razza e storia e altri saggi di antropologia, Torino, Einaudi, 1967
[2] Un tema che ho condiviso con l’artista sarda Maria Lai soprattutto nel suo volume Fuori era notte. I presepi, Cagliari, Duchamp, 2004 con una mia prefazione. 
[3] Tanti anni, un minuto. / Fuori, la vita in sogno. / Le case arrampicate/ strette al campanile / se ne sono uscite / da una cornice di presepio antico / al richiamo della campanella; quegli olmi lì a valle / i pupazzetti in riga. / Sopra alla neve / orme di piedi in fila. / Passa il vento della Maiella e le cancella. (traduzione di Alberto M. Cirese). Eugenio Cirese (Fossalto 1884-Rieti 1955) fu maestro, direttore didattico, ispettore scolastico, poeta soprattutto in molisano.
[4] Da Salvatore Cambosu, Miele amaro, 1954, Salvatore Cambosu (Orotelli 1895-Nuoro 1962). Il testo citato è in prosa, lo ho messo io in forma di versi. Cambosu maestro, giornalista, scrittore, fu ispiratore e suscitatore del lavoro artistico di Maria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013). Bella l’eco che collega Cambosu con Pavese [4] de La luna e i falò: «Un paese ci vuole» e «ci vuole proprio un villaggio».
[5] Maria Lai, Fuori era notte. I presepi, Cagliari, Duchamp, 2004 cit.
[6] Il libro di Francois Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Milano, Feltrinelli, 1987, me lo regalò Ida e ci indovinò. Fui folgorato dalla Glossa sulla Resistenza, dai nessi tra 1984 di Orwell e la società contemporanea, dai nodi profondi sui valori fondamentali della vita, tra questi la nascita come ‘evento dell’infanzia e infanzia dell’evento’,
[7] «si cerca …di recar testimonianza di ciò che solo conta, l’infanzia dell’incontro, l’accoglimento della meraviglia che accada (qualcosa) , il rispetto per l’evento. Non dimenticare che tu stesso sei stato e sei la meraviglia accolta, l’evento rispettato, l’infanzia unita dei tuoi genitori». Sono le ultime parole della Glossa, p.110.
[8] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Torino, Einaudi, 1988. Il riferimento è nella lezione su L’esattezza, da qui anche il titolo del libro di Alberto Sobrero, su antropologia e neuroscienze: Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Roma, Carocci, 2009. L’opposizione divenne molto comune nei dibattiti con Alberto Cirese in cui lui rappresentava il cristallo e altri allievi, tra cui io, prediligevano il modello della fiamma come rappresentativo della conoscenza antropologica.
[9] Per Lyotard l’infanzia dell’evento è un accadimento, una iniziativa che apre alla possibilità, che cambia, che chiede fedeltà all’atto compiuto, che apre possibili ferite nella sensibilità. L’esempio più bello e natalizio è la nascita di un nuovo essere umano: la maternità e la paternità convocate.
[10] Dal sito della mostra: «Sin da subito, l’allestimento della mostra proietta il visitatore all’interno di una città immaginifica e post-apocalittica dove, al centro della scena, è posta una strada circondata da palazzi disegnati dall’autore. Le facciate degli edifici colpiti da un cataclisma planetario portano inevitabilmente a una riflessione su quanto le nostre vite private e il nostro contribuito nella dimensione collettiva siano cambiate a seguito della pandemia: dietro le porte tombate delle case s’intravedono gli occhi di chi cerca fughe di sopravvivenza e tentacoli di animali mostruosi…
[11] Giuseppe Ungaretti, Porto sepolto 1916: Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro. /Di tanti/che mi corrispondevano/non è rimasto/neppure tanto. /Ma nel cuore/nessuna croce manca/È il mio cuore/il paese più straziato.
[12] Vedi alle pagine È il morale la chiave, in Ucraina arrivano le “stazioni di invincibilità” (28/11/2022) – Vita.it ; Ucraina, i ‘Punti di Invincibilità’ contro freddo e assenza energia - LaPresse ed.it.
[13] Tra il 4 luglio 1944 e l’11 luglio, 192 civili maschi fra i quattordici e gli ottantacinque anni vengono rastrellati, mitragliati e bruciati da reparti tedeschi specializzati della Divisione Hermann Göring nei paesi di Meleto, Castelnuovo, Massa Sabbioni, San Martino e infine Le Matole (Wikipedia).

 _____________________________________________________________

Pietro Clemente, già professore ordinario di discipline demoetnoantropologiche in pensione. Ha insegnato Antropologia Culturale presso l’Università di Firenze e in quella di Roma, e prima ancora Storia delle tradizioni popolari a Siena. È presidente onorario della Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici (SIMBDEA); membro della redazione di LARES, e della redazione di Antropologia Museale. Tra le pubblicazioni recenti si segnalano: Antropologi tra museo e patrimonio in I. Maffi, a cura di, Il patrimonio culturale, numero unico di “Antropologia” (2006); L’antropologia del patrimonio culturale in L. Faldini, E. Pili, a cura di, Saperi antropologici, media e società civile nell’Italia contemporanea (2011); Le parole degli altri. Gli antropologi e le storie della vita (2013); Le culture popolari e l’impatto con le regioni, in M. Salvati, L. Sciolla, a cura di, “L’Italia e le sue regioni”, Istituto della Enciclopedia italiana (2014); Raccontami una storia. Fiabe, fiabisti, narratori (con A. M. Cirese, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021); Tra musei e patrimonio. Prospettive demoetnoantropologiche del nuovo millennio (a cura di Emanuela Rossi, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021).

______________________________________________________________

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>