Pellicole salvate, pellicole perdute
Il restauro dei film è un’arte che si muove al confine tra tecnica e pensiero critico, abbracciando discipline diverse, dalla filologia alla teoria del restauro, per dare forma a una ricostruzione che non è mai neutra, ma sempre interpretativa. È un gesto che interroga il tempo, che ascolta i frammenti, che ricompone memorie disperse per restituire dignità a un’opera e al suo contesto. Restaurare significa entrare in dialogo con il passato e con le sue assenze, assumendosi la responsabilità di decidere cosa tramandare e in quale forma.
Ogni scelta compiuta, dalla selezione delle opere da preservare alla definizione delle strategie tecniche da adottare, riflette una precisa concezione del patrimonio e del modo in cui esso deve essere trasmesso. La fedeltà all’opera originale costituisce uno dei cardini teorici e pratici dell’intervento filologico, ma si tratta di una fedeltà problematica, sempre mediata dal contesto storico, dalle tecnologie disponibili, dai limiti materiali e dall’inevitabile distanza dall’opera.
La perdita delle pellicole cinematografiche costituisce un fenomeno che, per quanto storicamente recente, presenta analogie strutturali con la dispersione dei testi manoscritti del mondo antico.
Le cause sono molteplici e di natura eterogenea: conflitti bellici, atti di censura, obsolescenza dei supporti, incuria istituzionale, mancanza di una consapevolezza archivistica. Sebbene il cinema affondi le proprie radici in una cronologia ben più ravvicinata rispetto alla tradizione letteraria classica, esso ha già conosciuto, nel corso dello scorso secolo, forme di distruzione sistematica del proprio patrimonio.
Secondo gli studi sul cinema delle origini, dal 1895 al 1918 il 75% delle pellicole è andato perduto. Nell’epoca di transizione dal muto al sonoro, cioè dalla fine della Prima guerra mondiale fino agli anni Trenta, si stima una perdita del 50% del patrimonio, mentre tra il 1930 e il 1950 la percentuale scende al 35% [1]
Le prime pellicole cinematografiche erano costituite da uno strato fotosensibile sospeso in una matrice gelatinosa, applicata su un supporto flessibile realizzato in nitrato di cellulosa. Sebbene questo materiale garantisse una buona resa ottica, presentava tuttavia gravi inconvenienti: era fortemente infiammabile e chimicamente instabile. La sua pericolosità aumentava con il passare del tempo: pellicole in nitrato vecchie potevano autocombustionarsi già a temperature di circa 40 °C. Non mancarono, nella storia, incidenti come quello nel 1897 al Bazar de la Charité a Parigi, divampato durante una proiezione cinematografica, che provocò la morte di centoventisette persone, in gran parte donne dell’alta società e volontarie dell’ente di beneficenza che gestiva l’evento. L’immagine del disastro comparve sulla copertina del giornale Le Petit Journal del 16 maggio 1897 e il tragico avvenimento segnò una brusca battuta d’arresto per la diffusione del cinema in Francia. Il supporto cinematografico, oltre a essere pericoloso, tendeva a irrigidirsi, frammentarsi, avviandosi verso un processo di decomposizione.
Il nitrato di cellulosa venne utilizzato come standard industriale fino alla seconda metà degli anni Cinquanta, quando fu progressivamente vietato a causa dei rischi associati al suo impiego. Fu allora sostituito da pellicole realizzate in acetato di cellulosa, un materiale considerato “di sicurezza” (safety film), meno infiammabile e apparentemente più stabile.
La perdita del materiale cinematografico è attribuibile a due ordini principali di cause: da un lato, la deperibilità intrinseca dei supporti fisici, sia nitrato che acetato, dall’altro, fattori esterni legati a errate condizioni di conservazione, spesso aggravate da variabili climatiche sfavorevoli. In molti casi, è stata l’assenza di una politica istituzionale di tutela a determinare la dispersione dei materiali: il cinema delle origini venne rapidamente considerato obsoleto, privo di valore artistico o documentario, e pertanto destinato all’oblio. Con la nascita delle sale fisse, dei generi narrativi codificati e di un’industria cinematografica sempre più orientata alla standardizzazione produttiva, il cinema di attrazione, tipico dei fratelli Lumière, di Méliès e della fase pionieristica, perse progressivamente rilevanza. Di conseguenza, le copie dei film realizzati nei primi decenni del Novecento non solo non vennero preservate, ma spesso furono deliberatamente eliminate, per ragioni di sicurezza.
Le distruzioni del patrimonio cinematografico provocarono, già a partire dagli anni Trenta del Novecento, una serie di reazioni volte ad affrontare in maniera sistematica il problema della conservazione del film come oggetto culturale e storico e non solo come prodotto d’intrattenimento. Infatti nel 1933 vennero fondati due importanti enti: lo Svenska Filminstitutet in Svezia e il British Film Institute a Londra, quest’ultimo affidato alla direzione di Ernest Lindgren, figura centrale nello sviluppo del pensiero archivistico moderno e promotore di una visione metodica e scientifica della conservazione cinematografica. Poco dopo, nel 1935, anche la Germania nazista istituì un proprio archivio ufficiale, il Reichsfilmarchiv, localizzato a Berlino, con l’intento, in parte propagandistico, di consolidare e controllare la memoria visiva del Reich. Nel 1936, invece, in Francia, nacque la Cinémathèque Française, sorta dall’evoluzione di un cineclub gestito da Georges Franju e Henri Langlois, i quali concepirono fin da subito la cineteca come un museo attivo in cui la proiezione, lo studio e la conservazione dei film si intrecciavano in un’unica pratica culturale. In Italia furono collezionisti privati come Luigi Comencini e Maria Adriana Prolo, i quali iniziarono a raccogliere film, manifesti, oggetti e documenti d’epoca, materiali che sarebbero poi confluiti nelle cineteche nazionali. Nel frattempo a Roma prendeva forma il Centro Sperimentale di Cinematografia, istituzione che, oltre alla formazione, si occupava di costruire un primo fondo filmico destinato all’insegnamento e alla diffusione della cultura cinematografica.
Il 1938 segnò infine un momento cruciale con la fondazione, a Parigi, della Fédération Internationale des Archives du Film (FIAF), organizzazione internazionale nata per coordinare gli sforzi di conservazione a livello globale e favorire la cooperazione tra le diverse cineteche emergenti [2].
Nonostante la nascita di queste strutture, per lungo tempo il concetto di restauro cinematografico rimase in una sorta di limbo teorico. Fino al secondo dopoguerra il salvataggio dei film si limitava soltanto alla duplicazione o redistribuzione, senza ancora una piena consapevolezza delle problematiche materiali, estetiche e filologiche legate al loro deterioramento. Dagli anni Cinquanta, anche in seguito alle devastazioni causate dalla Seconda guerra mondiale, con archivi traslocati, distrutti o dispersi, si cominciò a parlare in termini più concreti di restauro e di sicurezza. Il convegno della FIAF tenutosi a Brighton nel 1978 rappresentò una svolta fondamentale per la comunità scientifica dedicata allo studio e alla conservazione del cinema delle origini, suscitando un rinnovato entusiasmo e un dibattito articolato sui problemi legati alla salvaguardia e al restauro delle opere filmiche.
In questo contesto, l’incremento del mercato dell’home video contribuì a rilanciare l’interesse commerciale verso i titoli del passato, sottolineando la necessità di interventi di conservazione sempre più sofisticati e rispettosi dell’integrità storica delle pellicole. Negli anni Ottanta, l’obiettivo si spostò verso una ricostruzione del film come testo integrale, attraverso l’analisi e l’interpretazione delle tracce filmiche, documentarie e storiche disponibili. Questo approccio venne definito come “restauro d’autore” in quanto prevedeva un’attiva manipolazione critica e interpretativa da parte del curatore, il quale non si limitava a un semplice duplicato, ma si faceva promotore di una vera e propria rielaborazione dell’opera, sempre guidata dal rispetto della sua integrità artistica e storica.
Se i primi esperimenti degli anni Ottanta furono perlopiù pionieristici e sperimentali, essi rappresentarono il punto di partenza per lo sviluppo di pratiche più sistematiche e metodologicamente rigorose che caratterizzarono gli anni Novanta. In questa fase si affermò la cosiddetta “scuola bolognese”, rappresentata da studiosi come Michele Canosa, Gian Luca Farinelli e Nicola Mazzanti, i quali si soffermarono sull’importanza delle fonti extrafilmiche nella ricostruzione critica dei testi filmici. Tra gli esempi più significativi si possono citare le iniziative come la realizzazione delle Leggende del Cinema Muto di Pordenone nel 1982 e l’istituzione del Cinema Ritrovato di Bologna nel 1986, manifestazioni che contribuirono a diffondere una concezione moderna e consapevole delle pellicole antiche [3].
La Filologia applicata al cinema
La disciplina che viene in aiuto per la ricostruzione filmica di pellicole danneggiate, o qualora vi fossero più copie di uno stesso film, originali e non, è la filologia del cinema. Si tratta di una materia con una forte componente sperimentale, che nasce dall’applicazione della filologia all’ambito cinematografico. Libri e film si fondano su un sistema di copie. Pur trattandosi di media molto diversi, entrambi si basano sul presupposto che ciò che si conserva e si tramanda non è quasi mai l’originale, ma piuttosto una molteplicità di versioni e duplicati, i quali ne garantiscono la sopravvivenza. Quando un’opera scritta si perde, spesso rimane solo una copia o più copie che permettono di ricostruirne il contenuto; in questo senso, si definisce la copia come testimone dell’opera. In ambito filologico, il compito dell’editore critico consiste nell’intervenire sul testo con l’obiettivo di correggere gli errori e ripristinare, per quanto possibile, la volontà originaria dell’autore. Tale operazione richiede una profonda conoscenza delle dinamiche testuali e un’attenta valutazione dei rapporti esistenti tra i diversi testimoni. L’operatio critica non si limita alla mera emendazione di refusi o incongruenze, ma si configura come un procedimento analitico e deduttivo volto a ricostruire, attraverso l’esame delle varianti, degli errori e delle innovazioni, una forma testuale che si avvicini quanto più possibile all’archetipo o a una sua proiezione verosimile.
L’insieme dei testimoni materiali, manoscritti, stampe, copie filmiche, che ci sono pervenuti costituisce la tradizione diretta. Se consideriamo, ad esempio, la tradizione diretta del cinema muto italiano, notiamo una configurazione aperta e irregolare, assimilabile alla forma di un ventaglio. Prendendo come caso esemplare Cabiria (1914), possiamo osservare una tradizione diretta ampia, poiché sono sopravvissute diverse copie. Tuttavia, sul lato opposto del ventaglio troviamo casi più estremi, in cui la tradizione è rappresentata da un solo testimone, spesso una copia di proiezione, usurata, incompleta o rimaneggiata. Si tratta, in genere, di copie già utilizzate per la distribuzione, raramente integre e spesso soggette a interventi successivi che ne compromettono l’autenticità [4].
Quando la tradizione diretta è costituita da più testimoni, il compito del filologo è quello di ricostruire i rapporti di filiazione tra le copie, ovvero determinare le relazioni genetiche che legano i testimoni tra loro. Questo processo, che prende il nome di stemmatica, implica la costruzione di un albero genealogico (o stemma codicum) in grado di rappresentare graficamente le derivazioni successive. Se un testimone A ha dato origine a un testimone B, si dice che B proviene da A, e che A è luogo a B, secondo un rapporto unidirezionale di discendenza [5].
Accanto alla tradizione diretta esiste anche la tradizione indiretta, costituita da tutte quelle forme di trasmissione che non derivano da una copia integrale dell’opera, ma da citazioni, parafrasi, riassunti o appunti che ne conservano parzialmente il contenuto. Anche nel caso del cinema, possiamo parlare di tradizione indiretta. Accade, ad esempio, quando un film perduto è ricostruito grazie a recensioni, sceneggiature, fotografie di scena, descrizioni contenute in cataloghi o programmi di sala. Questi frammenti, pur non costituendo il film nella sua interezza, consentono di accedere, almeno parzialmente, al contenuto, alla struttura narrativa o alla ricezione storica dell’opera.
Un caso emblematico è rappresentato da La presa di Roma – XX settembre 1870 di Filoteo Alberini e Dante Santoni, considerato uno dei primi film italiani, realizzato nel 1905. La versione attualmente nota è frutto di una ricostruzione filologica complessa, condotta a partire da duplicati negativi realizzati negli anni Trenta dall’Istituto Luce. Tali materiali sono stati comparati con copie conservate presso istituzioni internazionali, tra cui l’Archivio Nazionale Cinematografico di Buenos Aires, la Cineteca Italiana di Milano, il Museum of Modern Art di New York e il National Film and Television Archive di Londra. L’apparato dei titoli di testa e di coda, così come l’identificazione delle singole quadrettature narrative, è stato ricostruito sulla base di documenti d’epoca, inclusi programmi di sala e resoconti giornalistici.
La teoria del Restauro di Brandi applicata ai film
Unitamente alla ricostruzione filologica nel contesto del restauro cinematografico, soprattutto quando si affronta il recupero di opere frammentarie, danneggiate o lacunose, si rivela di fondamentale importanza l’applicazione dei principi teorici elaborati da Cesare Brandi nella sua Teoria del restauro. Sebbene concepita in primo luogo per le arti visive tradizionali, la riflessione brandiana sulla materia e sull’immagine offre strumenti concettuali altamente efficaci anche per le pellicole. «L’opera d’arte è tale in quanto immagine – scriveva Brandi – ma l’immagine si dà solo nella materia».
La differenza strutturale tra il restauro dell’opera d’arte tradizionale e quello del film risiede innanzitutto nella natura ontologica dei rispettivi oggetti di intervento. Mentre il restauro delle arti plastiche opera su oggetti unici e irripetibili – siano essi dipinti, sculture o architetture – il restauro cinematografico si confronta con materiali riproducibili, ovvero con copie che, pur variando nella qualità o nella completezza, sono comunque moltiplicabili e potenzialmente replicabili. Questo elemento introduce una frattura radicale: il prodotto di un restauro cinematografico non coincide materialmente con nessuno degli elementi di partenza, ma si configura come un nuovo oggetto, distinto e autonomo. Il cinema è pertanto l’unica arte visiva in cui l’atto del restauro rompe il legame diretto tra opera e supporto originario, introducendo una dimensione progettuale e ricostruttiva che mette in discussione le nozioni classiche di autenticità e unicità.
Se il primo assioma della teoria del restauro di Cesare Brandi –«si restaura solo la materia dell’opera d’arte» – si fondava su un’identificazione tra oggetto materiale e identità estetica, nel caso del film tale principio si complica: la “materia” dell’opera cinematografica, costituita da pellicole, duplicati, negativi, copie distribuite, spesso non si restaura ma si ricrea, assemblando materiali diversi per ricostruire un testo filmico che, in molti casi, non esiste più nella sua forma originaria. L’intervento, dunque, non è tanto un restauro in senso stretto, quanto una nuova edizione critica, una rifondazione dell’opera attraverso la mediazione delle fonti disponibili
Con l’avvento del digitale, questa problematica si è ulteriormente accentuata: l’assenza di una materia stabile e tangibile rende ancor più complesso il concetto di “fedeltà all’originale”. L’opera cinematografica si configura sempre più come un’entità mobile, stratificata, che vive attraverso le sue versioni successive e i supporti in continua evoluzione. In questo scenario si inserisce il dibattito teorico contemporaneo, che pone interrogativi sostanziali sull’ontologia dell’immagine filmica, sui criteri di autenticità e sulla responsabilità filologica e critica di chi opera nel campo del restauro cinematografico.
Non si può intervenire su una pellicola danneggiata come se fosse un oggetto tecnico neutro. Ogni copia sopravvissuta – anche quando lacunosa, spezzata, sbiadita o alterata – è parte integrante della storia materiale e immaginativa del film. L’intervento di restauro deve allora porsi come atto critico, orientato da una precisa coscienza filologica, secondo cui la reintegrazione delle lacune o la ricostruzione delle sequenze perdute deve rispettare l’unità dell’opera senza mai giungere a creare un falso storico. Brandi propone che ogni integrazione sia riconoscibile da vicino ma invisibile a una distanza coerente con la normale fruizione dell’opera: nel caso cinematografico, questo si traduce nella necessità di rendere evidenti, in forma controllata, le porzioni ricostruite – per esempio mediante l’uso di didascalie, viraggi differenti o inserti stilisticamente marcati – senza che queste turbino la coerenza complessiva dell’esperienza visiva. Inoltre, la distinzione fondamentale tra figura e sfondo, alla base della percezione pittorica secondo Brandi, trova nel cinema un parallelo nella dialettica fra sequenze narrative e montaggio, tra l’apparato tecnico e il flusso delle immagini. Anche nel film, infatti, ogni lacuna agisce come una figura emergente sul fondo dell’opera e il restauro deve operare in modo da reintegrare queste figure senza comprometterne la leggibilità storica. La teoria brandiana permette, dunque, di superare una visione meramente tecnica del restauro, introducendo una consapevolezza estetica, etica e filologica che si rivela cruciale anche nell’ambito della conservazione cinematografica.
Restauro fotochimico o digitale
Uno degli aspetti fondamentali del restauro cinematografico è l’analisi preliminare dei materiali filmici, un’operazione che richiede competenze specifiche e strumenti adeguati. Il primo passo consiste nella visione del supporto tramite un tavolo di visione, un apparato dotato di piatti rotanti, azionabili manualmente o automaticamente, e una superficie dove è possibile osservare in trasparenza i fotogrammi. È in questa fase che si individuano i principali danni fisici, come graffi, tagli, rotture, alterazioni chimiche e imperfezioni legate alla stampa dell’immagine.
Per il restauratore, ogni pellicola costituisce una miniera di informazioni: i codici numerici e simbolici incisi tra le perforazioni, consentono di datare la pellicola e attribuirla a un determinato produttore. Sul corpo stesso del film è frequente trovare annotazioni tecniche manoscritte risalenti all’epoca di produzione, come numerazioni di montaggio, indicazioni per l’inserimento delle didascalie, punti di taglio e perfino segni poco ortodossi come fotogrammi cuciti o fissati.
La distinzione tra danni fisici e chimici è fondamentale. I primi, se non coinvolgono direttamente l’immagine, possono essere riparati manualmente con bisturi, forbici, nastri adesivi speciali e colle. I danni chimici, invece, risultano spesso irreversibili e, quando possibile, vengono mitigati solo in fase di stampa o mediante elaborazioni digitali. La riparazione di una pellicola di media lunghezza può richiedere settimane o mesi: è una fase delicatissima, affine per metodologie e attenzione al restauro pittorico, il cui obiettivo è quello di restituire stabilità meccanica al supporto senza alterare l’immagine originaria.
Nella scelta dei materiali da utilizzare si devono valutare almeno tre parametri: la qualità dell’immagine, la completezza e la coerenza della versione rispetto a un’ipotetica “edizione di riferimento”. La comparazione tra diverse copie si avvale del découpage analitico, cioè una descrizione inquadratura per inquadratura del film, che permette di evidenziare lacune o varianti significative. Prima della digitalizzazione o della stampa fotochimica le pellicole devono essere sottoposte a un’accurata pulitura. Questa avviene oggi mediante macchine a ultrasuoni, capaci di rimuovere polvere e detriti senza compromettere l’emulsione. Solo a questo punto il film è pronto per le successive fasi del restauro.
Una delle scelte fondamentali riguarda l’impiego dell’approccio fotochimico o digitale. Il primo si basa su una lavorazione tradizionale della pellicola: le copie selezionate, dopo essere state riparate, vengono stampate e duplicate attraverso una catena di passaggi: positivo, internegativo, interpositivo, fino alla realizzazione della copia zero, base per le copie definitive. Tecniche come la stampa sotto liquido permettono di ridurre graffi e imperfezioni, mantenendo un’elevata fedeltà materica. L’approccio digitale, invece, inizia con la scansione della pellicola in alta risoluzione, 2K o 4K, da cui si ricava una sequenza di file immagine. Attraverso software specifici, si interviene su difetti, instabilità e correzioni cromatiche, fino alla possibile restituzione su supporto fotochimico. Il digitale offre ampie possibilità di intervento, ma richiede un’attenta valutazione filologica per evitare eccessi di manipolazione. La scelta tra i due approcci dipende dalla natura dei materiali disponibili, dagli obiettivi conservativi e dal grado di fedeltà che si intende restituire all’opera originale.
Il restauro della componente sonora
Come i fotogrammi subiscono dei danni con il passare del tempo anche la parte riguardante la colonna sonora può avere delle problematiche legate ai graffi e rotture che innescano fruscii, echi e rumori fastidiosi. Analizzando l’aspetto tecnico del restauro del sonoro ci torna utile la pratica utilizzata presso il laboratorio di restauro sito a Bologna: L’Immagine Ritrovata. Gilles Barberis, che da anni vi lavora, ha elaborato in modo esaustivo le varie fasi, attraverso le nuove tecnologie, di cui il laboratorio è ampiamente attrezzato.
«Anche per quanto riguardo il suono – afferma Gilles – l’analisi storica dell’opera e la ricerca degli elementi incidono su tutto il processo di restauro, dalla digitalizzazione, al restauro digitale del suono, all’ottimizzazione del segnale, che può includere numerose tecnologie di decodifica». Il restauro del suono è un processo che in primis sceglie il tipo di approccio da utilizzare, ne individua gli strumenti utili per tutte le varie fasi al fine di ottenere un risultato che sia fedele alla concezione dell’opera nel periodo storico in cui essa veniva creata.
Per questo motivo, infatti, pur servendosi delle più sofisticate tecnologie in ambito digitale, occorre limitarsi ad una rimozione dei fastidiosi rumori, ma evitando di alterare troppo l’essenza stessa del suono, che apparirebbe non più collegata a quel periodo storico. Occorre quindi rimuovere solo eventuali difetti sonori dovuti alla manipolazione del supporto e del suo decadimento [6].
Per un corretto approccio nei confronti dello studio sul sonoro occorre soffermarsi sulle tre grandi macrocategorie di supporto, utilizzate nei vari anni, anche in base all’origine geografica della produzione sonora: suono ottico, suono magnetico e suono digitale. La storia del suono cinematografico si articola in due grandi fasi: sonoro analogico e sonoro digitale. La prima fase si basa su sistemi di registrazione sincronizzata su pellicola, il cosiddetto sound-on-film, che va dalla fine degli anni Venti sino ai primi anni Novanta. Il sonoro analogico è passato attraverso una grande varietà di formati suddivisibili in due famiglie di tecnologie: il supporto ottico e quello magnetico. Dagli anni Novanta del secolo scorso si afferma l’era del sonoro digitale, tuttora in corso.
Supporto ottico
Il supporto ottico ha rappresentato la tecnologia prevalente per la registrazione e la post-produzione del suono in ambito cinematografico. Questo sistema si articolava in due principali modalità: a densità variabile e ad area variabile. Il principio di funzionamento si basava sulla trasformazione del segnale elettrico, generato inizialmente dal microfono, in un segnale luminoso. Quest’ultimo veniva proiettato su una pista fotosensibile integrata direttamente nella pellicola cinematografica, rendendo possibile la registrazione permanente delle informazioni sonore. Durante la riproduzione, una sorgente luminosa attraversava la pellicola sviluppata, colpendo una cellula fotoelettrica capace di riconvertire il segnale ottico in impulso elettrico, rendendo così nuovamente udibile il suono originario.
Nel supporto ottico ad area variabile (RCA Photophone) la registrazione avveniva grazie a un fascio di luce di intensità costante che illuminava una fessura la cui ampiezza variava in base al segnale di input. Il processo di registrazione ottica restituiva sul supporto una traccia visibile che rappresentava il segnale acustico secondo la sua forma d’onda, ovvero una trasposizione visiva delle sue variazioni di ampiezza nel tempo. Nel caso dell’ottico a densità variabile (Movietone), invece, l’apertura della fenditura era costante, mentre era l’intensità della luce a variare proporzionalmente al segnale in input.
Il nastro magnetico è stato uno dei mezzi di registrazione e riproduzione sonora analogica più utilizzati e duraturi nella storia delle tecnologie audio. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, ha assunto un ruolo di primo piano anche nel settore cinematografico. Il suo funzionamento si basava sull’induzione di variazioni locali nel campo magnetico lungo un nastro flessibile, realizzato con diversi materiali, tra cui triacetato, cloruro di polivinile e poliestere, anche se il più comune era il Mylar, denominazione commerciale del polietilentereftalato. Su questo supporto veniva applicato uno strato sensibile al magnetismo, solitamente costituito da ossido di ferro, distribuito come una sottile vernice sulla superficie del nastro.
I primi modelli di nastro magnetico, comunemente larghi 6,3 mm (un quarto di pollice), operavano a una velocità di avanzamento di circa 76 cm al secondo e consentivano esclusivamente la registrazione monofonica. Con il tempo si affermarono varianti caratterizzate da velocità inferiori, come 38 cm/s o 19 cm/s, e da una gamma più ampia di formati, arrivando fino a nastri da due pollici, particolarmente indicati per la registrazione multitraccia.
La registrazione avveniva per mezzo dell’esposizione del nastro a un campo magnetico variabile, generato da appositi elettromagneti noti come testine di registrazione. L’intensità del campo prodotto dalle testine era direttamente proporzionale al segnale elettrico ricevuto sullo strato magneto-sensibile del nastro, e imprimeva così una traccia permanente del segnale acustico. In fase di registrazione, era possibile applicare diverse curve di equalizzazione, nonché tecniche di codifica come i sistemi Dolby o dBx, con lo scopo di attenuare il rumore di fondo a larga banda.
Degradazione dei supporti ottici
Il principale fattore di deterioramento dei supporti ottici è riconducibile a condizioni di conservazione non ottimali. La temperatura consigliata per una corretta preservazione si aggira intorno ai 4 °C, mentre il tasso di umidità relativa dovrebbe mantenersi tra il 30% e il 50%. La stabilità del supporto varia anche a seconda del tipo di materiale utilizzato come base: nitrato, acetato o poliestere.
Tra le problematiche più comuni vi è il restringimento della pellicola, che può arrivare fino al 10% nei casi più avanzati di degrado. Tale fenomeno è spesso accompagnato, in particolare nei supporti in acetato, dalla delaminazione, ovvero dalla separazione dello strato legante dalla base sottostante. Quando il restringimento si manifesta in modo irregolare o localizzato, si parla invece di distorsione: se non vengono ripristinate adeguate condizioni ambientali, ciò può compromettere l’elasticità del supporto e renderlo fragile, con una significativa perdita di resistenza meccanica. Un ulteriore problema riguarda il deterioramento delle piste ottiche, che possono subire uno sbiadimento progressivo a causa dell’instabilità chimica dei coloranti organici impiegati. Questo scolorimento è spesso accelerato dall’esposizione alla luce, ma può essere aggravato anche da temperature elevate e livelli di umidità non controllati.
Degrado dei supporti magnetici
Il nastro magnetico, se conservato in condizioni ambientali adeguate, può garantire una buona stabilità del contenuto sonoro per lunghi periodi, consentendo numerose riproduzioni senza compromettere significativamente l’integrità del supporto. Tuttavia, qualora le condizioni di conservazione o archiviazione risultino inadeguate, il nastro magnetico può essere soggetto a diversi fenomeni di degrado. Uno dei più rilevanti è la deteriorazione del legante, ossia dello strato che mantiene coese le particelle magnetiche e le ancora al substrato. Tale fenomeno è spesso innescato da un’eccessiva umidità ambientale, che favorisce l’idrolisi: una reazione chimica che altera la struttura molecolare del legante, rendendolo appiccicoso, favorendo l’attrito con le testine di lettura e, nei casi più gravi, causandone il distacco dal nastro.
Un ulteriore rischio è rappresentato dalla deformazione del substrato, ovvero del film su cui è applicato lo strato magnetico. I nastri realizzati in acetato di cellulosa o triacetato, per aumentarne la flessibilità, venivano trattati con additivi plastificanti che, con il tempo, possono cristallizzare o evaporare, causando indurimento e perdita di elasticità. Temperature elevate o umidità fuori controllo possono accentuare il fenomeno, provocando il cosiddetto arricciamento del nastro [7].
La conversione analogico-digitale
Dagli anni ‘90 cominciano a comparire i primi supporti digitali. Le loro caratteristiche, rispetto ai supporti magnetici e ottici, consistono nel non dovere convertire da analogico a digitale il suono; quindi viene semplificato l’iter e la qualità del segnale durante la duplicazione rimane invariata, nel trasferimento su un altro supporto.
Quando i materiali vengono riparati arrivano in sala suono per essere digitalizzati. I materiali che sono stati realizzati prima del Dolby Digital, sia ottici che magnetici sono caratterizzati da una forma d’onda che deve essere convertita in numeri, per effettuare una lavorazione digitale. Seguono due processi: quello di campionamento, cioè la forma d’onda viene trascritta in una sequenza di punti e la quantizzazione che riguarda l’ampiezza del segnale [8].
La fase finale del processo di restauro consiste nell’equalizzare il suono in modo da renderlo il più vicino possibile al periodo storico. Per fare questo occorre proiettarlo e riprodurlo servendosi di tecnologie del tipo, come diffusori acustici utilizzati ad esempio negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, nelle sale cinematografiche. Ma ciò è davvero difficile proprio perché non è così facile recuperare quelle determinate tecnologie.
Solo attraverso un attento equilibrio tra intervento tecnico e rispetto del contesto storico è possibile preservare non solo la comprensibilità del suono, ma anche la sua autenticità culturale. Il restauro sonoro, dunque, non può limitarsi a un’operazione di pulizia acustica, ma deve configurarsi come un atto critico e consapevole, in cui ogni scelta tecnica rispecchi una precisa volontà interpretativa. In definitiva, restituire una traccia sonora significa restituire una testimonianza storica, e con essa la possibilità, per l’ascoltatore contemporaneo, di accedere a un’esperienza uditiva il più possibile fedele a quella originale.
Dialoghi Mediterranei, n. 75, settembre 2025
Note
[1] Michele Canosa, Per una teoria del restauro cinematografico, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale, vol. V, Torino, Einaudi, 2001:1069-1118.
[2] Stella Dagna, Perché restaurare i film?, Pisa, ETS, 2014:49-50.
[3] Ivi: 54
[4] Canosa Michele, ci: 1069-1118
[5] Pasquale Stoppelli, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2019:112.
[6] Se sulla pellicola è presente un graffio, questo si trasformerà nella percezione uditiva di un click, mentre una giunta su pellicola produrrà rumore simile ad un bumb. Il decadimento dell’emulsione chimica comporterà invece delle distorsioni di tutte le frequenze. L’approccio più consono è quello dell’analisi spettrografica del suono, che permette di analizzare piccole porzioni del suono ed intervenire senza danneggiarne altre.
[7] Tra i fenomeni di degrado più gravi si annovera la “sindrome dell’aceto” (Vinegar Syndrome), facilmente riconoscibile per l’odore caratteristico dell’acido acetico. Essa deriva dall’idrolisi del supporto in acetato e porta a una progressiva fragilità del nastro, rendendolo sempre più incline a rotture in caso di flessione o trazione. Una volta innescato, il processo è irreversibile e non esistono attualmente metodi efficaci per arrestarlo.
[8] Per la ricezione del suono oggi abbiamo tre tipologie di scanner: Laser Interface, prodotto in Danimarca, si serve di un laser che può convertire la forma d’onda ottica in un segnale sonoro, Chase Optical Sound Processor, inventato dagli americani circa dieci anni fa, che è capace di segnare il margini della forma d’onda, grazie ad una luce rossa che determina un grafico colorimetro utile per ricostruire il segnale sonoro; Resonances, di produzione svizzera, sfrutta parte della tecnologia del Chase Optical Sound Processor, ma con più precisione, grazie ad un software dedicato. Cfr. Gilles Barberis, Appunti sulla storia del suono cinematografico, Conferenze de Il cinema ritrovato, Bologna, 2008-2021.
Riferimenti bibliografici
Barberis Gilles, Appunti sulla storia del suono cinematografico, Conferenze de Il cinema ritrovato, Bologna, 2008-2021
Brandi Cesare, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977; nuova edizione: Milano, La nave di Teseo, 2022.
Canosa Michele, Per una teoria del restauro cinematografico, in G.P. Brunetta, Storia del cinema mondiale, vol. V, Torino, Einaudi, 2001, pp. 1069-1118
Dagna Stella, Perché restaurare i film?, Pisa, ETS, 2014
Plutino Alice, Tecniche di restauro cinematografico. Metodi e pratiche tra analogico e digitale, Roma, Ed. Dino Audino, 2020.
Read Paul, Mark-Paul Meyer, Restoration of Motion Picture Film, Oxford, Butterworth-Heinemann, 2000.
Stoppelli Pasquale, Filologia della letteratura italiana, Roma, Carocci, 2019.
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Lucia Cassarà ha conseguito a vent’anni la Laurea di II livello in Pianoforte presso il Conservatorio Scarlatti di Palermo, con il massimo dei voti e la lode. Successivamente ha ottenuto la Laurea magistrale in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale presso l’Università di Bologna. Ha collaborato con la Cineteca di Bologna, dove si è occupata della catalogazione dell’archivio musicale appartenuto a Vittorio De Sica. Il suo primo saggio Mozart, Disney & Co. – L’immagine e il suono: la magia del cinema (Ernesto Di Lorenzo Editore), sintetizza la simbiosi musica-immagine dai primi accompagnamenti di musica nel cinema muto fino alla moderna tecnologia di oggi. Tiene conferenze-concerti di musica classica utilizzata in grandi film.
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