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“La lingua è di chi la strapazza”. Bisticcio tra un critico e un anatomista

Sir Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, olio su tela (part.), Londra, Holland House

Sir Joshua Reynolds, Ritratto di Giuseppe Baretti, olio su tela (part.), Londra, Holland House

di Aldo Gerbino 

La ‘scoperta’ della Vita di Benvenuto Cellini (1500-1571), scritta “di sua mano propria” e registrata il 15 dicembre 1763 dal focoso critico letterario Giuseppe Baretti, avvia una convulsa trama d’interventi critici sull’opera dello scultore e orafo fiorentino. Pertanto non può non essere presa, nella giusta considerazione, la ‘prefazione’ di Antonio Cocchi 1 alla “Vita” del Maestro 2 che registriamo nei suoi Discorsi toscani (Bonducci 1762), come “Discorso decimo, o sia prefazione alla vita di Benvenuto Cellini”. Nella «Frusta letteraria» il torinese Baretti (ancor noto come Aristarco Scannabue) fa brillare il “caso Cellini” asserendo con decisione: «Già ho detto che Benvenuto Cellini ha scritto un meglio stile che non alcun altro italiano; uno stile più schietto e più chiaro, perché più secondo l’ordine naturale delle idee, le quali non ne presentano mai il verbo prima del nominativo, e non ce lo collocano mai in punta a’ periodi e a una gran distanza da quello».

La biografia e l’autobiografia celliniana ci offrono, in larga misura (dal Vasari 3 al Cocchi alla critica odierna), una catenaria d’interessi critici, collocati particolarmente sul codice espressivo dell’originalità, affidata e confezionata da un linguaggio personale, da “boschereccio” come amava definirsi lo stesso Cellini, per quella sua abilità a offrirsi in una sorta di impavido manufatto a tutto tondo, e ancora per quel suo valore intrinseco, già messo con forza in evidenza da Bruno Maier (per il quale la “Vita” del Cellini è «un capolavoro di stile» 4), e dove i termini appaiono composti là dove debbono stare, fuori da particolari ambiguità letterarie, con climax di cuspidi oscillanti tra celebrazione e denigrazione, ornate, anzi percorse, da singolari aggettivazioni, termini iperbolici o vezzeggiativi o diminutivi (“poltroncione”; “Georgietto Vassellario” [per “Giorgio Vasari”]; “pazzericcio”).

“Benvenuto Cellini” (da un Ritratto di Giorgio Vasari), incisione di Mauritius Steinta, 1829.

“Benvenuto Cellini” (da un Ritratto di Giorgio Vasari), incisione di Mauritius Steinta, 1829.

La ‘scoperta’ barettiana della Vita dà così la stura ad un vorticoso fluire di giudizi etico-critici sull’artista e sull’uomo resi a volte enfatici, non raramente estremi. Tra questi, quello che attiene alla negromanzia, alla presunta o particolare disposizione medianica dell’artista, indugiando attorno al suo involucro di gran visionario. Cellini sorprenderà, e non poco, lo stesso Ercole Chiaia per quel ‘fregiarsi’ «de la sua comunicazione con gli invisibili». Sembra, egli scrive, «che le sue insolenze e intemperanze non siano altro che l’affermazione continua de la superiorità del genio su la fortuna e il potere», e per quell’utilizzare, quando le piaghe della vita si fanno urenti, una “fantasima tutelare” pronta a salvarlo dai tentativi di suicidio nelle prigioni di Castel Sant’Angelo e dalle difficoltà emerse nella fusione del Perseo. A leggere tali periodi della sua autobiografia, in tanta parte votata ad uno smalto aretinesco, «mi par di riudire – annota Chiaia – un di quei racconti con che le vecchie fantesche di casa paterna mi addormentavano di paura quand’ero bambino» 5.

Se Girolamo Tiraboschi tiene in grande considerazione il lavoro di scrittura del Cellini 6, per Parini (1801), la Vita rappresenta «una delle cose più vivaci che abbia la lingua italiana, sì per le cose che descritte vi sono, sì per il modo». Costui – aggiunge – «è specialmente mirabile nel dipingere al vivo con pochi tratti i caratteri, gli affetti, le fisionomie, i moti e i vezzi delle persone» 7. E De Amicis, assumendo in pieno le asserzioni di Vittorio Imbriani per cui «la lingua è di chi la strapazza», parlerà di: «Giovinezza eterna, certamente; poiché non possiamo raffigurarci anche nell’avvenire più remoto, Benvenuto Cellini invecchiato, fuorché immaginando invecchiata, e anche un po’ istupidita, l’umanità». Lo scrittore dubita «bensì per le mutate condizioni della vita, e in qualunque forma abbiano ancora a mutarsi, si possa mai più produrre un originale d’uno stampo così netto e così profondo, e scrivere un libro così riboccante di vita, così limpidamente sincero, tutto così sonante di lavoro, e di battaglie bello d’ingenua bellezza e sfavillante di coraggio e di gloria»8.

Il giudizio dell’anatomista e medico toscano sulla Vita fa emergere quella cautela per come: 

«a questo fine conducono certamente l’istorie più vere, dalle quali tutte con evidenza si comprende, essere gli uomini di lor natura malvagi, ove qualche interesse non gl’induca ad operare altrimenti. [...] Ma vedendosi in essa manifestamente in quanti pericoli e difficoltà conducano i troppo sinceri parlare, le maniere aspre risentite, e l’implacabili sdegni, di cui si vede che si dilettava il nostro Autore; io non dubito che questa lettura sia molto per giovare alla docile gioventù anche nel costume, portandola ad amare piuttosto i dolci e piacevoli modi, come più idonei a cattivare la benevolenza degli uomini» 9. 
- Profilo di ‘Antonio Cocchi’ in Incisioni di And. Scacciati, antiporta del I vol. dei “Discorsi Toscani”, 1761

Profilo di ‘Antonio Cocchi’ in Incisioni di And. Scacciati, antiporta del I vol. dei “Discorsi Toscani”, 1761

È il contrasto tra bene e male, raccolto dalle fosche tinte celliniane, ad esercitare per Cocchi un effetto pedagogico, una sorta di terapia d’urto sulla psiche giovanile. Baretti taccia, con icastica durezza, l’incipit di Antonio Cocchi; afferma: «La prefazione però postagli in fronte dal Cocchi e qui ristampata, come ho già accennato in altro luogo, è una cosa insulsa e melensa, non avendo il morto scrivere del Cocchi in tale prefazione, alcuna proporzione collo scrivere vivo vivissimo, e tutto pittoresco di Benvenuto Cellini nella sua Vita» 10.  Di contro più vigili, sul piano dell’equilibrio, erano stati i giudizi critici sulle ‘prefazioni’ del mugellano 11 Cocchi relative ai Discorsi d’Anatomia di Lorenzo Bellini 12, dove si espungono tratti salienti per un aggiornato volto dell’allievo del Redi e sulla sua “bizzarra eloquenza”. 

«Con l’aiuto di queste prefazioni», asserisce Baretti, «noi possiamo non tanto acquistare un’idea di que’ postumi discorsi del famoso Bellini, quanto del suo carattere personale. Ma chi crederebbe che l’acquisto di tale idea, invece di riuscire vantaggioso alla memoria di quello insigne filosofo, lo è anzi dannevolissimo? Secondo i legittimi documenti recati dal Cocchi in quelle due prefazioni, noi vediamo che non solo i postumi discorsi del Bellini furono escrescenze, anzi che frutti del suo ingegno, ma vediamo eziandio che l’autor loro diventò uomo di bassa mente e di vil cuore, tosto che s’ebbe sgravato il cervello di quell’opere latine che gli ottennero tanta fama nella letteraria repubblica»13. 

Più avanti accusa il Cocchi di “prosopopea” per l’analisi esposta nel Discorso del vitto pitagorico per uso della medicina 14: «… checché si potesse in tal caso dire delle varie dottrine di Pitagora, io so che mi faccio moltissimo beffe di quella prosopopea, con cui il Cocchi insiste in questo suo discorso sul nostro assoluto bisogno d’astenerci moltissimo dal vitto animale e d’empierci le pancie d’erbami e di latte». Dunque, un vistoso atteggiamento critico sancisce quell’abito del polemista torinese che spesso fa mostra di sé; egli è figura emblematica del Settecento: l’antivolteriano per eccellenza, il borghese vestito d’una verve ‘neo-reazionaria’, vivida, pur sconfinando con frequenza nel fluido incessante della maniera. Infatti, annota Franco Fido, 

«niente sembra mancare, nella vita e nelle opere del Baretti, di quel che occorre per vedere in lui un tipico rappresentante della civiltà letteraria settecentesca. Borghese vissuto dei frutti della sua penna, viaggiatore curioso, giornalista e polemista plurilingue, in un’epoca di prospettive cosmopolitiche e di gazzette, il Baretti si associò e si oppose ai protagonisti della cultura europea del suo tempo, Johnson e Voltaire» 15. 
Frontespizio I vol. dei “Discorsi Toscani” del Cocchi, 1761

Frontespizio I vol. dei “Discorsi Toscani” del Cocchi, 1761

Un incontro e uno scontro, comunque, che riconsegnano, attraverso la rete linguistica intessuta dalle scansioni polemiche e analitiche, le vivaci pellicole degli interessi del Cocchi: l’anatomia di cui fu lettore, presso lo Studio fiorentino, nel 1763, anno di nascita di un insigne interprete della scienza medica, Domenico Cotugno, lo studioso pugliese che contribuì con i suoi studi e la sua clinica alla grandezza dell’ateneo napoletano 16. A Cocchi non mancarono gli interessi, soprattutto quelli indirizzati alla medicina interna, ai temi inerenti all’alimentazione; e, ancora: dalla speculazione storico-critica del pensiero scientifico fino agli aspetti socio-antropologici e letterari, contribuendo, in tal modo, a modulare, nell’ambiente riformatore della cultura scientifica settecentesca (in cui vivace era il dibattito sulle vaccinazione antivaiolosa) 17, un libero, quanto proficuo, travaso di saperi il tutto versato nella forza trascinatrice dell’architettura illuministica. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023

Appendice

Antonio Cocchi, Discorso decimo: o sia prefazione alla vita di Benvenuto Cellini
«Il gradimento, che sogliono incontrare le notizie de’ Professori del Disegno appresso coloro, che le belle arti amano e coltivano, de’ quali in questo erudito secolo è grande il numero, mi fa credere che laudevole possa parere omai l’impresa già per un secolo e mezzo negletta, di pubblicar con le stampe la Vita di un sì eccellente artefice, qual fu Benvenuto Cellini, uno de’ migliori allievi dell’insigne Scuola Fiorentina: e tanto più di ciò mi lusingo, quanto meno trovo parlato di lui nell’istorie finora pubblicate, per altro con molta diligenza scritte e raccolte su tale argomento, S’aggiunge al pregio della novità un altro più raro, cioè l’essere questi racconti, sommamente autentici, come scritti da lui medesimo in matura età, e col principal riguardo all’ammaestramento, e utilità altrui, nell’ingegnose opere delle arti, ch’egli ottimamente possedeva. Vi sono però ancora moltissime circostanze, che hanno relazione co’ più importanti punti dell’Istoria universale di quei tempi, avendo costui avuto occasione, o per l’esercizio di suo mestiero, o per lo continuo moto in cui visse, di parlare o di trattare con molti de’ più illustri Personaggi del suo secolo, onde anco per questo rendesi quest’Opera più considerabile: osservandosi pur troppo, che dalle minute azioni, e familiari discorsi degli uomini può meglio ritrarsi il verace carattere di lor costume, che dal composto contegno nelle azioni loro più solenni, o dalla pittura per lo più ideale, che ne fanno le maestose istorie.
Non voglio però dissimulare, che per entro a questi racconti molte cose sono sparse in biasimo altrui, alle quali non va forse prestata intera fede; non perché l’autore non sembri assai ardito amico del vero, ma perché rapportandosi esso alla fama vaga, e sovente fallace, o alle conietture, può essere stato senza sua colpa in inganno: né la sola sua maldicenza potrebbe dar fastidio ad alcuno, ma le incredibili cose, altresì, ch’ei racconta, forse gli scemerebbero l’autorità; se non si riflettesse che tutto ciò può aver egli detto di buona fede credendo averle veramente vedute, quando realmente non furono altro che sogni o illusioni d’un’offesa fantasia. Così vanno intesi i suoi incantesimi, ov’ei confessa che furono adoprati velenosi profumi; e le sue visioni, ove l’infermità, il disagio, o qualche saldo e pungente pensiero, e più di tutto la solitudine, e la continuazione perpetua nell’istessa situazione di corpo, non gli lasciava affatto distinguere il sonno dalla vigilia: il che è credibile, che accaduto anche sia a molti altri savj e onorati uomini, sull’asserzione de’ quali si fondano le narrazioni di tanti famosi avvenimenti contra l’eterne, immutabili leggi della Natura.
Non vorrei nemmeno che altri mi condannasse, per aver reso pubblico uno scritto, ove alcune delle narrate azioni o dell’Autore istesso, o dei suoi contemporanei son di rio esempio, anzi che no: parmi che molto utile sia sempre per essere ad ognuno il diventare per tempo esperto de’ vizj umani, non meno che del valore; e che gran parte cella prudenza sia il sapere evitare i danni, che troppo spesso apporta il facilmente fidarti alla mal supposta da alcuni natural bontà del cuore umano: della qual perniciosa fiducia più presto che aspettar che ci spogli la lunga esperienza del commercio con gli uomini, meglio sia, s’io non m’inganno, a spese altrui imparare a deporla sul bel principio. A questo fine conducono certamente l’istorie più vere, dalle quali tutte con evidenza si comprende, essere gli uomini di lor natura malvagi, ove qualche interesse non gl’induca ad operare altrimenti. Sicché se questa istoria conferma notabilmente tal sentimento, io crederei niun biasimo doverne venire a me che la pubblico. Ma vedendosi in essa manifestamente in quanti pericoli e difficoltà conducano i troppo sinceri parlari, le maniere aspre risentire, e l’implacabili sdegni, di cui si vede che si dilettava il nostro Autore; io non dubito che questa lettura fu molto per giovare alla docile gioventù anche nel costume, portandola ad amare piuttosto i dolci e piacevoli modi, come più idonei a cattivare la benevolenza degli uomini.
Ho conservato esattamente (eccetto che in alcuni pochi periodi nel principio, che malamente intendere si potevano) la struttura del discorso, qual’io l’ho trovata nel MS. benché in alcuni luoghi qualche poco diversa dall’uso stabilito. L’Autore confessa non avere avuta l’erudizione delle lettere latine, le quali sogliono assuefare a una costante e fissa forma di parole; ma contuttociò condonandogli quelle piccole negligenze, si può dargli la lode d’esprimer tutto con molta facilità e vivezza, e benché in stile umilissimo e rimesso, poco sembra discostarsi dalla comune eloquenza de’ migliori Scrittori Italiani: pregio proprio e naturale del volgar fiorentino, col quale è impossibile lo scrivere rozzamente, avendolo da qualche secolo un tacito consenso degli altri popoli d’Italia scelto, come più culto e più leggiadro, e consacrato al nobile uso de’ pubblici scritti.
Tutto ciò ho creduto necessario avvertire per procacciarmi più facilmente la vostra approvazione. Leggete, e vivete felici» 18.    
Note 
[1] Del mugellano Antonio Cocchi (Benevento 1695-Firenze 1758), medico e scienziato di ampia fama, sodale del Newton, ammiratore del Voltaire e frammassone, Giuseppe Marc’Antonio Baretti (Torino 1719-Londra 1789), critico, polemista, studioso veemente e acuto, aveva già recensito negativamente il discorso Del Matrimonio (Londra, 1762). Sul Cocchi cfr. Enrico Coturri, Antonio Cocchi (1695-1758) nel secondo centenario della morte, in “Castalia, rivista di Storia della Medicina”, XIV, 4, 1-11, 1958.
[2] “Prefazione” della vita di Benvenuto Cellini scritta da lui stesso, pubblicata in Colonia (ma Napoli) da Renato Martean 1728. Tra gli altri interessi squisitamente letterari cfr. la Lettera sul Paradiso perduto di Milton, s.d.
[3] Giorgio Vasari, Le Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori, e Architettori, Appresso i Giunti, Firenze 1568.
[4] Bruno Maier, Umanità e stile di Benvenuto Cellini scrittore, Trevisini, Milano 1952.
[5] Francesco Zingaropoli, L’opera di Ercole Chiaia, Ed. Luce e Ombra, Milano 1908: 211-220.
[6] Girolamo Tiraboschi, Storia della Letteratura Italiana, 1772-1781.
[7] Giuseppe Parini, Princìpi delle belle lettere. In Parini, Opere, a cura di Francesco Reina, Vol. V: 203, Milano 1801-1804.
[8] Edmondo De Amicis, Le memorie di Benvenuto Cellini, III: 193-207, in: “Ultime pagine – Cinematografo cerebrale”, voll. I-III, Fratelli Treves, Milano 1910.
[9] Antonio Cocchi, Discorso Decimo o sia Prefazione alla vita di Benvenuto Cellini in Discorsi Toscani, dedicati a sua eccellenza la Signora Contessa D’Orford, appresso Andrea Bonducci in Firenze MDCCLXI (Parte Prima), MDCCLXII (Parte Seconda); si legga, in ‘Appendice’, il Discorso X nella sua interezza. Per un ampio scenario della bibliografia celliniana cfr. il mio Benvenuto Cellini, Spirali, Milano 2006.
[10] Giuseppe Baretti, De’ Discorsi toscani del Dottor Cocchi, medico e antiquario cesareo, in “La Frusta”, Roveredo 1763: 143-152.
[11] Il Cocchi era solito definirsi, proprio nelle sue opere, Mugellano, per distinguersi, annota Saverio Manetti nella sua Lettera… sopra la malattia, morte, e dissezione anatomica del cadavere di Antonio Cocchi celebre professore di Medicina in Firenze, «dalle altre famiglie Fiorentine, e Forestiere, che avevano lo stesso Casato, e da qualcuno ancora, che al Casato aggiungevano lo stesso suo nome, com’era il Dottore Antonio Cocchi Professore nella Sapienza di Roma», [Stamperia Pietro Gaetano Viviani, Firenze MDCCLIX: 15, n. 1].
[12] Al fiorentino Bellini (1643-1704), allievo del Redi e del Borelli, anatomista insigne, fisiologo, ammiratore del crevalcorese Malpighi (“l’occhio d’Italia” nella definizione di Goelike; cfr. Gastone Lambertini, Dizionario anatomico, ESI, Napoli, 1949: 453), professore all’Università di Pisa, si devono soprattutto le scoperte sulla bio-architettura renale, sull’organo del gusto, sul polso arterioso. Il fascino dell’arte oratoria, da cui era soggiogato, fa precisare al Cocchi nelle sue ‘prefazioni’ belliniane: «Ma per altri motivi avendo egli voluto creare nell’animo de’ suoi uditori la maraviglia piuttosto che la scienza, ed essendo mirabili solo gli eventi che si veggono da noi, e de’ quali s’ignorano le cagioni, è manifesto ch’ei doveva, com’egli ha fatto, servirsi del metodo anatomico inverso, ed occultare con rettorico artifizio il modo di alcune esperienze comuni, e sospendere fino i nomi delle particolari cose di cui parlava, usando sempre in loro vece le definizioni. Il qual potente gusto d’arte oratoria, forse era a lui naturale per la disposizione del suo ingegno, che con mescolanza molto rara era fortissimo per discernere le minime differenze delle cose, onde veniva la sua sagacità e penetrazione filosofica, ed era insieme tenace delle formate idee, e velocissimo nel richiamare alla fantasia le minime lor somiglianze, e però fecondo di metafore e d’allusioni, onde la sua eloquenza e la sua poesia.» [Discorsi di Anatomia di Lorenzo Bellini recitati all’Accademia della Crusca con le prefazioni di Antonio Cocchi, Giovanni Silvestri, Milano 1837: XXIX]. 
[13] Giuseppe Baretti, Dei Discorsi toscani del dottor Antonio Cocchi, Parte seconda, Firenze, 1762; in “La Frusta”, Roveredo, 15 gennaro 1764.
[14] Infra. Sul ‘vitto pitagorico’, con accanito interesse, furono discusse le visioni vegetariane del Cocchi fin oltre la metà del secolo XVIII. Il Baretti, in nota ai Discorsi sul Bue pedagogo (Frusta, II: 328), porrà, al contrario, in evidenza due sostenitori dell’alimentazione carnea: il medico riminese Giovanni Bianchi e il padovano Giuseppe Antonio Pujati (Sacile 1701-Padova 1760), già lodato dal Baretti per il suo contributo postumo: Della preservazione della salute de’ letterati e della gente applicata e sedentaria (Venezia, 1761; 1762; 1768). Del Pujati, allievo di Giovanni Battista Morgagni e di Antonio Vallisnieri, si ricordano anche: Decas variarum medicarum observationum (Venezia, 1726), De morbo Naroniano tractatus (Feltre, 1747), Riflessioni sopra il vitto pitagorico (Feltre, 1751), De victu febricitantium dissertat nell’Italia del Settecento, io (Padova, 1758). Giovanni Bianchi (Rimini 1693-1775), detto Iano Planco, insegnò anatomia a Siena; archiatra pontificio, fu in contatto con la cultura scientifica ed umanistica del XVIII secolo: Voltaire, Morgagni, Vallisnieri, Algarotti, Frugoni, Apostolo Zeno.
[15] Franco Fido (a cura), Giuseppe Baretti, Opere, Rizzoli, Milano 1967. ‘Introduzione’: 9.
[16] Relazioni congressuali: cfr. Aldo Gerbino, al convegno di Borgo San Lorenzo, “Cocchi, «Del commercio cogli uomini», Firenze 2008, e “La Scienza medica nell’Europa del XVIII secolo (Domenico Cotugno)”, Ruvo di Puglia 2022.
[17] Bianca Fadda, L’innesto del vaiolo: un dibattito scientifico e culturale, F. Angeli, Milano 1983.
[18] Dei Discorsi Toscani del Dottore Antonio Cocchi, dedicati a Sua Eccellenza, la signora Contessa d’Orford, in Firenze, presso Andrea Bonducci MDCCLXII, Vol. II: 183-188.

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Aldo Gerbino, morfologo, è stato ordinario di Istologia ed Embriologia nella Università di Palermo ed è cultore di Antropologia culturale. Critico d’arte e di letteratura sin dagli anni ’70, esordisce in poesia con Sei poesie d’occasione (Sintesi, 1977); altre pubblicazioni: Le ore delle nubi (Euroeditor, 1989); L’Arciere (Ediprint, 1994); Il coleottero di Jünger (Novecento, 1995; Premio Marsa Siklah); Ingannando l’attesa (ivi, 1997; Premio Latina ‘il Tascabile’); Non farà rumore (Spirali, 1998); Gessi (Sciascia-Scheiwiller, 1999); Sull’asina, non sui cherubini (Spirali, 1999); Il nuotatore incerto (Sciascia, 2002); Attraversare il Gobi (Spirali, 2006); Il collettore di acari (Libro italiano, 2008); Alla lettera erre in: Almanacco dello Specchio 2010-2011 (Mondadori, 2011). Di saggistica: La corruzione e l’ombra (Sciascia, 1990); Del sole della luna dello sguardo (Novecento, 1994); Presepi di Sicilia (Scheiwiller, 1998); L’Isola dipinta (Palombi, 1998; Premio Fregene); Sicilia, poesia dei mille anni (Sciascia, 2001); Benvenuto Cellini e Michail K. Anikushin (Spirali, 2006); Quei dolori ideali (Sciascia, 2014); Fiori gettati al fuoco (Plumelia, 2014); Cammei (Pungitopo, 2015); Non è tutto. Diciotto testi per un catalogo (Il Club di Milano – Spirali, 2018).

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