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Le parole chiave della Convenzione di Faro e il ruolo dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale

faroil centro in periferia

di Leandro Ventura

La recente ratifica della Convenzione di Faro da parte del Parlamento italiano definisce la necessità di una nuova considerazione dell’eredità culturale in generale e, in particolare, di quella immateriale. Lasciando da parte le preoccupazioni dei politici che temevano una manomissione dell’eredità culturale italiana a opera di non meglio identificate comunità straniere, è invece proprio il ruolo delle comunità direttamente coinvolte nei diversi elementi patrimoniali, che viene sottolineato da Faro, ancor più di quanto non fosse successo con la Convenzione UNESCO del 2003.

Al di là delle questioni metodologiche che interessano la definizione della comunità, è importante sottolineare come la Convenzione di Faro, attribuendo alle comunità il fondamentale compito di riconoscere il proprio patrimonio, o meglio la propria eredità culturale, faccia riferimento a tutto il patrimonio culturale, nel senso più esteso. Il concetto di comunità di eredità, quindi, è uno dei primi elementi innovativi, ma altre novità sono relative all’introduzione dei concetti di diritto all’eredità culturale e di responsabilità, individuale e collettiva, nei confronti dell’eredità culturale e alla sua conservazione finalizzata a un uso sostenibile per lo sviluppo della qualità della vita. Il tutto in una maggiore sinergia tra il pubblico e i privati, ovvero tra le istituzioni preposte alle attività di tutela, valorizzazione e formazione e le comunità che attuano pratiche di trasmissione e salvaguardia, spesso in maniera spontanea e non organizzata, seppur efficaci.

Questi princìpi fondamentali, che aprono molteplici percorsi innovativi sia nella concezione che nella modalità di tutela, salvaguardia e valorizzazione dell’eredità culturale, dovranno necessariamente dare avvio anche a una serie di innovazioni nell’impostazione stessa delle norme che regolano il sistema dei beni culturali in Italia e, in particolare, delle norme relative al patrimonio culturale immateriale [1]. Non sarà più possibile, infatti, accettare un articolo del Codice dei Beni Culturali, come il 7bis che, pur accogliendo all’interno del Codice quanto previsto dalle Convenzioni UNESCO 2003 e 2005, ne nega contemporaneamente i fondamenti, allorché riduce le attività di tutela del variegato patrimonio culturale salvaguardato dalle due Convenzioni, solo se viene rappresentato da oggetti. Sarà quindi necessario avviare una revisione del Codice dei Beni Culturali tesa a superare l’impostazione materialistica della legislazione di tutela italiana: si dovrà abbandonare l’idea dello storico predominio delle “cose”, per introdurre nelle pratiche di salvaguardia, tutela e valorizzazione anche tutti quegli elementi del patrimonio culturale immateriale che non si manifestano attraverso la materialità dei beni [2].

Il Codice, in effetti, sembrava aver superato il materialismo della legislazione quando al comma 2 dell’articolo 1 ci dice che «La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura», introducendo il concetto di comunità e l’importanza di questioni quali la memoria e il territorio. Poi, però, nell’articolato del Codice le “cose” ritornano prepotenti, a denunciare una certa incapacità del legislatore a sganciarsi da una tradizione giuridica consolidata. Oggi, la ratifica della Convenzione di Faro impone finalmente che la legislazione nazionale passi da una concezione di tutela e valorizzazione incentrata sul bene/oggetto, al riconoscimento di una eredità culturale così come individuata dalla comunità, all’interno di contesti peculiari e territori di rifermento specifici e delimitati. Nel contesto di questo cambiamento sarà determinante il ruolo del patrimonio culturale immateriale, a cui il Codice, proprio per la complessità di questa tipologia di patrimonio culturale, dovrà necessariamente dedicare non più un articolo arrangiato e contraddittorio, ma una parte specifica (una nuova parte IV?).

Ma, oltre l’esigenza di rinnovamento del Codice, la ratifica della Convenzione di Faro impone altri ambiti di ripensamento nel rapporto tra istituzioni pubbliche e comunità, che possono essere affrontati attraverso la lettura di alcune parole/concetti chiave della Convenzione, che consentiranno anche di presentare quei progetti dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale, che per alcuni versi hanno anticipato le previsioni della Convenzione.

2Dobbiamo sicuramente avviare questa lettura dalla parola Diritto”, perché Faro è sicuramente una delle convenzioni più all’avanguardia tra quelle attualmente in vigore, proprio quando afferma che il diritto all’eredità culturale diventa un diritto naturale fondamentale dell’uomo [3]. Inoltre la Convenzione modifica radicalmente l’idea stessa del rapporto tra l’uomo e l’eredità culturale, trasformandolo in un processo dinamico fondato sull’interazione dell’uomo con il suo contesto e mettendo da parte il prodotto finale del processo, ovvero l’oggetto culturale, l’opera, che passa in secondo in piano rispetto all’uomo focalizzato, invece, come centrale all’interno del processo, confermando così che l’eredità culturale è inevitabilmente un diritto dell’uomo [4]. Proprio come elemento dinamico, non oggettuale, l’eredità culturale diviene dunque un processo, prodotto di accumulazione e stratificazione in un arco temporale di lunga durata, che assume un valore diverso con il passare del tempo [5]. E quindi il riconoscimento dell’eredità culturale da parte delle comunità diventa fondamentale proprio per assegnare il corretto valore alle eredità stesse.

Altro termine centrale nelle innovazioni proposte da Faro è sicuramente “Responsabilità”, che si affianca al diritto di accesso all’eredità culturale. La salvaguardia dell’eredità culturale, come prevista dalla Convenzione di Faro, è una nuova tappa di un processo evolutivo avviato con il passaggio dell’incombenza della tutela dei beni culturali dal sovrano allo Stato e che vede oggi l’avvio di una ulteriore fase nell’affidamento dei compiti di tutela anche alle comunità e agli individui che possono agire per sollecitare, anche in sede internazionale, la protezione della propria eredità culturale [6]. La responsabilità, introdotta fin dall’articolo 1 della Convenzione, viene poi precisata all’articolo 4, come responsabilità individuale e collettiva al rispetto dell’eredità culturale, e poi sviluppata dalla Sezione III (artt. 11-14) per quel che riguarda la responsabilità delle istituzioni pubbliche. La responsabilità nella Convenzione di Faro è un onere diffuso a tutti i livelli e costituisce un elemento di profonda innovazione del rapporto tra individui, comunità, istituzioni ed eredità culturale. È una delle forme di cessione di potere da parte della Pubblica Amministrazione previste dalla Convenzione, e nello stesso tempo è un importante impegno affidato alle comunità e ai territori: difendere l’eredità culturale, fondare su di essa forme di sviluppo sostenibile legate alle esigenze dei vari contesti, avviare, in definitiva, una nuova, complessiva progettualità culturale.

“Sviluppo sostenibile è un altro concetto fondamentale della Convenzione, al quale abbiamo finora appena accennato e che si lega necessariamente alla qualità della vita, alla tutela dell’ambiente e dei diritti umani, all’accessibilità della cultura e alla salvaguardia dell’eredità culturale. L’articolo 8, per esempio, impegna gli Stati parte ad «arricchire i processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale e di pianificazione dell’uso del territorio, ricorrendo, ove necessario, a valutazioni di impatto sull’eredità culturale e adottando strategie di mitigazione dei danni». L’eredità culturale, infatti, non è limitata alla sfera individuale, ma si collega all’ambiente e alla dimensione sociale e, per quanto riguarda soprattutto il patrimonio immateriale, esprime anche un valore “spirituale”, perché lega l’individuo alla sua comunità, il passato al presente, i valori estetici di un bene/elemento e il suo valore d’uso [7]: fattori che costituiscono il valore sociale complesso dell’eredità culturale, un valore multidimensionale per alcuni prossimo all’idea di sviluppo sostenibile, che riconosce la centralità dell’uomo senza separarlo dal contesto in cui è inserito [8].

Il valore sociale complesso è l’esito di una valutazione composita, perché tiene conto dei benefici psicologici, degli effetti indiretti, dei benefici sugli utenti potenziali, delle innumerevoli implicazioni sullo sviluppo locale e regionale [9]. E da questo punto di vista il valore complesso del patrimonio culturale immateriale è innegabile e può essere fonte, laddove correttamente gestito, di importanti forme di sviluppo territoriale, soprattutto nei piccoli borghi e nelle aree interne, perché l’eredità culturale può/deve entrare nella vita degli individui e delle comunità per migliorare la qualità della vita, offrendo importanti possibilità di sviluppo (sostenibile). Proprio in merito a quest’ultima parola chiave, possiamo riflettere sul valore sociale complesso in riferimento alle esperienze di collaborazione dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale valorizzazione di saperi e pratiche, cercano spesso il supporto dell’Istituto per individuare vie di sviluppo sostenibile, anche attraverso l’attivazione di realtà imprenditoriali locali. Importante, ad esempio, quanto sta realizzando l’Associazione Giochi Antichi, con il Tocatì e i progetti di salvaguardia collegati, ora in candidatura alla lista delle buone pratiche di salvaguardia UNESCO 2003 [10]. Si possono anche segnalare le forme di collaborazione fondate su accordi mirati alla salvaguardia di saperi legati all’enogastronomia e alle specificità della produzione alimentare, campi di azione in cui l’Istituto ha messo a disposizione strumenti di ricerca e divulgazione come il Geoportale della Cultura Alimentare (www.culturalimentare.beniculturali.it) che, grazie alla georeferenziazione dei contenuti, consente di supportare lo sviluppo e la valorizzazione anche turistica di un territorio e delle sue peculiarità enogastronomiche.

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Italia dalle Molte Culture, particolare della festa del Diwali, comunità Sikh di Sabaudia (LT), 8 novembre 2018

Proseguiamo con il “Dialogo” e quindi l’inclusione, concetti definiti dalla impostazione stessa della Convenzione di Faro, concepita per diventare uno strumento di salvaguardia fattiva e reale, condotta dalle comunità di eredità, dell’aspetto identitario dei territori, garantendo quindi anche i diritti culturali delle minoranze culturali e linguistiche nell’ambito di quella che è l’eredità comune dell’Europa definita all’articolo 3 della Convenzione, ovvero tutte le forme di identità culturale, memoria, creatività, orientate al rispetto di una società pacifica, democratica e fondata sul rispetto dei diritti dell’uomo, una eredità comune la cui conoscenza, opportunamente sviluppata, diventa come recita l’articolo 7 della Convenzione, una risorsa che facilita la coesistenza [11]. L’Istituto sta lavorando in questi ultimi anni su almeno due progetti incentrati sulla conoscenza come strumento per la facilitazione del dialogo e dell’inclusione: Gli Italiani dell’altrove, dedicato alle minoranze linguistiche storiche, e Italia dalle Molte Culture, un progetto fondato sull’inclusione e il confronto tra comunità diverse, con il quale si intende documentare il patrimonio culturale delle comunità di nuova immigrazione, e i rapporti di integrazione/esclusione con le comunità autoctone del territorio.

E dal dialogo discende sicuramente la “Sinergia, indicata già negli obiettivi della Convenzione (articolo 1) come scambio di competenze tra i vari attori pubblici e privati coinvolti nella gestione dell’eredità culturale. La comunità di eredità, per esempio, opera nel quadro di un’azione pubblica per sostenere e trasmettere alle generazioni future la sua eredità culturale (articolo 2), ma viene anche riconosciuto il volontariato nell’integrazione al ruolo delle autorità pubbliche, così come vengono incoraggiati metodi innovativi di cooperazione tra pubblico e privato (articolo 11). Ecco che quindi si possono pensare forme di mecenatismo diffuso, perché lo sviluppo basato sullo sfruttamento sostenibile dell’eredità deve essere condotto in collaborazione tra varie realtà, oltre alle comunità, le associazioni, le imprese, le istituzioni pubbliche. Pensando alla sinergia tra le istituzioni pubbliche e gli altri attori dell’offerta culturale l’Istituto, ormai dal 2016, sta lavorando con varie istituzioni, comunità ed enti locali a progetti complessi, in un’ottica operativa fondata sulla stretta cooperazione e quindi su una significativa sinergia.

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Cantieri della Civiltà Marinara, dettaglio dell’allestimento, Porto San Giorgio (FM).

Qui si possono ricordare le collaborazioni con la rete delle Grandi Macchine a Spalla per attività di valorizzazione e promozione, ma anche il lavoro svolto in collaborazione con il Comune di Gubbio, l’Università dei Muratori e le Famiglie dei ceraioli, per documentare la corsa dei ceri, così come il progetto Lucigraphiae di documentazione dell’assenza delle feste della rete durante questo particolare 2020, il tutto condotto secondo modalità innovative di ricerca e restituzione, prossime alle forme contemporanee di espressione della video-arte. O ancora, per segnalare altri progetti in corso, il lavoro di documentazione e valorizzazione delle rievocazioni storiche condotto dal Servizio VI della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, a cui l’Istituto collabora, insieme ad associazioni ed enti locali; e, tra le iniziative più recenti, l’allestimento nell’agosto 2020 dei Cantieri della Civiltà Marinara, realizzato a Porto San Giorgio in collaborazione con il Comune, uno spazio multimediale, espositivo e di ascolto, che intende diventare un punto di riferimento per la salvaguardia e la condivisione della memoria e dei saperi ancora vivi della cultura marinara dell’Adriatico e, in prospettiva, del resto delle coste italiane.

Abbiamo già incrociato la Conoscenza”, a cui si collega la consapevolezza, che sicuramente è un’altra parola chiave della Convenzione di Faro, e deve essere alla base del diritto all’eredità culturale sancito dalla Convenzione, perché solo attraverso la conoscenza e la conseguente consapevolezza del valore culturale, le comunità possono essere messe in grado di partecipare pienamente all’eredità culturale e alle possibilità che offre. La comunità deve svolgere infatti un ruolo attivo che parte dal riconoscimento della propria eredità culturale che non è più assegnato in esclusiva allo Stato, ma diventa prerogativa anche delle Comunità. La conoscenza e la consapevolezza diffuse diventano così un prerequisito ineliminabile per consentire alle comunità di eredità di svolgere un ruolo determinante come cittadinanza attiva, impegnata non solo nel riconoscimento della propria eredità culturale, ma anche nella sua salvaguardia e nella sua valorizzazione. In questo ambito, le istituzioni pubbliche dovranno svolgere un ruolo fondamentale, in particolare le scuole e le università che dovranno supportare le comunità nell’acquisizione di conoscenza e consapevolezza. Non saranno più sufficienti, però, i progetti tradizionali di “educazione al patrimonio” nelle scuole superiori, né alcuni corsi di laurea o di specializzazione universitari, perché la Convenzione di Faro richiede nuove modalità di trasmissione del sapere sull’eredità culturale, e dunque una formazione che dovrà necessariamente essere orientata alla progettualità culturale. Generare nuovi processi di sviluppo, basati sulla conoscenza e sulla consapevolezza dell’eredità culturale – raggiunte attraverso il riconoscimento, la salvaguardia e la trasmissione alle future generazioni, la semplificazione della fruizione, la valorizzazione – è infatti ormai indispensabile per consentire forme di sviluppo economico sostenibile dei territori, delle comunità e dei singoli.

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Tocatì un patrimonio condiviso. Le giornate dell’immateriale, Seminario formativo, Venezia, Palazzo Ducale, 24-25 gennaio 2020. Un momento dei tavoli di lavoro con le comunità ludiche

Anche in questa direzione l’Istituto ha dato il suo contributo progettuale, ancora relativamente al progetto “Tocatì. Un patrimonio condiviso”, organizzato dall’Istituto in collaborazione con l’Associazione Giochi Antichi di Verona, con l’obiettivo di fornire alle comunità, spesso provenienti da piccoli borghi, la consapevolezza del valore di quel patrimonio ludico tradizionale che praticano e trasmettono di generazione in generazione senza particolare cognizione dell’importante opera di salvaguardia che mettono spontaneamente in pratica.

Ecco quindi che, se da un lato sarà necessario ripensare il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio in maniera se non radicale quanto meno impegnativa, dall’altro sarà fondamentale lavorare con le comunità di eredità per fornire loro tutti gli strumenti di conoscenza necessari per una vera partecipazione alle vicende della loro eredità culturale, per garantire loro quanto serve a fruire del diritto ad accedervi, della responsabilità per la sua salvaguardia, beneficiando dell’insostituibile apporto offerto dal contatto diretto, dallo scambio di idee e punti di vista, con chi vive ed agisce nei contesti patrimoniali, per uno sviluppo sostenibile fondato sulla sua valorizzazione, ma anche sul dialogo e sull’inclusione, in sinergia con i vari attori responsabili della sua gestione.

 Dialoghi Mediterranei, n. 46, novembre 2020
Note
[1] Bisogna notare che la traduzione italiana della Convenzione di Faro pubblicata nel sito del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo ha tradotto cultural heritage con eredità culturale, evitando patrimonio culturale, più consueto nel contesto italiano ma anche suscettibile di intromissioni/confusioni con la terminologia usata nel Codice
(https://ufficiostudi.beniculturali.it/mibac/multimedia/UfficioStudi/documents/1362477547947_Convenzione_di_Faro.pdf)
[2] Sul predominio storico del materialismo, della “cosificazione”, nella legislazione sui beni culturali, si può fare ancora riferimento alla fondamentale raccolta curata da Andrea Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi stati italiani, 1571-1860, Bologna, Edizioni Alfa, 1978.
[3] In generale, sul tema del diritto all’eredità culturale come diritto fondamentale dell’uomo, si può fare riferimento all’ampia sintesi proposta da Letizia Seminara, I beni culturali nel diritto internazionale dei diritti dell’uomo: un approccio basato sui diritti umani?, in «Koreuropa. Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea dell’Università Kore di Enna» n. 7/2015: 205-232 (https://unikore.it/media/k2/attachments/7_edizione.pdf).
[4] Alberto D’Alessandro, La Convenzione di Faro e il nuovo Action Plan del Consiglio d’Europa per la promozione di processi partecipativi. I casi di Marsiglia e Venezia, in Citizens of Europe. Culture e diritti, a cura di Lauso Zagato, Marilena Vecco, Venezia, Edizioni Ca’ Foscari, 2015: 77-92, in part.: 77-79.
[5] Alessio D’Auria, Il valore dei beni culturali: paradigmi per un approccio non strumentale ad uno sviluppo heritage-based, in Sebastà Isolympia. Il patrimonio riscoperto, l’eredità culturale da valorizzare, a cura di Giuseppe Vito, Napoli, Enzo Albano Edizioni, 2017: 102-127, in part.: 106.
[6] Seminara, I beni culturali, cit.: 231-232.
[7] D’Auria, Il valore, cit.: 111.
[8] Luigi Fusco Girard, Risorse architettoniche e culturali: valutazioni e strategie di conservazione. Una analisi introduttiva, Milano, FrancoAngeli, 1987: 40.
[9] D’Auria, Il valore, cit.: 112.
[10] Nel 2015 il Tocatì – Festival Internazionale dei Giochi in Strada, organizzato dalla Associazione Giochi Antichi, ha adottato un sistema di gestione sostenibile e ottenuto la certificazione ISO20121 per gli “eventi sostenibili”.
[11] D’Alessandro, La Convenzione, cit.: 79.

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Leandro Ventura, attualmente è dirigente storico dell’arte del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo. Dopo aver ricoperto l’incarico di Segretario regionale e direttore del Polo museale del Molise, è ora responsabile del Servizio VI (Tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale) della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio, nonché direttore dell’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale. È stato anche direttore ad interim del Museo delle Civiltà di Roma. In qualità di docente a contratto, ha insegnato Storia dell’arte veneta presso l’Università di Roma I La Sapienza, e Teoria e Storia della Produzione e della Committenza Artistica presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha dedicato la sua attività di ricerca principalmente al contesto mantovano e alla committenza e al collezionismo dei Gonzaga, pubblicando saggi e monografie su Pisanello, Andrea Mantegna, Lorenzo Leonbruno, Isabella d’Este, Correggio, Sabbioneta. Collabora con diverse riviste scientifiche.

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