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La domenica ieri, oggi e (forse) domani

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di Augusto Cavadi

Siamo in tempo di secolarizzazione, di de-sacralizzazione, di laicizzazione o siamo già trapassati in una fase di post-secolarizzazione, di ri-sacralizzazione, di forme nuove di religiosità (più o meno autentica, più o meno idolatrica)?  In mancanza di idee precise, lascio in sospeso la domanda. Ciò che mi sembra, comunque, indubbio è che in tutto l’Occidente il cristianesimo istituzionale (sia cattolico che protestante) agonizza in una crisi irreversibile. Sulla diagnosi concordano osservatori preoccupati, anzi amareggiati, e osservatori emotivamente distaccati, quando non compiaciuti.

Di tutta questa complessa problematica vorrei qui ritagliare un solo aspetto: il senso della domenica. E lo faccio perché convinto che si tratti di uno di quegli elementi di rilevanza non solo teologico-religiosa, ma anche antropologico-sociale i cui mutamenti meriterebbero di essere seguiti con attenzione critica, invece di lasciarli accadere come meri effetti di decisioni politiche ed economiche più o meno anonime.

nota-pastoraleLa domenica: cosa è stata

Le tre più numerose religioni monoteistiche conoscono la scansione del mese in settimane, ciascuna delle quali trova coronamento in una giornata festiva (il sabato per gli ebrei, la domenica per i cristiani e il venerdì per gli islamici). Il “giorno del Signore” è prima di tutto «quel giorno in cui l’uomo può respirare e liberarsi dal giogo del lavoro; può dimenticare l’inutilità» (almeno relativa, se commisurata con l’impiego di energie necessario ad ogni realizzazione) «del suo sforzo e semplicemente vivere, sicuro che Dio ha cura di lui» [1].

E non solo il cittadino autonomo, ma anche lo schiavo e l’animale: «tutti dovevano vivere il sabato come giorno della liberazione» [2]. Oltre che “il giorno del riposo”, il sabato è «il giorno in cui l’uomo diviene consapevole della sua dignità: che egli nonostante tutto è creatura di Dio»[3];  infine è «quel giorno in cui l’uomo deve pensare a Dio in modo speciale, dato che negli altri giorni le preoccupazioni dell’esistenza glielo fanno così facilmente dimenticare»[4].

I cristiani, nei primi secoli, continuano a celebrare il sabato; poi vi aggiungono il primo giorno dopo il sabato in quanto giorno della resurrezione di Gesù; infine sostituiscono il sabato con la domenica, nella quale celebrano «la quintessenza della fede cristiana: la vittoria dell’amore di Dio sul peccato e sulla morte e, in questa vittoria, la rivelazione di che cosa è Dio»[5].  Per essi, la domenica è anche il giorno dell’attesa escatologica, dell’utopia: non solo gli esseri umani, ma «la creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione, per avere parte alla libertà della gloria dei figli di Dio» [6].

Come si leggeva in una Nota pastorale della Conferenza episcopale italiana del 1984, la domenica è

«anche il giorno del riposo, pregustazione e pegno del riposo vero, ultimo, eterno; il giorno che non avrà mai fine oltre il quale non ci sarà altro giorno; l’ottavo, l’ultimo, il definitivo. Il giorno in cui il lavoro cede definitivamente il posto alla contemplazione, il pianto alla gioia, la lotta alla pace. Non alibi alla pigrizia, ma progetto e speranza per dare senso e coraggio all’impegno di anticipare già nell’oggi ciò che viene contemplato e sperato come futuro»[7] .

Su questo aspetto escatologico della domenica c’è da notare che, un po’ paradossalmente, esso contiene in germe il superamento di alcune caratteristiche della domenica che attualmente riterremmo irrinunciabili. Infatti Apocalisse 21, 1-2 adotta, per significare il mondo nella sua versione definitiva, rigenerata da Dio, l’immagine della Gerusalemme celeste e di essa afferma che non avrà più templi (21, 22):

«Non c’è più bisogno di templi e non possono neppure più esistere i templi. Il tempio c’è sulla terra; l’edificio di legno e di pietra, come luogo che la religiosità ha riserbato per le realtà sacre. Qui il tempio può esserci, perché le cose stanno disposte e distinte nello spazio, e c’è bisogno del tempio, perché in questo mondo ci sono ancora i luoghi profani, anzi dissacrati. Ma quando la “realtà prima” e la sua ingiustizia è “passata”, quando Dio “ha fatto tutto nuovo” (21, 4-5) ed egli è “tutto in tutto”, allora non può più esserci un tempio particolare, perché tutto è “tempio”. Non si potrà dire, in corrispondenza, che non ci sarà più neppure uno speciale giorno sacro? Esso aveva significato finché il ritmo della vita avanzava nel tempo; allora ai giorni del servizio per il mondo poteva seguire ogni  volta il giorno sacro in cui esprimere l’apertura umana verso Dio. E l’uomo aveva bisogno di esso perché senza questo giorno riservato, difeso da divini comandamenti e da ordini sociali, l’esistenza mondana avrebbe inghiottito l’uomo. Ma ora c’è l’eternità, puro essere creatura di Dio; perciò un giorno del Signore distinto dai giorni dell’uomo non avrebbe più senso, né possibilità. Come il “tempio” si è fatto identico con la spazialità della creazione assunta nell’eternità, così il “giorno del Signore” è divenuto identico con la sua temporalità assunta nell’eterno»[8].

contro-il-logorio-del-laicismo-moderno-gnocchiLa domenica: cosa è diventata

La domenica è ormai quasi dappertutto, quasi per tutti, un giorno come un altro. Le ragioni della produzione, del commercio e dei servizi alla persona (soprattutto in campo turistico) hanno avuto la meglio sulla tradizione fondata su esigenze bio-psicologiche e su istituzioni culturali. In un libro gli autori hanno efficacemente fotografato la situazione di molti (per fortuna: non di tutti i) nostri contemporanei:

«È domenica, ma potrebbe essere martedì o venerdì. E anche se è domenica, comunque è un giorno nel quale le famiglie non si ritrovano affatto, perché la mamma il pomeriggio fa la cassiera al centro commerciale, il papà al mattino ha il turno in tipografia, il figlio più grande vende mobili da montare all’Ikea e il più piccolo resta a casa a giocare ai videogiochi. Se poi capita, per una specie di congiunzione astrale, che una domenica questi poveri disgraziati siano liberi dal lavoro, che cosa faranno? Non dico per santificare la festa […]. Ma per divertirsi, per cercare un po’ di felicità legittima insieme, che cosa si inventeranno?  Ma è semplice: una bella gita al centro commerciale più vicino. Può esistere qualche cosa di più spaventoso di una vita simile? La verità è che siamo giunti di fronte a un bivio: quale strada imbocchiamo dipende dal modo in cui decidiamo di vivere le nostre giornate di festa. Basta un breve giro in auto durante una qualsiasi domenica dell’anno in qualsiasi regione italiana per rendersi conto della gravità della situazione. Decine di migliaia di persone affollano i grandi magazzini, le cittadelle del consumo, gli outlet village, gli iper-super-mega centri commerciali. E anche se non lo sanno, stanno lavorando. Perché – parafrasando Karl von Clausewitz – lo shopping domenicale è la prosecuzione del turno in ufficio con altri mezzi. Anche se non se ne rendono conto, i consumatori della domenica sono dei forzati della catena di montaggio consumistica. Hanno lavorato sodo per tutta la settimana, e con quale prospettiva? Racimolare abbastanza soldi per andare la domenica a comprare qualche cosa. Qualche cosa di essenzialmente inutile, ma appunto per questo di indispensabile secondo la società degli spot: il telefonino che fa le foto, la macchina fotografica che telefona, il televisore piatto che si vede peggio, il walkman per sentire la musica mentre tua madre, tuo marito o la tua fidanzata stanno tentando di parlarti. Completano la catena di montaggio i commercianti e i commessi: poveracci che sacrificano la domenica per racimolare un po’ di denaro da spendere o in altro giorno della settimana, o nella prima domenica libera, travestendosi per l’occasione da consumatori»[9].

Gli autori del brano riportato accennano a “un bivio”: la domenica canonica, del ‘precetto’ cattolico oppure la domenica vuota, del ‘precetto’ consumistico. E, in effetti, sociologicamente, sembrerebbe che abbiano ragione. Molta gente si rifugia in chiese di cui non condivide né il credo né la morale pur di evitare lo squallore dei grandi magazzini; proprio come altra gente, altrettanto priva di fede, si ritrova a ciondolare annoiata fra i corridoi dei grandi magazzini pur di non cedere al conformismo tradizionalistico e ipocrita di una pratica senza convinzioni.

Il rifugio fuori porta si rivela una via di fuga deludente. La mentalità contadina e montanara sospinge, per così dire spontaneamente, al rispetto ecologico; non altrettanto la mentalità urbana. Ci si scopre infatti ineducati a convivere con le piante, con i fiumi, con gli altri animali: noi cittadini avvertiamo l’impulso (che non sempre controlliamo) a strappare fiori, a uccidere passeri, a incidere con il coltellino i tronchi d’albero. Sporchiamo con i rifiuti i boschi, quando non li incendiamo; inquiniamo le acque correnti; distruggiamo, con radioline e smartphone, il silenzio delle colline e delle valli. Tranne in eccezioni tuttora abbastanza rare, una domenica all’aperto è una giornata di profanazione.

Quali possono essere alcune ragioni di questa metamorfosi del modo di vivere la domenica, della sua riduzione a un giorno di pura «evasione, nel quale l’uomo, vestito a festa ma incapace di fare festa, finisce con il chiudersi in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il cielo»? [10] Una prima ragione: il riposo – l’astensione dal lavoro – è

«un valore immediatamente sentito dall’uomo stanco: egli sente che le tensioni si sciolgono, che le forze si rifanno, che il rapporto con l’esistenza ritorna aperto e gioioso. Ma il riposo è anche un disvalore nel senso che chi riposa non ha appunto nulla da fare. Questa impressione è tanto più deprimente quanto più l’uomo in questione è attivo, ed è diventata del tutto intollerabile da quando l’attivismo moderno ha distrutto la capacità d’essere tranquillamente con se stessi. Vuoto, noia, impazienza sono le pericolose conseguenze»,

ad evitare le quali «il riposo ristoratore ed allietante» si capovolge in incombenza faticosa: un’“impresa” al rovescio» [11].

Una seconda ragione dell’evaporazione della domenica la si può individuare nell’amplificazione sociale, collettiva, del disagio or ora descritto. Non è infatti solo il singolo individuo che non sa che farsene di un giorno liberato dalla fatica, ma più in generale «l’uomo moderno – soprattutto quello che non ha più convinzioni religiose e a cui mancano i significati che ne conseguono e gli atti religiosi del culto che riempiono il tempo domenicale»[12].

Perché una società che già ha abbandonato i riti del passato ormai inattendibili, ma non ha ancora inventato degli equivalenti funzionali, dovrebbe mobilitarsi per salvaguardare la domenica? Essa non sembra aver trovato, alla domanda su come gestire il tempo libero, «una risposta autentica, ossia illuminante, traducibile nella realtà dell’uomo medio». L’esperienza di molte famiglie è, infatti, che si riduca a

«un tempo vuoto con tutte le conseguenze derivanti. Un tempo di cattivo umore e di dissipazione, che si scarica nell’alcool […] o in uno sport la cui chiassosa agitazione distrugge ogni elemento del riposo»[13].

Non va taciuta almeno una terza ragione di carattere ‘strutturale’ (nell’accezione marxiana del termine):

«Nel tempo pre-tecnico il processo produttivo poteva essere senz’altro interrotto; con la tecnica non è più così. I suoi processi si svolgono in contesti oggettivi, che non possono essere interrotti senza che ne nascano perdite considerevoli»[14].

Forse si potrebbe aggiungere una quarta motivazione di ordine psico-pedagogico. Le Chiese cristiane – la cattolica in particolare – hanno presentato la celebrazione della domenica più come un dovere che come un diritto; più come un ‘precetto’ (vocabolo militare) che come un privilegio, un premio, un dono, un’opportunità. Guardini, nell’epoca tetra pre-conciliare di papa Pio XII, poneva la questione con un interrogativo retorico:

«La dottrina e la prassi della domenica si sono abbastanza sforzate di mostrare come si potesse riempire la domenica di momenti e di valori validi e fecondi di gioia? O non venne forse il credente messo unicamente di fronte al comandamento, cosicché le sue capacità inventive e creatrici vennero bloccate, cosicché la domenica ha finito con l’essere appresa come qualcosa di essenzialmente negativo?» [15]      

Gli uomini e le donne del nostro tempo faticano già ad accettare un Dio comprensivo e filantropo; immaginiamoci con quanta disponibilità possano accettarne Uno che emani imperativi perentori; che – alquanto contraddittoriamente – ordini all’umanità di assumere, per così dire a comando, un atteggiamento festoso. 

felicita-e-contemplazioneLa domenica: cosa potrebbe diventare

L’eclissi della domenica come giorno dedicato a Dio è irreversibile? Secondo la mia opinione soggettiva – che non vuole avere nessuna pretesa di scientificità – la risposta è affermativa. Se l’origine della domenica è stata, essenzialmente, religiosa («Ogni domenica è Pasqua» [16]), ritengo che la sua persistenza – o, secondo i casi, la sua rinascita – non potrà avvenire sulla base di argomentazioni religiose. Bisogna, indubbiamente, offrire al cittadino medio le occasioni per «fare dei suoi giorni liberi» – quindi la problematica si estende dalle domeniche ai sabati, e poi anche alle ferie estive e invernali – «qualcosa di più che un tempo di spreco di denaro e di energie vitali, o di più che un tempo di vuoto e di noia»[17]: ma sarebbe una sconfitta certa se si puntasse su occasioni esclusivamente o prevalentemente o essenzialmente ‘religiose’. L’unica strada percorribile, almeno ai miei occhi, si snoda su un terreno pre-religioso: il terreno della spiritualità ‘naturale’ o, meglio, ‘storico-antropologica’ (dal momento che, come sappiamo, non c’è ‘natura’ nell’essere umano che non sia storicamente contrassegnata). Mi riferisco a un insieme di princìpi, costumi, simboli, istituzioni, relazioni interpersonali, atteggiamenti virtuosi…che precedono, e fondano, eventuali ulteriori opzioni di tipo ideologico-politico e/o teologico-confessionale: un insieme di qualità ‘laiche’ che costituiscono la sintassi elementare della coltivazione dell’humanum, senza il quale le battaglie sociali o le devozioni mistiche puzzano di inautenticità. Quando non si configurano come pericolose minacce fondamentaliste.

Sono convinto che la stessa domenica ‘cristiana’ abbia iniziato a scricchiolare dalle fondamenta – nonostante l’apparente unanimità della frequenza ai riti liturgici – proprio per la sottovalutazione di questa spiritualità basica, elementare. Per secoli si è stati fedeli alle convocazioni festive pur restando estranei – nel resto della settimana, nel resto dell’anno – a un’autentica apertura a quella Parola (Logos, Tao) che ci raggiunge, prima ancora che in Libri sacri, attraverso la duplice, inscindibile, mediazione dell’universo (fisico) e della storia (umana). Le nostre chiese sono state affollate da gente che non sospettava neppure di dover cercare il divino nell’interiorità, nell’esperienza della convivialità e del servizio: perché stupirsi che se ne sia allontanata delusa nel vedersi mutata in nulla dalla partecipazione conformistica e tradizionalistica a celebrazioni del tutto avulse dal ‘prima’ e dal ‘dopo’?  Ancora nel 1984 un vescovo siciliano poteva notare, in proposito, che

«il giorno del Signore, perciò, non può non essere il giorno della condivisione, della carità, della ricerca degli ultimi. Sarebbe un controsenso, e molto spesso lo è, partecipare all’assemblea domenicale e poi dimenticarsi dei fratelli che soffrono per insoddisfatte esigenze primarie di vita»[18].

Certo, quando si toccano questi argomenti, i fraintendimenti linguistici sono possibili, se non inevitabili. Può darsi che nel vocabolario di altri osservatori ciò che io chiamo – non senza perplessità e riserve – ‘spiritualità’ venga definito ‘religiosità’ o, addirittura, ‘religione’. Ma anche in questi casi sarebbe, a mio avviso, opportuno che non ci si riferisse a nulla di ‘rivelato’ dall’Alto in maniera esplicita ed esclusiva, bensì a fenomeni psico-sociologici. Per questo sono, sì, d’accordo con Romano Guardini quando scrive che

«se il giorno del riposo dev’essere ciò che intende la sua essenza, non può semplicemente consistere nel fatto che in esso non si lavora. Questo non basta a conferirgli quella validità che giustifica e garantisce alla lunga la cessazione dal lavoro. E tanto meno basta il fatto che in esso avvengano cose che servono al sollievo e alla gioia o che arricchiscono culturalmente. E un’altra volta non basta che in esso si sviluppi un sentimento della comunità fra coloro che riposano, dopo che sono stati anteriormente nella comunità del lavoro. Tutto ciò rimane in una sfera empirica. Occorre di più. Un riposo autentico ha sempre avuto una dimensione che trascende l’empirico. Essa fu sempre improntata dal carattere della festa, e la festa è un fenomeno religioso»[19].          

Sono altresì d’accordo quando egli aggiunge la constatazione storica che «nell’Occidente la festa religiosa fu per duemila anni sostanziata dalla fede cristiana»[20] e che «la parte del mondo segnata dal cristianesimo, vale a dire in ogni caso l’Europa e l’America, ha le proprie radici nel cristianesimo» [21] (almeno se si sottintenda che abbia le radici anche nel cristianesimo e non solo in esso).

Ma, a più di sessant’anni di distanza da quando il grande pensatore italo-tedesco scriveva le sue pagine, non posso concordare con la sua convinzione che «queste radici sono, a dispetto delle defezioni, vive ancora»[22]. E forse egli stesso, oggi, avrebbe mutato parere.

Per fortuna, la domenica cristiana è ‘sacra’ («un organo importante nell’insieme della vita umana»[23]) perché è una ‘festa’, ma non è una ‘festa’ perché ‘cristiana’. Se lo fosse, infatti, il tramonto del cristianesimo comporterebbe inevitabilmente il tramonto di ogni ‘domenica’.

La ‘domenica’ (o un suo equivalente funzionale) può avere un futuro, anche oltre la tradizione cristiana, perché risponde a esigenze antropologiche universali che attestano la dimensione ‘spirituale’ dell’essere umano. Qui siamo a un livello così radicale da precedere – e render possibile – ogni opzione teistica, atea o agnostica minimamente autentica. In questo senso, e in questo senso soltanto, posso sottoscrivere l’asserzione di Guardini:

«Se la domenica scompare, si avrà un ulteriore e decisivo passo avanti verso l’esteriorizzazione della esistenza. Ma la perdita di sostanza umana, l’indebolimento dell’autentica forza umana creatrice di storia, non potranno essere equilibrati da vantaggi tecnici ed economici. Anche coloro per i quali il nucleo cristiano della domenica non ha più validità dovrebbero prendere in considerazione questi aspetti e vedere la domenica non soltanto da prospettive tecniche o formali-neutrali, ma da più profonde prospettive» [24].

Una di queste «più profonde prospettive» è quanto un numero crescente di autori denomina col termine “spiritualità”.  Non posso in questa sede riassumere neppure brevemente i volumi che ho dedicato ad una, sia pur incompleta, rappresentazione di tale spiritualità che ho qualificato anche come ‘filosofica’[25]. Il lettore intuirà da sé che essa include – tra molto altro – il senso critico, l’esigenza della pausa, l’attitudine alla meditazione, il gusto del silenzio contemplativo, l’attrazione verso ogni forma di bellezza naturale e artistica, la capacità di dialogare senza pregiudizi, la ripugnanza viscerale verso l’ipocrisia, la preoccupazione fattiva per le sorti del pianeta, la postura nonviolenta, la comunione solidale verso ogni genere di viventi, la cura per alleviare ogni causa di sofferenza, il tratto gentile, i modi affabili, il piacere dell’umorismo [26]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021 
Note
[1] R. Guardini, La domenica: ieri, oggi e sempre in Idem, Ansia per l’uomo, Morcelliana, Brescia 1969, vol. II: 214.
[2] Ibidem.
[3] Ivi: 215. In Esodo 20, 8-11 si legge infatti: «In sei giorni farai il tuo lavoro, ma il settimo giorno cesserai, affinché possano riposarsi il tuo bue e il tuo asino e possano riprendere fiato il figlio della tua serva e il forestiero».
[4] Ibidem.
[5] Ivi: 217.
[6] Lettera ai Romani, VIII.
[7]  CEI, Il giorno del Signore, Dehoniane, Bologna 1984: 20, 14. Si coglie agevolmente l’eco di celebri pagine agostiniane: la storia dell’intera umanità, secondo il padre della Chiesa latina, si sarebbe conclusa con il Dies dominicus, «il quale sarà come l’ottavo giorno consacrato con la risurrezione di Cristo e che figura il riposo eterno, non solo dello spirito, ma anche del corpo. Là riposeremo e vedremo; vedremo ed ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che sarà nella fine senza fine. E quale altro fine è il nostro se non quello di pervenire al regno che non ha fine?» (La città di Dio, XXII: 30, 5). Brani agostiniani paralleli, inseriti nell’alveo della tradizione cristiana anteriore e posteriore, nonché commentati, si trovano in J. Pieper, Felicità e contemplazione, Morcelliana, Brescia 1962: 49-57.
[8] R. Guardini, La domenica, cit.: 223.
[9] A. Gnocchi – M. Palmaro, Contro il logorio del laicismo moderno. Manuale di sopravvivenza per cattolici, Piemme,  Casale Monferrato, 2006: 62-63.
[10] CEI, Il giorno del Signore, cit.:  5 (6-7).
[11] R. Guardini, La domenica, cit.: 225.
[12] Ivi: 226.
[13] Ivi: 227.
[14] Ibidem.
[15] Ivi: 240.
[16] Ivi: 218.
[17] Ivi: 228-229.
[18] V. Mondello, Il giorno del Signore, il Signore dei giorni, LDC, Leumann 1984: 15, 20.
[19] R. Guardini, La domenica, cit.: 233.
[20] Ivi: 233 – 234.
[21] Ivi: 234.
[22] Ibidem.
[23] Ivi: 235.
[24] Ivi: 236 – 237.
[25] Nel 2015 ho pubblicato Mosaici di saggezze. La filosofia come nuova antichissima spiritualità, Prefazione di O. Franceschelli, Diogene Multimedia, Bologna. Esauritasi anche la seconda edizione (2016), l’editore ha preferito ripubblicare il testo distribuendolo in tre più maneggevoli volumi.  Pur essendo autonomi, sarebbe preferibile leggerli in questa sequenza: Voglio una vita spregiudicata. La filosofia come spiritualità per chi ritiene di non averne una (2020); Tremila anni di saggezza. La spiritualità nella storia della filosofia (2020); La filosofia come terapia dell’anima. Linee essenziali per una spiritualità filosofica (2019).
[26] La spiritualità o coinvolge il soggetto in tutte le sue dimensioni (anche sociale) o non è autentica. Per questo, da quasi venti anni, ho proposto a un piccolo gruppo di amiche e di amici di darci un appuntamento mensile per sperimentare, in pratica, una spiritualità laica, naturale, basica (che, nella mia visione, coincide in buona parte con una spiritualità filosofica a-confessionale). Sono nate così le “Domeniche di chi non ha chiesa” che si svolgono in maniera sobria, essenziale: ci si incontra alle 11 di un mattino (solitamente la prima domenica di ogni mese, per facilitare la memorizzazione dell’appuntamento) e, per la prima mezz’ora, nell’attesa anche dei ritardatari, ci si accoglie a vicenda. Dalle 11,30 un volontario – che si è proposto il mese precedente – offre uno spunto di meditazione: una poesia o un brano musicale o un frammento di film o una pagina di romanzo o un testo da lui scritto per l’occasione…In clima di silenzioso raccoglimento, chi vuole re-agisce all’input condividendo proprie esperienze o intuizioni o riflessioni: gli altri presenti possono recepire o lasciar cadere i contributi dei singoli, evitando di entrare in dialettica quando non sono d’accordo con ciò che è stato offerto al gruppo. Verso le 13 si chiude la parentesi meditativa e si apre la fase conviviale, liberamente festosa: sulla tavola ognuno mette a disposizione di tutti qualcosa da mangiare o da bere, mentre si chiacchiera con chi si vuole su ciò che si vuole. Di solito, prima di congedarsi verso le 16-17, ci si scambiano le informazioni su incontri, progetti eventi, manifestazioni… in calendario per le quattro settimane successive, quasi a sottolineare che il ‘riposo’ domenicale non vuole costituire una via di fuga dalle proprie responsabilità professionali, sociali e politiche. Tranne periodi di emergenza – quali gli ultimi due anni di pandemia – gli incontri mensili si svolgono presso la “Casa dell’equità e della bellezza” di Palermo che è anche attrezzata come casa di ospitalità per chi desiderasse partecipare a qualcuna di queste domeniche di spiritualità laica (per altre informazioni e contatti: a.cavadi@libero.it).

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Augusto Cavadi, tra i pionieri della filosofia-in-pratica contemporanea, già docente presso il Liceo “G. Garibaldi” di Palermo, è fondatore della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”. Collabora stabilmente con La Repubblica-Palermo. I suoi scritti affrontano temi relativi alla filosofia, alla pedagogia, alla politica, con particolare attenzione al fenomeno mafioso, nonché alla religione, nei suoi diversi aspetti teologici e spirituali. Tra le ultime sue pubblicazioni si segnalano: Il Dio dei mafiosi (San Paolo, 2010); La bellezza della politica. Attraverso e oltre le ideologie del Novecento (Di Girolamo, 2011); Il Dio dei leghisti (San Paolo, 2012); Mosaici di saggezze – Filosofia come nuova antichissima spiritualità (Diogene Multimedia, 2015); La mafia desnuda – L’esperienza della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone” (Di Girolamo, 2017); Peppino Impastato martire civile. Contro la mafia e contro i mafiosi (Di Girolamo, 2018), Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi (SCe, 2020).

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