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La festa dei morti/la festa dei vivi

Foto d'epoca, primi sec. XIX

Foto d’epoca, primi sec. XX

di Luigi Lombardo

Definire la festa è impresa alquanto ardua, nonostante la vastissima letteratura che se ne occupa. Che sia legata, presso tutte le culture, alla percezione del tempo, è cosa scontata, se è vero che il tempo è avvertito ora come flusso dinamico nel suo percorso rettilineo ininterrotto, ora forma di organizzazione e di articolazione che gli uomini hanno elaborato allo scopo di domesticare l’universo in cui vivono. L’antropologia ha elaborato i concetti di tempo rettilineo e tempo circolare per poter marcare l’evento che segna il momento clou del tempo “strutturato”: la festa.

Le feste sono la forma più eclatante scelta per rispondere alla ele­mentare e primordiale esigenza di comunità tradizionali, anche moderne, di “dominio del tempo”. L’analisi delle feste popolari moderne può essere a questo punto esemplare. Molti usi festivi scompaiono più facilmente, altri resistono e le ragioni sono, in parte, nell’essere ancora viva, come in passato, una certa realtà agropastorale, che conserva, sebbene assai corrotto, un calendario festivo in contrasto, spesso, con quello ufficiale. Un calendario che risente di un arcaico tempo festivo, proprio delle popolazioni cerealicole del bacino del Mediterraneo, caratterizzato dalla combinazione fra feste, ritmi naturali e stagionali, e produzione agricola. Un calendario fondato su un complesso culturale di tipo solare‑agrario, in cui la terra, dispensatrice di frutti e messi, è avvertita inconsciamente come madre‑terra, e il sole è il datore di luce, forza, calore: il suo corso nel cielo determina la “vita e la morte” della vegetazione.

Scrive con stringente sintesi Valerio Valeri:

«la festa è un’esperienza di trasparenza, un arricchimento di senso, i cui effetti si prolungano nella società “normale”». La festa non solo «rende visibile ciò che era invisibile, ma riconcilia il sé e l’altro; quest’ultimo è rivelato alla coscienza dalla discrepanza tra l’immagine interna e l’immagine esterna del sé. É riconoscendo il sé negli altri e gli altri nel sé che si accede allo spirito festivo; ed è per questo che la festa consiste in un accrescimento della solidarietà e rinnova il legame sociale. L’aspetto trasgressivo della festa va visto come riflesso della sua caratteristica fondamentale, che è la creazione di una totalità trasparente di rapporti. Se nella festa le separazioni cadono e il caos sembra talvolta infiltrarsi nel cosmo, non è perché la festa è negazione dell’ordine, ma perché rappresenta l’ordine inteso come totalità di essere e non essere: bisogna che ne faccia parte anche ciò che nella vita quotidiana è messo da parte come pericoloso e rifiutato come disordine»[1].
Vassoio di dolci, ossa ri morti

Vassoio di dolci, ossa ri muorti (ph. Nino Privitera)

Il ciclo agrario delle feste

Molte feste agrarie si svolgono in periodi‑soglia dell’anno, in coinci­denza con gli equinozi e i solstizi calendariali. Nel tempo festivo la comunità accelera le pulsazioni della propria vita socio- economica: in particolare, col ritorno massiccio degli emigrati, essa diveniva e diviene ancora oggi occasione di incontri, promesse, scambi, matrimoni. Spesso le feste funzionano da valvola di scarico di frustrazioni e di conflittualità sociali, diversamente e variamente stratificatesi. Conflittualità che si canalizzano in “guerre di santi” di verghiana memoria. Una estrema litigiosità e una forte conflittualità sociale confluiscono nel rito festivo, nei suoi meccanismi standardizzati, dove il pericoloso eccesso eversivo, implicito e presente nelle condizioni socio‑economiche delle masse popolari, all’origine di laceranti scontri sociali, si placa, canalizzandosi e stemperandosi in gesti e comportamenti rituali e liberatori.

Il reale così (con i suoi conflitti, la disoccupazione, le crisi varie individuali e collettive) si placa nel tempo trasformato e riorganizzato della festa, con tutte le articolazioni e i suoi modi di essere, come le processioni e i giochi collettivi, che esprimono in forma latente esigenze di liberazione e di solidarietà di gruppo, specie in periodi di forti e asfissianti controlli sociali e di frustranti proibizioni in campo morale.  

In ciascuna festa ogni gruppo, un tempo organizzato nelle confraternite, trova modo di autorappresentarsi e di rapportarsi, di apparire in qualche modo libero. L’ordine delle processioni, pur se esalta ruoli e gerarchie sociali, fa da contraltare al profondo “disordine” sociale, inconsciamente avvertito e realmente sperimentato nel quotidiano vivere, conseguenza della più grande delle ingiustizie, del più grave dei disordini: lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La società ricompone, su un piano metastorico, un ordine violato. La ricomposizione avviene su un piano sfalsato, non su quello del reale, ma su quello del simbolico. L’agonismo e la lotta che sono presenti in diversi riti festivi sono la parafrasi simbolica di lotte reali e conflitti concreti, in certo senso ne sono il freno ritualizzato.

Canestro di noci, mandorle, nocciole, melagrani (ph. Nino Privitera9

Canestro di noci, mandorle, nocciole, melagrani (ph. Nino Privitera)

Le feste di oggi sono, per la maggior parte, il residuo dell’antica civiltà contadina con i suoi riti stagionali di origine pagana, innervati o mimetizzati nella liturgia cattolica, in una combinazione di elementi che esprimono gli immutati bisogni di una comunità contadina, le cui ragioni di sopravvivenza si fondano sui prodotti dei campi. Una comunità che vive le crisi connesse ai periodi soglia del ciclo agrario. Tali crisi naturali, cicliche, si innestano nell’atavica “attesa del pane e del vino”, e sono vissute perciò con stati di tensione emotiva, di aspettazione spes­so spasmodica. Il contadino e con lui il resto della società, legati al buon esito del raccolto, esposti a mille pericoli, accentuano i bisogni di prote­zione magico‑religiosa; data la precarietà della vita alimentare, sviluppa­no quel senso di angoscia da insuccesso che comporta l’incertezza del domani, rappresentato da un prodotto del lavoro esposto al pericolo delle malannati. Il senso del fallimento è atavico nelle società agro‑pastorali, dove si accentua divenendo tema mitico fondamentale.

Dolci di pasta reale (ph. Nino Privitera)

Dolci di pasta reale (ph. Nino Privitera)

Molte feste e quelle patronali in particolare sono situate nei perio­di soglia dell’anno o comunque rientrano nell’ambito di complessi miti­co-rituali di origine arcaica: come il solstizio d’estate, momento in cui si chiude il ciclo agrario e la comunità gode dell’abbondanza dei beni mate­riali che può esibire e offrire al santo patrono della città. La sensazione della pienezza porta con sé il senso della precarietà del possesso dei beni: ne conseguono stati ansiosi, che sono alla base di fenomeni come il taran­tolismo e di certe estreme manifestazioni parossistiche collettive, come alcuni riti penitenziali propri del Venerdì santo. O come il solstizio d’inverno quando la privazione di beni stimola il consumo esagerato di quelli disponibili in un paradosso che è il sale della festa.

Ne deriva che uno degli elementi caratterizzanti la festa è l’orgia ali­mentare, fondata sull’esibizione ostentata di benessere, come strumento di esorcismo della penuria e della miseria. Il ciclico ripetersi di periodi di carestia e abbondanza, di sufficienza alimentare e di carenze nutritive, l’ansia per eventuali carestie, sono stati conti­nuamente sperimentati dalle culture e dalle società agro‑pastorali e dalle classi subalterne urbane. Tale stato ansioso viene però, nelle culture popo­lari, canalizzato e stemperato nel rito di espiazione: e la festa è in gran parte espiazione collettiva, attraverso l’allontanamento, del male.

Cotognata (ph. Nino Privitera)

Cotognata (ph. Nino Privitera)

Crollato oggi il “bisogno del pane e del vino” (per parafrasare De Martino), altri bisogni emergono, per cui, ad esempio, nell’era della tecnologia avan­zata, il “viaggio” a piedi scalzi per sciogliere un voto vede addirittura aumentati i partecipanti: segno anche di una precarietà esistenziale, che non trova soluzioni e mediazioni nel sociale e nel politico. L’attuale assetto sociale, falsamente egualitario, si mostra non in grado di rispondere ido­neamente alle richieste, che salgono dal corpo sociale, di lavoro, di sicu­rezza, di benessere. Di questo tempo festivo protagonisti sono i vivi, uomini e donne, comunità attive. Ma com’è possibile avere invece una “festa dei morti”, come può il defunto tornare a “fare festa” tra i viventi?

Il periodo che va dall’1 all’11 Novembre rientra in un unico complesso mitico religioso legato al trapasso stagionale, dall’estate all’inverno, segnato da una straordinaria abbondanza alimentare, legata alla piena maturazione dei frutti e alla conseguente preparazione delle conserve per l’inverno (estratti di pomo­doro, cotognate, marmellate, mostarde ecc.), ma soprattutto dalla conclusione del ciclo di produzione del vino: l’l1 novembre, giorno consacrato a S. Martino, si assaggia il vino nuovo.

Mostarda (ph. Nino Privitera)

Mostarda (ph. Nino Privitera)

Il giorno dei morti, 2 Novembre, in Sicilia, come in tutt’Italia, non è festivo, ma il popolo festeggia ugualmente, per cui mai andrà a lavorare in questo giorno, dedicandosi piuttosto alla veglia presso le tombe dei cari estinti.

La veglia comincia all’alba e si pro­lunga fino a notte inoltrata. Un tempo per non lasciare la tomba sola e dare così l’impressione dell’abbandono dei defun­ti, si consumava nei pressi di essa un pasto. che a volta aveva i contorni di un lauto banchetto, come usavano fare i pro­genitori Greci o Romani; il pasto comunitario presso la tomba, vera “agape” rituale, era il segno più evidente del riaf­fermato legame vivi‑morti, morte‑vita.

I Morti portano i doni ai bimbi

In Sicilia è diffusissima la credenza che nella notte fra il primo e il due novem­bre i morticini ritornino fra i vivi per portare i doni ai bambini: per questo si lasciava dietro l’uscio di casa una scarpa, che il morto riempiva di doni. Altro luogo dove si riteneva che i defunti lasciassero i doni era il focolare domestico. In attesa dei morti si lasciava sulla tavola apparecchiata una bottiglia di vino e un pane. I negozi per l’occasione stavano aperti fino a tardi e le famiglie sciamavano per le strade rischiarate da tenui lumi in una frenesia da acquisto, che spesso era solo l’occasione per in­frangere le rigide costrizioni della morale corrente.

Cavallini di cartapesta (ph. Nino Privitera)

Cavallini di cartapesta (ph. Nino Privitera)

Un tempo (non molto tempo) i doni più comuni erano: il carrettino di legno col cavallino di cartapesta (u carrittulu), un cavalluccio in cartapesta coi finimenti dipinti a colori vivaci (u cavadduzzu), il ciccupeppi, alla lettera “Francesco Giuseppe”, un giocattolo antichissimo che prendeva il nome dal re borbonico messo alla berlina, varie fracassose trombette, la pistola “a caps”, per i ragazzi; per le ragazze bamboline di pezza e casette di bambola. A questi doni si accompagnavano frutta secca, fette di mostata o coto­gnata, qualche frutto di pasta reale, castagne, fichi secchi. Ma non era infre­quente il caso in cui i doni si limitassero a qualche melagrana o ad un pezzo di zucchero accompagnato da una fetta di pane!

Il fidanzato invece faceva alla zita un regalo impegnativo: come un pupo di zucchero o un canestrino di ossa ri muorti o di frutta reale. In segno di devozione in questo giorno si consuma a Palazzolo la pasta con le noci (la noce come ogni frutto‑seme rinvia ai morti). La festa dei morti segna anche l’inizio dei giochi in famiglia, che vanno avanti fino a S. Martino e Natale, secondo una precisa 1iturgia del gioco. Il portato più interessante della festa dei morti è senz’altro la credenza diffu­sa in tutta la Sicilia che nella notte fra l’1 e il 2 novembre i defunti lascino i doni ai bambini.

Ciccupeppi, (ph. Nino Privitera)

Ciccupeppi, (ph. Nino Privitera)

Il significato di questa credenza è straordinariamente ricco: l’atto del dono presentifica un bisogno primordiale dell’anthropos culturale di riaffermare la vita (cultura) sulla morte (natura). La consegna del dono da par­te dei morti ai bambini riafferma il legame fra morti e vivi, fra i due estremi biologici del nuovo e del vecchio. Il gesto instaura il caos da cui rinasce il tempo riformato, il cosmos. I doni che i morti lasciano ai vivi non sono casuali, ma assai ricchi di signi­ficati simbolici. In questo senso i doni della gente di estrazione popolare con­servano, più d’ogni altro, il residuo di antichissime simbologie legate in qual­che modo al mondo dei morti, che sostanzialmente rinviano al tema della rina­scita e della fecondità. I morti lasciano ai bambini noci, nocciole, castagne: tutti semi che simboleggiano la vita che dovrà ritornare attraverso la germinazione vegetale. Sono frutti legati al regno dei morti, come la melagrana, attributo della Grande Madre. I morti lasciano anche i pupi di zucchero, il cui significato è assai controverso: c’è chi vede in essi le immagini stesse dei defunti, i Lares o i Penates dei Romani, dolci consumati in un gesto che inconsciamente ripete l’arcaico cannibalismo rituale delle carni dei familiari defunti.

Ma torniamo ai bambini protagonisti della festa: ad essi è consentito il giorno della festa scorrazzare, vociando e strepitando, fra le tombe dei defunti, ostentando i doni ricevuti, in una sorta di irriverenza tollerata e anzi quasi richiesta e necessaria al compiersi del rito. Dirò solo per inciso che vi sono teorie secondo cui i bambini sono vicari dei defunti o meglio simboleggiano i defunti stessi tornati a vita, mentre i doni non sarebbero che le offerte rese dagli uomini ai defunti per il tramite dei bambini. Comunque stanno le cose un dato è certo, ed è quello che ci interessa, il gesto del dono degli adulti ai bambini è pregno di significato vitale e liberato­rio di energie affettive e relazionali di indubbio valore educativo ed etico.  

Carrettino di legno e cartapesta (ph. Nino Privitera)

Carrettino di legno e cartapesta (ph. Nino Privitera)

Torniamo brevemente a parlare dei giocattoli, delle loro tipologie e funzioni. Ogni divisione per categorie di giocattoli può risultare inutile. Comunque va fatta ai fini di una conoscenza più approfondita degli oggetti. Una prima distinzione si può operare in rapporto ai frui­tori: così si possono distinguere giocattoli relativi all’universo ergologico e produttivo maschile, e giocattoli pertinenti l’universo domestico femmi­nile. Si può dar rilievo alla tipologia ed evidenzia­re i giocattoli che ripropongono il mondo minia­turizzato: sono quelli che riproducono figure di animali e umane. Si tratta di oggetti strettamente collegati alla realtà quotidiana, quasi propedeuti­ci ad essa.

Quelli maschili sono: cavallucci, carrettini, fucili, sciabole ecc. Quelli femminili sono legati all’universo domestico dominato dalla figura della bam­bola: strumento che predispone agli obblighi famigliari, in relazione alla fun­zione materna, cui è destinata la bambina. Alla bambola sono riconducibili tutti i giocattoli delle bambine come la Casa di bambola, le stoviglie miniatu­rizzate ecc.

Abbiamo la grande categoria dei giocattoli legati ai giochi collettivi, che svolgono una funzione prettamente ludica. Fra questi i più diffusi sono i giocattoli per giochi di lancio: cerbottane, trottole, aquilone, pietruzze, seguono i giocattoli legati ai giochi in famiglia, praticati nelle feste, praticati anche dagli adulti, come la tombola, il gioco dell’oca, il gioco della barca ecc. Particolare è la categoria dei giocattoli rumorosi e sonori: in questa categoria rientrano trombette, tamburi, cembali, fischietti, raganelle: le valenze originarie di questi oggetti si sono perse, coperte dalla funzione di mero passatempo, mentre in origine erano legati per lo più ad un rito particolare dai risvolti magico-sacrali.

Il Gubernale in un prezioso scritto (anzi manoscritto), pubblicato dal Burgaretta [2], rende bene questa particolare festa a fine ‘800 in un preciso contesto geografico, cioè Avola:

«Non è certamente una festa quella che commemora i nostri più cari, coloro che hanno diritto al rispetto e alle lacrime dei superstiti; ma in Avola come in quasi tutta la Sicilia[3] è insita una tradizione che ha più del festevole che del lugubre.
Il giorno 1: di mattina i rivenditori di frutta e i dolcieri si apparecchiano a vendere i loro generi e prodotti. Nei fruttaioli sono mele di Napoli (pumancelli), fichi secchi della Calabria e di Lipari, castagne col guscio e calderoste, noci di Ferla, melagrane di Noto, fichidindia (bastarduna i Catania), pere d’inverno, mandorle, uva passa (passuli), mostarde ecc. Nei dolcieri sono dolci di ogni sorta, biscotti regina, di mandorle, guelfi e incannellate; poi ogni specie di imitazione di frutto da sembrare raccolte dalle piante e dagli alberi; poi sono personaggi maschi e femmine di zucchero di varie grandezze.
Nella piazza principale vi sono poi dei girovaghi con banconi improvvisati che vendono mustazzoli, mostarde, paste di miele, cuddureddi, confetti, cioccolatine; altri vendono tamburi e fischietti di creta, bambole e carrozzelle, trenini e utensili di bambole […].
La sera la popolazione si accalca nelle vie principali e nei dolcieri e ovunque si sente gridare la propria merce […].
Già la festa del 2 novembre è in contrasto con il giorno che commemora i defunti ed è dedicata alla gioia dei bambini. Il contrasto parrebbe essere non tanto tradizionale quanto simbolico, perché l’infanzia si affaccia lieta alla vita e nulla vuol sapere della morte che sta in agguato e che per lo più attende l’età avanzata!
E i bambini, che dalle mamme hanno appreso che a mezzanotte i morti escono dalle tombe e vanno a rubacchiare frutta, dolci e giocattoli di cui riempiono i virtuliddi (bisacce) e che poi formandosi piccoli piccoli come formiche, entrano dalle fessure delle porte e delle finestre per deporre alcune coserelle per essi. I bimbi vanno presto a dormire per timore che, trovandoli alzati o svegli, brucino loro gli occhi con le candele accese e non lascino nulla di buono.
L’indomani è appena l’alba che i ragazzi dai tre ai 10 anni vanno in cerca re cosi re muorti nelle proprie case e in quelle dei parenti più vicini […]. Poi corrono fuori e per le vie a giorno chiaro è un rumore di rulli, di zampogne, di piattini, trombe, fischietti che sembra una grande fiera».
Pupo di zuccero (ph. Nino Privitera)

Pupo di zucchero (ph. Nino Privitera)

A guardar bene, la festa dei morti è dunque la festa dei bambini, in quanto portatori di vita che cresce, energia vitale che si rigenera nell’eterno ciclo della vita. Tanto più che c’è una prossimità tra il gioco infantile e la festa, perché l’uno e l’altra valgono a costruire un mondo altro, immaginario, e i bambini sono mediatori, una sorta di Ermes, tra i mondi paralleli. E nel culto dei morti sono sul piano simbolico trasposto su quello ludico i connettori delle generazioni, i tessitori del tempo.

Ma perché i bambini, a differenza degli adulti, non hanno paura della morte? Intanto il concetto astratto di morte per i bambini non esiste, mentre esistono i morti, avvertiti come entità positive, come apportatori di doni, di ricchezza, di vita. Certo, questa mancanza di paura del mistero della morte è frutto di una educazione che ricevono, nelle società tradizionali, dalle mamme e dai nonni. L’aldilà diventa così il luogo dei tesori detenuti non tanto dai morti, quanto dai murticieddi. In questo eufemismo si nasconde il segreto dell’approccio quasi divertito con l’aldilà, luogo dove i nonni e i padri nascondono i giocattoli, la frutta e i cibi elargiti il giorno della festa. In questo modo l’uomo adulto eufemizza la morte stessa: la caduta irrimediabile e incomprensibile verso l’ignoto, diventa caduta planata verso un mondo abitato da entità simili ai folletti o ai nanetti che nel sottoterra custodiscono infinite ricchezze. Si tratta di un’operazione di rovesciamento operato dall’immaginario diurno, in grado di attutire la “caduta”, e di dare senso all’aldilà, costruendo “l’altro mondo”, luogo non di tenebre ma di una luce “notturna” confortevole e operosa.

I bambini sono i custodi anche delle feste religiose, patronali in particolare. Essi ripetono o ricreano i riti delle feste attraverso il gioco o attraverso la ripetizione della festa stessa, o meglio di alcuni momenti della festa: la costruzione della varetta, la questua per le strade, le grida e i gesti del rito adulto. Possiamo dire che sono custodi inconsapevoli dei riti: come fosse una scuola dove docenti sono gli stessi bambini.

In questa pandemia mi è capitato di incontrare diversi gruppi di bambini col piccolo fercolo del santo a loro caro sulle spalle, alzare forte il grido di gioia e di esortazione, quasi a richiamare il santo, perché proteggesse la stessa comunità, nel suo insieme, dal male e dalle sofferenze. La festa dei bambini diventa così gioco, strumento di superamento delle angosce del vivere in un regime di privazione: il mondo dei piccoli prende per mano quello degli adulti e lo rassicura che, comunque, la vita prevarrà. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021
Note
[1] V. Valeri, Festa in Enciclopedia, v. 6, Torino, Einaudi: 95-96.
[2] Pubblicato in G. Gubernale, Avola festaiola, a cura di S. Burgaretta, Avola, Associazione avolese, 1988: 159-161. Grazie a Nino Privitera per avermi ricordato questo bellissimo passo.
[3] Ma sono modalità festive comuni alla Spagna come ai Paesi latino-americani.

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Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate ha di recente pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa; Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga.

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