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La ricerca etnomusicologica in Sicilia e l’universo sonoro della tradizione nel Val Demone

                                                                                    di Mario Sarica

COPERTINA Disegno Principato

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Dalla natura ineffabile, i suoni e i canti della tradizione orale siciliana vivevano nel tempo e nello spazio avvolgendo in una rete invisibile tutto il vissuto individuale e collettivo, contribuendo così a dare pieno senso allo stare nel mondo. Dai suoni aleatori ai segnali e ritmi di lavoro, fino alle forme musicali propriamente dette, era tutto un paesaggio sonoro cangiante, dalle infinite coloriture, che aderiva perfettamente al ciclico fluire delle stagioni e alla scansione esistenziale, unendo la terra al cielo. Un codice di comunicazione, quello sonoro, che nella duplice valenza di sacro e profano afferiva, in forme e funzioni diversificate, agli ambiti di lavoro agro-pastorali, così come agli spazi cerimoniali e festivi.

Il suono, nel suo formalizzarsi, si riempiva di significati immediatamente leggibili (affettivi, cognitivi, referenziali), facendosi così segno condiviso e alimentando un canale di scambio dialettico, dalle forti tinte emotive quando interferiva con la sfera dei sentimenti e dell’esperienza di fede religiosa, o manifestandosi come essenziale marca sonora, funzionale ai contesti di lavoro. La comunicazione non verbale era dunque un sapere diffuso e fortemente radicato nei modelli di vita tradizionale, essenziale nelle relazioni interpersonali e collettive.

Sul piano performativo, l’articolazione dei suoni e delle forme musicali vocali e strumentali prefigurava un patrimonio di conoscenze peculiari detenuto, in maniera esclusiva, da un gruppo o da persone-leader. Ad essi la comunità riconosceva, nei vari ambiti di pertinenza e mediante un’implicita censura preventiva, la prerogativa della pratica strumentale e vocale nonché la contestuale attribuzione di peculiari qualità interpretative e micro-varianti espressive, tutte comunque riconducibili ad un modello esecutivo di riferimento unanimemente condiviso.

I diversi stili vocali e polivocali adottati nelle molteplici occasioni di canto, le specifiche competenze organologiche richieste per costruire e accordare strumenti da suono e musicali e, ancora, la conoscenza della corretta prassi esecutiva, dei generi musicali e dei titoli di repertorio, presupponevano un lungo apprendistato, posto fuori da qualsiasi schema d’insegnamento regolare. Le conoscenze organologiche, vocali e musicali, si acquisivano infatti dopo un lungo e silenzioso “tirocinio”, coniugando manifeste ed innate attitudini musicali con l’osservazione diretta delle performance di suonatori e cantori di tradizione. La trasmissione del sapere  musicale, nella sua accezione più ampia, si realizzava dunque per imitazione diretta e per vie generazionali, e non necessariamente in seno alla famiglia.

Gli ambiti del lavoro tradizionale, dalla pesca alla pastorizia all’agricoltura all’artigianato, i contesti di festa variamente connotati, la partecipazione alla vita delle confraternite religiose, laiche di mutuo soccorso, erano poi i luoghi deputati entro i quali si “addensavano” le conoscenze specifiche in ordine all’uso degli strumenti musicali e dei diversi modi di cantare.

Stabili e rassicuranti sul piano esistenziale, i valori della tradizione si nutrivano dunque di suoni e canti nel rispetto di forme plurime di espressione che, alla fine dell’Ottocento, appaiono ancora integre e non minacciate dai processi irreversibili di sfaldamento innescati dalla modernità del Novecento, il secolo “breve”, vorace e omologante. Passaggio obbligato per una comprensione piena dell’interazione sociale messa in atto dai codici sonori restano le fonti demo-etno-antropologiche siciliane più autorevoli (da Vigo a Pitrè a Salomone Marino a Cocchiara, fino a Buttitta) che, a partire dalla fine del XIX secolo, ci consegnano una straordinario affresco di vita popolare osservata a tutto campo.

Pervasa da un ritrovato orgoglio regionale, che, almeno all’inizio, risente anche dell’approccio concettuale di matrice positivistica, la monumentale opera sugli usi e costumi del popolo siciliano offre a piene mani puntuali riferimenti anche alle occasioni d’uso degli strumenti da suono e musicali e, soprattutto, al catalogo dei canti. Ciò nonostante, fatta eccezione per lo specifico interesse ai livelli testuali e alla poesia popolare, non si va oltre la mera descrizione etnografica. E ciò per la mancanza evidente di adeguati mezzi tecnici d’indagine e di registrazione sonora, oltre che di pertinenti chiavi di lettura scientifiche.

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E così, oltre al singolare e cospicuo contributo di conoscenza sul patrimonio siciliano di tradizioni musicali che ci deriva dal corpus di Alberto Favara che, in piena stagione demologica, operando un’inevitabile mediazione culturale, trascrive con grafia musicale colta le melodie del popolo, trascurando tuttavia in gran parte la pratica strumentale, per ascoltare i primi documenti sonori della tradizione isolana registrati sul campo dobbiamo risalire nel tempo fino al secondo dopoguerra.

Per l’etnomusicologia italiana che, proprio in quegli anni, liberandosi dalla servitù della musicologia comparata, da cui deriva storicamente, incomincia a definire il suo statuto scientifico, il territorio siciliano costituisce un primo e probante banco di prova. Sotto l’egida del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare, che vede assieme l’Accademia Nazionale S. Cecilia di Roma e la RAI, prima Giorgio Nataletti, nel 1948, poi Ottavio Tiby, fra il 1951 e il 1952 e, successivamente, nel 1954, con una più vasta campagna di ricerca, Diego Carpitella, uno dei padri fondatori dell’etnomusicologia italiana, e il ricercatore americano Alan Lomax, fanno in tempo, prima che la cultura di tradizione scivoli verso la crisi finale, ad affidarci un catalogo sonoro di straordinario interesse, di recente pubblicato in parte su compact disc. A loro si uniranno più avanti, siamo nei primi anni Sessanta, altri studiosi, tra i quali anche il siciliano Antonino Uccello, instancabile ricercatore di testimonianze della civiltà contadina che assiste addolorato e impotente al disfacimento della cultura popolare siciliana in nome del boom economico e della bruciante accelerazione verso l’industrializzazione dell’Italia.

Poi, negli anni Settanta, quasi a titolo di risarcimento morale, giunge la stagione del folk revival, in bilico tra industria discografica di consumo, riproposta di musica tradizionale e ripensamento ideologico e politico del canto popolare e della popular music. Sulla scena siciliana, in quegli anni di fervido dibattito culturale e politico, l’urgenza di un’azione di salvaguardia delle tradizioni musicali siciliane, le più esposte all’afasia e al dissolvimento per la loro vulnerabile “corporeità”, è attestata con impegno ammirevole dal Folk Studio di Palermo voluto e fondato da Elsa Guggino, che opera sul campo con esiti di tutto rilievo, istituendo l’Archivio Etnofonico Siciliano.

Il successivo e maturo interesse nei confronti dell’etno-organologia, ovvero per gli strumenti musicali popolari – siamo ormai negli anni Ottanta – unito ad un approccio interdisciplinare alla “materia sonora” della tradizione siciliana (linguistica, strutturalismo, semiologia, antropologia) apre un ventennio di studi e ricerche sul campo che vede impegnati un gruppo di giovani ricercatori (Pennino, Garofalo, Macchiarella, Staiti, Sarica, Bonanzinga, Fugazzotto), che fanno capo, oltre che al Folk Studio di Palermo, alle due sole cattedre di etnomusicologia universitarie attive in quegli anni a Bologna e Roma, rette rispettivamente da Roberto Leydi e Diego Carpitella. A loro si deve l’aggiornamento della mappa etnomusicologica siciliana che evidenzia, nonostante gli effetti devastanti dell’omologazione culturale, un paesaggio di musica tradizionale davvero insospettabile. E non solo di memoria e decontestualizzata, ma in parte attiva o “rifunzionalizzata”, soprattutto negli ambiti di festa di ogni singola comunità.

E il viaggio che ci apprestiamo a fare nell’universo sonoro del vasto territorio di Val Demone, che si segnala, peraltro, tra le aree siciliane di più rilevante interesse etnomusicologico, vuole restituire, tra memoria e conservazione, passato e presente, un catalogo essenziale  dei suoni e dei canti, nel tentativo di sottrarli alla dimenticanza e al rumore di fondo della nostra convulsa contemporaneità che rischia di sommergerli per sempre.

Tra i segni sonori e vocali più emblematici della tradizione emergono dalle testimonianze raccolte sul campo quelli connessi alle scadenze di lavoro stagionali, peraltro i primi a dissolversi sotto l’incalzare dei nuovi modelli di sviluppo socio-economico. L’ampio e variegato repertorio strumentale e vocale correlato agli ambiti ergologici, più specificamente, si dispiegava dai suoni aleatori dei campanacci degli ovini e bovini, ai segnali di lavoro emessi dalle rogne o trunmmi (trombe di conchiglie), alla scansione dei ritmi di lavoro, fino alla parola cantata, monodica e polivocale, configurando un codice linguistico-sonoro che esperiva funzioni segnaletiche, ritmiche ed espressive primarie, variamente connotate a livello verbale e performativo.

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Tra i titoli del repertorio da annotare i canti e i ritmi di lavoro di tonnara (cialoma), le orazioni e i canti di mietitura e trebbiatura (rrazioni, Sarvi Rrigina, mutteti di lu pisatu), i canti monodici e polivocali di vendemmia (vinnignarota, cofana- ra), i canti di carrettiere fortemente melismatici, i ritmi e segnali di lavoro, le grida dei venditori (abbanniati) e dei banditori civici. Un repertorio ampio che esemplifica comportamenti musicali individuali e collettivi inerenti anche alla sfera individuale dei sentimenti e delle emozioni, oltre ad essere pienamente funzionale alle diverse istanze comunicative sul lavoro. Da osservare anche la quasi esclusiva competenza maschile del sapere sonoro-musicale connesso alle occasioni di lavoro, perché maschile era in gran parte il dominio del lavoro e delle sue regole nella tradizione. La figura femminile, tuttavia, quando compare sulla scena lavorativa, sembra rivendicare pari dignità con l’uomo rispetto all’assunzione di comportamenti musicali. E ciò si manifesta soprattutto in occasione dell’esecuzione di canti polivocali, stornelli e canzuna, che esaltano, con il ricorso ad un livello verbale quasi sempre lirico, la funzione espressivo-simbolica riconducibile ai rapporti uomo/donna, dunque ai sentimenti d’amore e di sdegno, oltre ad un comune sentire sacro e profano (Chi ti lu conza u lettu a matina, c’è na ragazza figghia di massaru).

La migrazione stagionale connessa alle periodiche scadenze agricole (la mietitura, soprattutto, nelle ampie marine dell’interno, ovvero le distese senza soluzione di continuità di campi coltivati a grano e cereali in genere), contribuiva poi alla circolazione di forme monodiche, bivocali e polivocali esclusive di ogni singola comunità, quali ad esempio a nicusiana (Nicosia), a liunfurtinisa (Leonforte), a baccialunisa o nota longa (Barcellona Pozzo di Gotto), a santaluciota (S. Lucia del Mela), a ciuminisana (Fiumedinisi), all’arcarisa (Alcara Li Fusi), oltre che delle diverse lezioni della Sarvi Rrigina (Salve Regina), forma esemplare di devozione religiosa che invadeva, sacralizzandoli, anche gli spazi della fatica lavorativa.

Anche sul versante dello strumentario musicale, il territorio di Val Demone offre un campionario di assoluto interesse, circoscrivendo vere e proprie aree elettive in relazione alla conoscenza e prassi di taluni strumenti, quale ad esempio la cuspide nord-orientale dei Peloritani che si segnala per il forte radicamento degli aerofoni pastorali. Eredità organologica che ci riporta alle antiche culture del Mediterraneo, la famiglia degli strumenti pastorali peloritani che conserva, nonostante la fatale desertificazione del territorio, una significativa vitalità nei residui spazi di lavoro e di festa di matrice tradizionale – principalmente la tosatura annuale delle pecore – comprende i flauti diritti, di canna, a bocca zeppata, semplici e doppi (friscaletti e frauti a paru), i clarinetti di canna, semplici e doppi (zammaruni o cannizzoli) e la zampogna a paro (ciaramedda), massima espressione del sapere organologico pastorale.

Strumento simbolo del Natale, così com’è attestato anche dalla cospicua iconografia siciliana della Natività a partire dalla seconda meta del Cinquecento, la zampogna a paro ci racconta non solo di una lunga e complessa vicenda organologica e di un’offerta musicale del pastore-suonatore al Bambin Gesù di tradizione secolare, ma anche degli stretti legami con la scrittura e la prassi musicale colta. Ne sono soprattutto testimonianza, fra Cinque e Seicento, le pastorali eseguite all’organo, fra le quali merita di essere annotata quella di Bernardo Storace, vice maestro della Cappella musicale di Messina intorno alla metà del Seicento. Risonanze ed echi del passato che emergono ancora oggi nell’esecuzione della tipica novena messinese (sonata strumentale per zampogna a paro), a conferma di una forte e tenace resistenza dei valori musicali tradizionali.

Fra gli aerofoni pastorali, ad eccezione del flauto diritto di canna, che grazie alle sue qualità virtuosistiche domina incontrastato la scena musicale dei gruppi folkloristici, la zampogna a paro è quello che vanta ancora oggi una pratica attiva piuttosto diffusa, e in taluni casi livelli musicali e di sapere costruttivo di eccellenza, soprattutto nell’area messinese. L’uso dello strumento, irradiandosi dall’area peloritana, giunge sui Nebrodi (Raccuia, Tortorici e Galati Mamertino) e, attraverso le vie dell’emigrazione pastorale, si spinge fino alla cospicua colonia di suonatori di Maletto, sul versante settentrionale dell’Etna, per poi registrare isolate presenze sul territorio siciliano, in vista dell’altra “isola di conservazione di prassi strumentale” di Licata.

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 Dalla duplice natura, sacra e profana ad un tempo, la zampogna a paro, oltre ad essere tipica e suggestiva espressione del Natale, ha svolto in passato un ruolo dominante di strumento di festa all’interno dei contesti di lavoro, oltre che in occasione del Carnevale, accompagnando il canto solistico e a più voci (a baccialunisa, stunnelli, a cofanara) e il tipico balletto dei Peloritani. Di esclusiva pertinenza maschile, questa danza di probabili origini pastorali mette in scena, nelle figurazioni affidate agli ampi gesti delle braccia e delle mani, una sorta di duello rusticano (a schemmata).

Di particolare rilievo anche le funzioni cerimoniali assolte dalla zampogna in occasione di talune feste tradizionali, quali quella dell’Alloro di Tortorici, che apre i festeggiamenti in onore del patrono S. Sebastiano, della Madonna della Catena a Librizzi, che si colora singolarmente anche di valenze rituali e magiche, e, ancora, per il pellegrinaggio all’eremo di Crispino per onorare u capiduzzu i maria (il sacro capello,  reliquia della Madonna) portato in processione fino a Monforte S. Giorgio, che vede la partecipazione, in segno di devozione, di decine e decine di ciaramiddara provenienti dai villaggi dei Peloritani, fino alla Madonna del Castello di Palma di Montechiaro, la domenica in Albis, con l’esibizione di zampogne a paro “addobbate” a festa.

Tra gli aerofoni della tradizione da segnalare anche l’oboe popolare, nell’etimo dialettale pifara o bifira, che compare con insistenza nei resoconti di festa, soprattutto nell’area nebroidea centrale (S. Salvatore di Fitalia, Frazzanò e S. Marco d’Alunzio). Appartenente alla più ampia famiglia degli oboi tradizionali diffusi in tutto il bacino del Mediterraneo, la bifira, probabile eredità della dominazione araba, alcuni la mettono in relazione ai Normanni, svolgeva compiti musicali cerimoniali in contesti festivi processionali, avvalendosi del supporto ritmico dei tamburi cilindrici a bandoliera, così com’è attestato fino agli  anni Quaranta del Novecento a S. Marco d’Alunzio.

Dalla spiccata memoria arcaica, che rimanda alle più antiche età dell’uomo mediterraneo e al dominio assoluto della mitologia, la tromba di conchiglia, più semplicemente conosciuta nella tradizione come brogna o trumma, è organologicamente e asetticamente campionata come strumento da suono, dunque da segnale, in ambiti di lavoro contadino e di pesca, anche se, legittimamente, in alcuni casi rivendica una dignità para-musicale. Ci riferiamo, più specificamente, all’uso della conchiglia nell’ambito del fistinu, azione rituale sonora estemporanea inscenata dinanzi alla casa del vedovo risposato (charivari), confinata ormai nella sfera dei ricordi delle generazioni più anziane e, soprattutto, alla partecipazione di un gruppo di suonatori di brogna alla sfilata carnevalesca dell’Orso e della corte principesca il Martedì Grasso a Saponara, a ricordo della battuta di caccia alla feroce selva, posta a fondamento del corteo.  Mescolandosi ai suoni aleatori e trasgressivi del Carnevale, i suonatori infatti rievocano sonoramente la leggendaria vicenda, intonando all’unisono un ostinato ritmico, evidenziato dal rullare del tamburo, annunciante l’arrivo della paurosa maschera carnevalesca, che alterna a gesti di socialità (estemporanei balli con le donne) aggressioni improvvise alle “prede” femminili.

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L’orizzonte della festa nella cultura di tradizione del Val Demone era un tempo segnalato anche dai suoni dell’organetto diatonico a doppia intonazione. Definito molto opportunamente come “strumento musicale contadino dell’era industriale”, perché di produzione seriale, l’organetto dalla natìa Castelfidardo fa le sue prime apparizioni in Sicilia, soprattutto nell’area nord-orientale, intorno ai primi anni del Novecento, affermandosi in breve tempo, grazie alle sua versatilità musicale, come strumento elettivo di festa. Mutuando compiti musicali prima di esclusiva pertinenza della zampogna, quale ad esempio l’accompagnamento al canto solistico, l’organetto veicola i “nuovi” balli, la triade del liscio (polka, valzer, mazurka), contribuendo a rinnovare il repertorio, quindi a “contaminare” i generi musicali della tradizione, secondo un processo di scambio e sedimentazione dei materiali musicali di diversa provenienza tipico della cultura popolare.

Tra le aree di forte radicamento dello strumento, da segnalare quella di S. Lucia del Mela e di Fiumedinisi, rispettivamente sul versante tirrenico e su quello ionico della dorsale dei Peloritani, dove è facile ancora oggi imbattersi in suonatori-virtuosi di organetto, esemplari anche nell’accompagnare i versi d’amore della Santaluciota (secondo lo stile di canto S. Lucia del Mela) e della Ciuminisana (secondo lo stile di canto di Fiumedinisi), intonati da voci maschili e/o femminili.

Soffermandoci ancora nell’ambito della festa, e soprattutto sui repertori da ballo, inevitabile è il riferimento alla chitarra, al mandolino e al violino, la cui prassi esecutiva competeva abitualmente per tradizione agli artigiani (barbieri, falegnami, fabbri, calzolai, etc.). Strumenti detti “secondari”, perché non appartenenti in maniera esclusiva alla tradizione locale, i cordofoni della tradizione (violino, mandolino, chitarra) formavano le orchestrine da ballo richieste in occasione di feste interfamiliari (battesimi e matrimoni) e comunitarie (Carnevale), ancora attive in molti centri nel segno di una tenace fedeltà alla memoria dei padri. Posti in un’area di semi-alfabetizzazione musicale, i suonatori-artigiani alimentavano la prassi esecutiva anche attraverso l’ascolto dei dischi a 78 giri incisi dai nostri emigranti in America nei primi decenni del Novecento. E ciò contribuì in maniera decisiva all’aggiornamento del repertorio e alla diffusione dei nuovi gusti musicali e di inconsueti organici strumentali, comprendenti anche gli strumenti da banda (clarinetti, basso tuba, trombone, etc.).

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Figure musicali della tradizione a “tempo pieno”, dalla cui pratica quotidiana traevano l’unica fonte di reddito per sé e la propria famiglia, erano invece i cosiddetti nuviniddari o sonaturi orbi e i cantastorie. Familiari e consueti soprattutto all’interno delle aree urbane, i nuvinnidari  erano dediti, su committenza, all’esecuzione delle novene ai Santi, Madonne, al Bambin Gesù, avvalendosi dell’accompagnamento strumentale del violino e/o della chitarra (l’ultimo dei grandi novenatori messinesi è stato mastru Vitu Pagano, la cui “eredità” è passata al figlio Felice, eccellente violinista); mentre i cantastorie – fra gli altri ricordiamo Orazio Strano, Ciccio Busacca, e Vito Santangelo, quest’ultimo ancora in attività assieme ad altri della nuova generazione –  peregrinavano di piazza in piazza a “recitarcantando” storie esemplari d’amore e di morte e di eroi tratti dalla cronaca quotidiana.

Il viaggio attorno ai suoni strumentali che aderivano al paesaggio fortemente antropizzato del Valdemone scandendo forme di comunicazione sonora e musicale essenziali e stabili nei processi di interazione sociale e di rifondazione periodica della propria identità individuale e collettiva, non può certo ora sottrarsi dall’incontro con i tamburelli e i tamburi cilindrici a bandoliera, essenziali al linguaggio sonoro della tradizione.

Deputati al supporto ritmico degli strumenti solisti (flauto, zampogna, organetto), l’uso dei tamburi a cornice monopelle con sonagli, ovvero dei tammureddi, sui quali è possibile leggere anche remoti connotati simbolico-rituali, si coniugava spesso al femminile. Erano infatti anche le donne a suonarlo, talvolta con più abilità e proprietà di linguaggio rispetto agli uomini. In mancanza di strumenti solisti era poi sufficiente il tamburello a tenere u sonu, a sostenere cioè con regolari pulsazioni ritmiche il ballo. E il tamburello era anche richiesto sulla scena del Muzzuni di Alcara Li Fusi, rituale di fertilità di matrice arcaica, dominato dalla figura femminile in ogni sua sequenza cerimoniale. Ed erano infatti solo le donne ad accompagnare al tamburello i canti polivocali d’amore intonati da gruppi di uomini dinanzi alle “are” allestite per celebrare nella notte del solstizio d’estate il culto al Muzzuni, una brocca mozzata ricoperta da preziosi tessuti tempestati di gioielli d’oro e ricolma di spighe di grano e di lavanda, espressione eloquente di ricchezza e fertilità.

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L’energia sonora e l’espressività ritmica dei tamburi cilindrici a bandoliera (tammuru o tabbala, dalla radice araba tabla) continua a marcare, in occasione della vigilia e del giorno di festa, ancora in molti centri del Valdemone, i percorsi processionali di Santi e Madonne e anche quelli del Venerdì santo, replicando nel segno della tradizione un compito cerimoniale avvertito ancora come elemento sonoro connotativo irrinun- ciabile, sebbene sempre più disturbato e offuscato dai suoni della immancabile banda musicale.

Alle consuete funzioni cerimoniali svolte dai tamburinai – è possibile osservarli in molte località del versante ionico dei Peloritani (Mongiuffi Melia, Limina, Savoca, Fiumedinisi) e su quello tirrenico, anche nell’area dei Nebrodi – in alcuni contesti festivi se ne aggiungono di altre, esclusive e singolari. Pensiamo al suono del tamburo unito a quelle di due campane, ovvero alla cosiddetta Katabba o Campanata di S. Agata a Monforte S. Giorgio, un arazzo poliritmico di rara bellezza sonora, che rievoca, secondo il racconto popolare, la cacciata degli Arabi da parte del gran Conte Ruggero nell’XI secolo; o al rullare del tamburo che preannuncia l’arrivo del Bamminu casi casi a S. Marco d’Alunzio, o al tamburinaio sul mulo che apre il pellegrinaggio della comunità di Capizzi a Cannedda, che rende devoto omaggio a S. Antonio di Padova venerato in un edicola votiva nel bosco di Caronia o, ancora, alla performance di grande impatto spettacolare di oltre venti tamburinai in sgargianti ed eleganti costumi di confraternita a Gangi in occasione del corteo della domenica delle Palme.

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Restando in tema di settimana Santa, prima di lasciare l’universo sonoro del Val Demone, oltre a segnalare la singolare trasgressione sonora delle trombe dei Giudei di San Fratello e il ricorrente e “dolente” suono delle tròcculi, volgiamo uno sguardo finale verso il frastagliato arcipelago di polivocalità, rigorosa e suggestiva forma di canto che affonda le sue radici lontano nel tempo. Scomparso da tempo dai contesti di lavoro tradizionale ormai dissolti, dove rispondeva anche bisogni di socializzazione e di compensazione psicologica alla fatica del lavoro, il canto a più voci –  a parti o ad accordo – sopravvive miracolosamente nei contesti rituali della Settimana Santa, segnalandosi come singolare e tenace espressione di religiosità popolare in molti centri: fra gli altri,  Mistretta, Cerami, Capizzi, S. Stefano di Camastra, Alcara Li Fusi, Barcellona Pozzo di Gotto, Bronte, Troina, Assoro, Pietraperzia.

Caratterizzato da ardite e virtuosistiche escursioni vocali del solista o dei solisti, con tipici caratteri di vocalità popolare (voce sforzata, quasi gridata, solitamente di testa), i canti della Settimana Santa operano un’impressionante dilatazione sonora dei versi intonati dalla prima voce, la cui crescente tensione emotiva si esalta nella risposta ad accordo delle altre voci del gruppo. Si esprime così per intero l’intensa valenza drammatica del canto che si amplifica nello spazio processionale sacralizzandolo, e rendendolo immediatamente percepibile come continuum sonoro-penitenziale a tutti i fedeli. È interessante poi rilevare che il rapporto tra il livello verbale e vocale, nel caso di ricorso a testi dialettali, quindi di un codice linguistico familiare, pur mantenendo immutati i profili e i caratteri del modello polivocale si configura paritario, non raggiungendo gli eccessi della dissoluzione della parola a favore della dimensione vocale riscontrata quando la tradizione adotta testi liturgici in latino, quali lo Stabat Mater (S.Stefano di Camastra), Popule Meus (Assoro, Cerami), Miserere (Longi, Barcellona Pozzo di Gotto),Vexilla Regis (Barcellona Pozzo di Gotto) Jesu (Novara di Sicilia, Casalvecchio Siculo).

La parola cantata dei testi dialettali evidenzia infatti nuclei narrativi che rivelano con crudo realismo e con accenti di sofferenza umana, specchio del vissuto quotidiano, il martirio di Cristo e l’immenso sconforto della Madre Addolorata per la crudele e ingiusta fine del figlio, così com’è attestato esemplarmente da I doli du Signuri (Alcara Li Fusi), Li parti di la cruci (S. Stefano di Camastra) e Lu Venniri di mazzu (Tusa).

I canti della settimana Santa, canale privilegiato di mediazione con la potenza trascendentale, si configurano dunque come singolare esperienza di preghiera catartica in grado di far rivivere l’evento salvifico in una dimensione mitica, attraverso la quale si ritorna ad essere testimoni oculari della Passione di Cristo, della sua morte e della sua risurrezione. Il canto opera esemplarmente una congiunzione-riappropriazione tra la memoria del passato e l’immagine dell’umanità redenta, saldando nella sospensione della precaria scansione del quotidiano il tempo della vita e il tempo del mondo.

Dialoghi Mediterranei, n.19, maggio 2016
 Riferimenti bibliografici
S. Bonanzinga, Tradizioni musicali in Sicilia, Palermo 1995.
S. Bonanzinga, Etnografia musicale in Sicilia, 1870-1941, Palermo 1995.
R. Leydi-F. Guizzi, Le zampogne in Italia, Milano 1985.
R. Leydi-F. Guizzi, Strumenti musicali e tradizioni popolari in Italia, Roma 1986.
R. Leydi-F. Guizzi, Strumenti musicali popolari in Sicilia, Palermo 1998.
G. Nataletti (a cura di), La ricerca e lo studio dei linguaggi musicali della Sicilia dal 1948 al 1969 attraverso l’opera del CNSMP, Roma 1970.
M. Sarica, Strumenti musicali popolari in Sicilia – prov. di Messina, Messina 1994.

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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997).

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