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Femminismo e pacifismo: un binomio carsico?

manifestazione femminile 1915

Manifestazione femminile 1915

di Liliana Gazzetta 

Lo choc che ha rappresentato e sempre più rappresenta la guerra russo-ucraina mi richiama alla memoria un altro momento di choc collettivo avvenuto, nel cuore dell’Europa, in età contemporanea: quello della guerra franco-prussiana. La comparazione implicita che mi è spontaneamente sorta non pretende di avere qualche livello di validità, né sul piano metodologico né su quello analitico, essendo pressoché impossibile il confronto tra due fenomeni e due contesti storici così diversi. La speranza è, piuttosto, quella di stimolare una riflessione sullo stato del movimento internazionale delle donne, se posto a confronto con ciò che il primo femminismo riuscì a produrre, a fronte di quello choc, pur essendo allo stato nascente.

Se si guarda al dibattito nell’opinione pubblica in Italia, da una parte risultano vagamente note le voci delle femministe ucraine [1], che chiedono sostegno nella lotta all’aggressore; dall’altra, si conosce il punto di vista di chi sostiene una più ampia solidarietà transnazionale, col superamento di ogni forma di russofobia [2]. Ma tutto resta in superficie. Nel nostro Paese sembra non esista oggi una discussione femminista sulla tragedia in corso: è vero che le manifestazioni di questo tipo sono strutturalmente sotto-rappresentate dai media, ma è anche vero che non si può dire aperta una proficua riflessione sulle connessioni tra femminismo e pacifismo, e sul contributo che il primo può dare al secondo in questa fase storica.

Al contrario, il trauma della guerra franco-prussiana costituì una fonte di iniziative e di riflessione sulle relazioni internazionali all’interno del coevo movimento delle donne, allora alle sue origini. E che sarebbero poi continuate nei decenni successivi, in rapporto all’evoluzione della situazione internazionale. Qualche tentativo di creare associazioni pacifiste si era avuto anche nei decenni precedenti a quella guerra: Eugénie Niboyet aveva cercato di fondare nel 1844 una Société de la paix a Parigi. Successivamente era sorta l’Association internationale des femmes, in collegamento con la Lega per la pace e la libertà, che era un organismo europeo nato sotto l’egida di Garibaldi e Victor Hugo ed era guidato da Charles Lemonnier, un organismo i cui orizzonti ideologici si erano definiti anche in virtù del distacco dall’Associazione Internazionale dei Lavoratori.

Oltre al riferimento generale ai valori del cristianesimo, sia pure non identificabile con nessuna confessione in particolare, le matrici di questo pacifismo erano le idee kantiane per la pace perpetua, ma modellate anche dall’idealismo romantico e dai pensatori della democrazia europea, che scommettevano sulla possibilità di conciliare il patriottismo con un orizzonte umanitario più alto. D’altra parte il socialismo utopistico, i pensatori democratico-repubblicani, la mobilitazione risorgimentale in Italia, avevano sicuramente influenzato il nascente femminismo europeo. Così si erano avviate le prime iniziative di pacifismo femminile, legando le lotte per l’emancipazione delle donne alla battaglia per il progresso dei popoli e dell’umanità, in una prospettiva complessiva di trasformazione delle società. Si trattava naturalmente di gruppi e iniziative minoritarie all’interno del mondo femminile dell’epoca, così come minoritario – in termini di numeri – era allora lo stesso movimento delle donne. Ciò nonostante, era una realtà vitale.

Quando scoppia il conflitto tra Francia e Prussia, infatti, la protesta immediata dei gruppi femminili s’incardina – più o meno apertamente – sulla tesi secondo cui la guerra sarà inevitabile finché continueranno ad esistere dei regimi monarchici o dispotici, in cui una sola persona può decidere del destino collettivo. L’interesse del sovrano non coincide affatto con quello della patria, dice ad esempio la fondatrice dell’Association internationale des femmes, Maria Goegg: «Ciò che manca al soldato è sapere che egli innanzitutto è un uomo e che la sua vita è sacra e se è suo dovere sacrificarla per respingere un’invasione straniera, non è più così quando si tratta di combattere per il capriccio o l’ambizione di un re» [3].

Era un tipo di pacifismo che non contrapponeva l’umanitarismo agli ideali nazionali di matrice romantica: un pacifismo democratico, cioè, di orientamento repubblicano, radicale e progressista che negli ultimi decenni dell’800 si era indicato complessivamente con il termine de ‘Democrazia’. Era quindi una forma di pacifismo non integrale, che in alcuni casi considerava giusta la guerra: ovviamente la guerra combattuta in difesa da un attacco esterno, ma anche le guerre volte alla conquista dell’indipendenza o del raggiungimento dell’unità nazionale, e ancora la guerra per liberarsi da un governo dispotico: un pacifismo fondamentalmente giuridico, che mirava a raggiungere la pace attraverso il diritto internazionale e attraverso la creazione di un organismo sovrannazionale di arbitrato per la composizione dei conflitti tra Stati, che in prospettiva puntava  all’abolizione degli eserciti permanenti e a una federazione europea di Stati. 

Gualberta

Gualberta Beccari e la prima pagina del periodico  che ha diretto

Come sezione della Lega per la pace e la libertà era, appunto, sorta un’associazione femminile tesa alla mobilitazione congiunta per la pace e per i diritti femminili [4]. Diventata via via più autonoma dall’equivalente maschile, l’associazione trovò aderenti in vari Paesi europei: in Francia André Léo, Léon Richer e Marie Deraismes con L’Avenir des femmes [5]; negli Usa Elisabeth Cady Stanton e Pauline Davis; in Inghilterra Josephine Butler, che sarà poi protagonista della lotta abolizionista; in area tedesca Rosalia Schonwasser e Henriette Goldschmidt. In Italia fu il periodico “La Donna” – diretto da Gualberta Beccari – a raccogliere l’appello pacifista, insieme ad altre figure meno note legate agli ambienti mazziniani. La concezione prevalente dei rapporti tra i due sessi, basata sull’uguaglianza nella complementarietà, era infatti molto vicina a quella circolante nel femminismo di matrice mazziniana: 

«L’uomo e la donna sono destinati dalla natura a formare un’unità; epperò essi devono far risultare l’armonia dalla discordanza e dovranno, per la felice congiunzione delle loro differenti qualità e particolarità, intendere insieme all’opera generosa del progresso umanitario, verso cui ci sentiamo sospinti dalla nostra natura perfettibile» [6]. 

La chiave di volta di questa osmosi tra ideale della pace ed emancipazione femminile era proprio l’orizzonte del ‘progresso umanitario’, un orizzonte di miglioramento progressivo basato sulla tesi della continua perfettibilità degli esseri umani, che portava ad un pacifismo anch’esso definibile come progressivo. Pur a fronte, quindi, di una concezione della pace senza dubbio meno universale della attuale, il proto-femminismo si mobilitò con chiarezza di fronte allo choc della guerra tra futuro II Reich e Francia.

Dal suo giornale la mazziniana Gualberta Beccari il 7 agosto 1870 dava la «triste nuova» del conflitto [7]. Elvira Ostacchini invitava le italiane a preparare bende e filacce da distribuire «in parti uguali» ai due eserciti, sottolineando come i valori nazionali nel conflitto venissero usati solo come pretesto [8], mentre il periodico riportava notizie, interventi, appelli di donne italiane e straniere contro la guerra. Il ruolo femminile era quello di far nascere o sviluppare il sentimento di solidarietà tra i popoli, in modo tale che, «per ordine progrediente delle cose» [9], nel futuro divenisse possibile anteporre l’umanità alla patria. Forte era il radicamento spirituale-religioso in quasi tutte le iniziative: Beccari pubblicava L’Appello alle donne dei due mondi di Julia Ward Howe, datato settembre 1870 [10], e presentava come «sublime teoria» la proposta della pacifista statunitense, che davanti alla guerra franco-prussiana chiedeva un congresso mondiale per la pace, e la difendeva dalle accuse di vuoto utopismo: 

«L’idea della Ward Howe armonizza colle aspirazioni dell’umanità. Non è figlia di un sentimento, ma del raziocinio illuminato dalle dottrine radicali del secolo. Il Congresso proposto darebbe novello e più potente impulso al santo principio, che fu il concetto Cristo e il sogno vagheggiato dal Cristo dell’era moderna, Giuseppe Mazzini» [11]. 

congressAltre riviste continuarono negli anni successivi a fornire notizie sulla presenza femminile nelle società per la pace, radicandosi ugualmente nel richiamo al materno e in ideali di tipo religioso, nella «dottrina di pace del Cristo»[12]. Quando, all’ottavo congresso della Lega per la pace e la libertà, Victor Hugo si rifiuterà d’intervenire, sostenendo il diritto della Francia di riconquistare le province perdute a Sedan, alcune giornaliste sosterranno la necessità di cercare altri metodi di rivendicazione nazionale [13]. Anche la moderata “Rassegna degli interessi femminili” di Fanny Zampini Salazar pubblicherà una dichiarazione femminile contro la guerra tratta dalla “English Woman’s Review”: un appello a favore dell’arbitrato internazionale, in cui la funzione di ‘protezione della famiglia e della vita’ costituiva l’elemento fondante la domanda femminile di pace [14].

Ma non basta. In questi decenni si tentava davvero di caratterizzare l’elaborazione femminista sulla pace, anche oltre il richiamo alla dimensione del materno: il femminismo individuava cioè un suo compito preciso nell’educazione dei popoli, che si sarebbe potuta compiere «coi mezzi di cui sola può disporre la donna, e che nessun libro potrà sostituire giammai» [15]. Nel XIX secolo è questo il ruolo civile e sociale che le donne si vedono riconoscere con maggiore facilità, ma è anche il ruolo che le esponenti del movimento si riconoscono, facendone inizialmente una leva di trasformazione e auto-trasformazione secondo i propri ideali.

Nel passaggio al nuovo secolo Paolina Schiff offriva un contributo fondamentale in questa direzione: dapprima con la costituzione di un Comitato femminile per la pace, un organismo che entrò in relazione con analoghe strutture europee volte a «promuovere un movimento femminile in prò della pace»; quindi con l’avvio di un’autonoma elaborazione su questi temi. Ritroviamo qui forse la prima chiara affermazione teorica del nesso tra lotta per la pace e causa delle donne, stabilito sulla convinzione che la guerra rappresentasse un impedimento strutturale all’affermarsi dell’autonomia femminile: 

«Riconoscendo sempre più che l’energia della difesa non debba estrinsecarsi nella moderna società col primitivo mezzo della uccisione del simile, noi donne italiane, fedeli agli umani principi di Alberigo Gentili, del Filangieri, del Romagnosi e del Beccaria, confermiamo essere l’Arbitrato e il principio della Pace il mezzo dettato dalla ragione, dal sentimento e dall’utilità sociale per comporre gli inevitabili dissidi nascenti dall’attrito degli interessi; considerando altresì che la dignità e il valore dell’elemento femminile potrà emergere soltanto in condizioni basate sul progredito sviluppo della razionalità e dell’armonia affettiva sociale»[16]. 

paceAccanto a Paolina Schiff, in questa iniziativa troviamo le socialiste Linda Malnati e Emilia Mariani, con lei impegnate in un giro di conferenze su questi temi. Fu infatti nelle leghe per la tutela degli interessi femminili degli anni ’90, che si collocavano tra tradizione emancipazionista e socialista, che continuò la mobilitazione di questo tipo, coi necessari risvolti anticoloniali. Un’iniziativa a favore del ritiro immediato delle truppe italiane fu organizzata dai gruppi femministi nel marzo 1896, durante le proteste per la sconfitta di Adua: le protagoniste di questa fase ricordavano il principio di autodeterminazione dei popoli, dando una valenza antimilitarista generale alle manifestazioni [17]; il primo marzo ’97 il periodico “La battaglia” pubblicava uno scritto di Anna Kuliscioff in cui il militarismo era definito “imposta del sangue” [18].

È evidente che in questi anni il tentativo di elaborare un’etica femminista pacifista si era esteso nel campo del suffragismo di orientamento socialista, in uno sforzo di sintesi tra ideale utopico e fiducia nel progresso storico. Nel contempo, però, il contesto politico-culturale in cui operava il femminismo, nel passaggio tra i due secoli, diveniva sempre più ambiguo: l’idea che la cittadinanza e la libertà femminile discendessero dalla missione materna poteva offrire il destro anche in senso anti-emancipativo. Al punto che le esponenti del femminismo erano costrette a precisare: 

 «Prima madri e poi cittadine, ha scritto una donna per comprovare che non ci deve essere dato il diritto di voto. Prima madri! Se le donne tutte comprendessero questo! Non più tante delle attuali iniquità, non più infanzia derelitta, oltraggiata, esposta, abbandonata, non più donne schiave dei pregiudizi e del piacere! Perché siamo madri, perché vogliamo esserlo nel senso più alto e completo della parola, pel bene comune, chiediamo col diritto di voto la facoltà di compiere un dovere del quale misuriamo tutte le responsabilità»[19]. 
Ravenna, la casa delle donne, 23 aprile 2022

Ravenna, la casa delle donne, 23 aprile 2022

Per questa strada, da matrice di una potenziale riflessione femminista, il materno rischiava di diventare un terreno scivoloso: non poteva facilmente essere fonte di una moralità alternativa, quando su di esso pesavano non solo rocciose costruzioni culturali, ma anche le ipoteche di un imperante positivismo deterministico. Gli esiti di questa evoluzione sono sufficientemente noti perché nella ricostruzione ci si fermi a questo punto. È però importante cogliere i nessi profondi che possono crearsi tra movimenti delle donne e contesto sociale e culturale in cui operano.

E infatti è legittimo chiedersi se la sostanziale mancanza di parola del femminismo sulla tragedia in corso abbia qualcosa a che fare con la dispersione atomistica nella quale siamo piombati da qualche tempo. Anche i movimenti delle donne coltivano le loro nicchie, senza più nessuna capacità – o forse senza speranza – di modificare la ‘chiacchiera’ dominante che si mostra ‘inclusiva’ verso le donne. Rispetto allo sforzo di elaborare un’etica femminista della pace, che valore hanno le analisi messe in campo oggi dal femminismo? Le categorie interpretative proposte ribadiscono che nella militarizzazione e nella guerra non è possibile alcuna liberazione; che la guerra rafforza l’aspettativa che i due sessi si comportino in un certo, prefissato modo; che i conflitti armati restringono il campo di azione politica, ovvero la libertà di criticare il governo senza essere sanzionate o silenziate come ‘nemiche dello Stato’. Si fa appello ad attivare la creatività politica necessaria a immaginarci senza bisogno di un esercito e di confini, ma non si scorge niente di più. 

Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023 
Note
[1] Appello delle femministe ucraine alle femministe di tutto il mondo: https://www.micromega.net/guerra-ucrainamanifestofemministe/#:~:text=Le%20femministe%20ucraine%20hanno%20lottato,che%20in%20tempo%20di%20pace
[2] Il punto di vista femminista sulla guerra in Ucraina: https://www.pulplibri.it/il-punto-di-vista-femminista-sulla-guerra-ucraina-intervista-a-irina-zherebkina/
[3] G. Bath, Resoconto del discorso di Maria Goegg pronunciato il 24 luglio 1870 a Basilea, «Le Droit des femmes», 7 agosto 1870.
[4] M. Goegg, Lettera e Statuti dell’Associazione Internazionale delle donne, «La Donna», Padova, 27 settembre 1868.
[5] Cfr. A. Jacquemart, Une histoire genrée des mouvements féministes, «Vingtième Siècle. Revue d’Histoire», 133, janvier-mars 2017: 3-14; L. Klejman, F. Rochefort, Le féminisme sous la Troisième République 1870-1914, «Matériaux pour l’histoire de notre temps», 1, 1985: 8-11.
[6] Discorso pronunciato dalla signora Maria Goegg nella seduta del 27 marzo tenuta dall’Associazione Internazionale delle donne in Ginevra, «La Donna», Venezia, 10 aprile 1870.
[7] Gualberta A. Beccari, La guerra, «La Donna», Venezia, 7 agosto 1870.
[8] Elvira Ostacchini, Colla Prussia o con la Francia?, «La Donna», Venezia, 7 agosto 1870.
[9] G. A. Beccari, Il 24 giugno 1870, «La Donna», Venezia, 3 luglio 1870.
[10] G. Ward Howe, Appello alle donne dei due mondi, «La Donna», Venezia, 10 maggio 1871.
[11] Di un Congresso femminile per la Pace, «La Donna», 25 aprile 1873.
[12] Pubblicazioni estere, «Cornelia», Firenze, 16 agosto 1873.
[13] Cosa facciano le donne nel vecchio e nel nuovo continente, «Cornelia», Firenze, 16 settembre 1873.
[14] Le donne contro la guerra, “La Rassegna degli interessi femminili”, 15 agosto 1887.
[15] G., Fede e bellezza, «La Donna», Padova, 26 luglio 1868.
[16] Le donne e la conferenza dell’Aja , “Italia femminile”, 14 maggio 1899.
[17] Le proteste di una madre, “L’Uomo che ride”, 8-9 marzo 1896
[18] Alle Donne Italiane (a cura del Gruppo delle donne socialiste Milanesi), Milano Tip. degli operai 1897.
[19] Ersilia Majno, Suffragio universale. Ragione logica, “L’Alleanza”, 7 aprile 1906.

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Liviana Gazzetta, Dottore di ricerca in storia sociale europea presso l’Università Cà Foscari di Venezia, è docente nelle scuole secondarie superiori. Socia della Società italiana delle storiche, studia la storia dei movimenti femminili in età contemporanea, anche di matrice religiosa; tra le sue ultime pubblicazioni i saggi Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma 2018 e Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra ‘800 e ‘900, Roma 2020. A Padova è direttrice della delegazione locale dell’Istituto per la storia del Risorgimento.

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