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La domenica ieri, oggi e (forse) domani
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2021 @ 02:17 In Letture,Religioni | No Comments
di Augusto Cavadi
Siamo in tempo di secolarizzazione, di de-sacralizzazione, di laicizzazione o siamo già trapassati in una fase di post-secolarizzazione, di ri-sacralizzazione, di forme nuove di religiosità (più o meno autentica, più o meno idolatrica)? In mancanza di idee precise, lascio in sospeso la domanda. Ciò che mi sembra, comunque, indubbio è che in tutto l’Occidente il cristianesimo istituzionale (sia cattolico che protestante) agonizza in una crisi irreversibile. Sulla diagnosi concordano osservatori preoccupati, anzi amareggiati, e osservatori emotivamente distaccati, quando non compiaciuti.
Di tutta questa complessa problematica vorrei qui ritagliare un solo aspetto: il senso della domenica. E lo faccio perché convinto che si tratti di uno di quegli elementi di rilevanza non solo teologico-religiosa, ma anche antropologico-sociale i cui mutamenti meriterebbero di essere seguiti con attenzione critica, invece di lasciarli accadere come meri effetti di decisioni politiche ed economiche più o meno anonime.
Le tre più numerose religioni monoteistiche conoscono la scansione del mese in settimane, ciascuna delle quali trova coronamento in una giornata festiva (il sabato per gli ebrei, la domenica per i cristiani e il venerdì per gli islamici). Il “giorno del Signore” è prima di tutto «quel giorno in cui l’uomo può respirare e liberarsi dal giogo del lavoro; può dimenticare l’inutilità» (almeno relativa, se commisurata con l’impiego di energie necessario ad ogni realizzazione) «del suo sforzo e semplicemente vivere, sicuro che Dio ha cura di lui» [1].
E non solo il cittadino autonomo, ma anche lo schiavo e l’animale: «tutti dovevano vivere il sabato come giorno della liberazione» [2]. Oltre che “il giorno del riposo”, il sabato è «il giorno in cui l’uomo diviene consapevole della sua dignità: che egli nonostante tutto è creatura di Dio»[3]; infine è «quel giorno in cui l’uomo deve pensare a Dio in modo speciale, dato che negli altri giorni le preoccupazioni dell’esistenza glielo fanno così facilmente dimenticare»[4].
I cristiani, nei primi secoli, continuano a celebrare il sabato; poi vi aggiungono il primo giorno dopo il sabato in quanto giorno della resurrezione di Gesù; infine sostituiscono il sabato con la domenica, nella quale celebrano «la quintessenza della fede cristiana: la vittoria dell’amore di Dio sul peccato e sulla morte e, in questa vittoria, la rivelazione di che cosa è Dio»[5]. Per essi, la domenica è anche il giorno dell’attesa escatologica, dell’utopia: non solo gli esseri umani, ma «la creazione stessa sarà liberata dalla servitù della corruzione, per avere parte alla libertà della gloria dei figli di Dio» [6].
Come si leggeva in una Nota pastorale della Conferenza episcopale italiana del 1984, la domenica è
Su questo aspetto escatologico della domenica c’è da notare che, un po’ paradossalmente, esso contiene in germe il superamento di alcune caratteristiche della domenica che attualmente riterremmo irrinunciabili. Infatti Apocalisse 21, 1-2 adotta, per significare il mondo nella sua versione definitiva, rigenerata da Dio, l’immagine della Gerusalemme celeste e di essa afferma che non avrà più templi (21, 22):
La domenica è ormai quasi dappertutto, quasi per tutti, un giorno come un altro. Le ragioni della produzione, del commercio e dei servizi alla persona (soprattutto in campo turistico) hanno avuto la meglio sulla tradizione fondata su esigenze bio-psicologiche e su istituzioni culturali. In un libro gli autori hanno efficacemente fotografato la situazione di molti (per fortuna: non di tutti i) nostri contemporanei:
Gli autori del brano riportato accennano a “un bivio”: la domenica canonica, del ‘precetto’ cattolico oppure la domenica vuota, del ‘precetto’ consumistico. E, in effetti, sociologicamente, sembrerebbe che abbiano ragione. Molta gente si rifugia in chiese di cui non condivide né il credo né la morale pur di evitare lo squallore dei grandi magazzini; proprio come altra gente, altrettanto priva di fede, si ritrova a ciondolare annoiata fra i corridoi dei grandi magazzini pur di non cedere al conformismo tradizionalistico e ipocrita di una pratica senza convinzioni.
Il rifugio fuori porta si rivela una via di fuga deludente. La mentalità contadina e montanara sospinge, per così dire spontaneamente, al rispetto ecologico; non altrettanto la mentalità urbana. Ci si scopre infatti ineducati a convivere con le piante, con i fiumi, con gli altri animali: noi cittadini avvertiamo l’impulso (che non sempre controlliamo) a strappare fiori, a uccidere passeri, a incidere con il coltellino i tronchi d’albero. Sporchiamo con i rifiuti i boschi, quando non li incendiamo; inquiniamo le acque correnti; distruggiamo, con radioline e smartphone, il silenzio delle colline e delle valli. Tranne in eccezioni tuttora abbastanza rare, una domenica all’aperto è una giornata di profanazione.
Quali possono essere alcune ragioni di questa metamorfosi del modo di vivere la domenica, della sua riduzione a un giorno di pura «evasione, nel quale l’uomo, vestito a festa ma incapace di fare festa, finisce con il chiudersi in un orizzonte tanto ristretto che non gli consente più di vedere il cielo»? [10] Una prima ragione: il riposo – l’astensione dal lavoro – è
ad evitare le quali «il riposo ristoratore ed allietante» si capovolge in incombenza faticosa: un’“impresa” al rovescio» [11].
Una seconda ragione dell’evaporazione della domenica la si può individuare nell’amplificazione sociale, collettiva, del disagio or ora descritto. Non è infatti solo il singolo individuo che non sa che farsene di un giorno liberato dalla fatica, ma più in generale «l’uomo moderno – soprattutto quello che non ha più convinzioni religiose e a cui mancano i significati che ne conseguono e gli atti religiosi del culto che riempiono il tempo domenicale»[12].
Perché una società che già ha abbandonato i riti del passato ormai inattendibili, ma non ha ancora inventato degli equivalenti funzionali, dovrebbe mobilitarsi per salvaguardare la domenica? Essa non sembra aver trovato, alla domanda su come gestire il tempo libero, «una risposta autentica, ossia illuminante, traducibile nella realtà dell’uomo medio». L’esperienza di molte famiglie è, infatti, che si riduca a
Non va taciuta almeno una terza ragione di carattere ‘strutturale’ (nell’accezione marxiana del termine):
Forse si potrebbe aggiungere una quarta motivazione di ordine psico-pedagogico. Le Chiese cristiane – la cattolica in particolare – hanno presentato la celebrazione della domenica più come un dovere che come un diritto; più come un ‘precetto’ (vocabolo militare) che come un privilegio, un premio, un dono, un’opportunità. Guardini, nell’epoca tetra pre-conciliare di papa Pio XII, poneva la questione con un interrogativo retorico:
Gli uomini e le donne del nostro tempo faticano già ad accettare un Dio comprensivo e filantropo; immaginiamoci con quanta disponibilità possano accettarne Uno che emani imperativi perentori; che – alquanto contraddittoriamente – ordini all’umanità di assumere, per così dire a comando, un atteggiamento festoso.
La domenica: cosa potrebbe diventare
L’eclissi della domenica come giorno dedicato a Dio è irreversibile? Secondo la mia opinione soggettiva – che non vuole avere nessuna pretesa di scientificità – la risposta è affermativa. Se l’origine della domenica è stata, essenzialmente, religiosa («Ogni domenica è Pasqua» [16]), ritengo che la sua persistenza – o, secondo i casi, la sua rinascita – non potrà avvenire sulla base di argomentazioni religiose. Bisogna, indubbiamente, offrire al cittadino medio le occasioni per «fare dei suoi giorni liberi» – quindi la problematica si estende dalle domeniche ai sabati, e poi anche alle ferie estive e invernali – «qualcosa di più che un tempo di spreco di denaro e di energie vitali, o di più che un tempo di vuoto e di noia»[17]: ma sarebbe una sconfitta certa se si puntasse su occasioni esclusivamente o prevalentemente o essenzialmente ‘religiose’. L’unica strada percorribile, almeno ai miei occhi, si snoda su un terreno pre-religioso: il terreno della spiritualità ‘naturale’ o, meglio, ‘storico-antropologica’ (dal momento che, come sappiamo, non c’è ‘natura’ nell’essere umano che non sia storicamente contrassegnata). Mi riferisco a un insieme di princìpi, costumi, simboli, istituzioni, relazioni interpersonali, atteggiamenti virtuosi…che precedono, e fondano, eventuali ulteriori opzioni di tipo ideologico-politico e/o teologico-confessionale: un insieme di qualità ‘laiche’ che costituiscono la sintassi elementare della coltivazione dell’humanum, senza il quale le battaglie sociali o le devozioni mistiche puzzano di inautenticità. Quando non si configurano come pericolose minacce fondamentaliste.
Sono convinto che la stessa domenica ‘cristiana’ abbia iniziato a scricchiolare dalle fondamenta – nonostante l’apparente unanimità della frequenza ai riti liturgici – proprio per la sottovalutazione di questa spiritualità basica, elementare. Per secoli si è stati fedeli alle convocazioni festive pur restando estranei – nel resto della settimana, nel resto dell’anno – a un’autentica apertura a quella Parola (Logos, Tao) che ci raggiunge, prima ancora che in Libri sacri, attraverso la duplice, inscindibile, mediazione dell’universo (fisico) e della storia (umana). Le nostre chiese sono state affollate da gente che non sospettava neppure di dover cercare il divino nell’interiorità, nell’esperienza della convivialità e del servizio: perché stupirsi che se ne sia allontanata delusa nel vedersi mutata in nulla dalla partecipazione conformistica e tradizionalistica a celebrazioni del tutto avulse dal ‘prima’ e dal ‘dopo’? Ancora nel 1984 un vescovo siciliano poteva notare, in proposito, che
Certo, quando si toccano questi argomenti, i fraintendimenti linguistici sono possibili, se non inevitabili. Può darsi che nel vocabolario di altri osservatori ciò che io chiamo – non senza perplessità e riserve – ‘spiritualità’ venga definito ‘religiosità’ o, addirittura, ‘religione’. Ma anche in questi casi sarebbe, a mio avviso, opportuno che non ci si riferisse a nulla di ‘rivelato’ dall’Alto in maniera esplicita ed esclusiva, bensì a fenomeni psico-sociologici. Per questo sono, sì, d’accordo con Romano Guardini quando scrive che
Sono altresì d’accordo quando egli aggiunge la constatazione storica che «nell’Occidente la festa religiosa fu per duemila anni sostanziata dalla fede cristiana»[20] e che «la parte del mondo segnata dal cristianesimo, vale a dire in ogni caso l’Europa e l’America, ha le proprie radici nel cristianesimo» [21] (almeno se si sottintenda che abbia le radici anche nel cristianesimo e non solo in esso).
Ma, a più di sessant’anni di distanza da quando il grande pensatore italo-tedesco scriveva le sue pagine, non posso concordare con la sua convinzione che «queste radici sono, a dispetto delle defezioni, vive ancora»[22]. E forse egli stesso, oggi, avrebbe mutato parere.
Per fortuna, la domenica cristiana è ‘sacra’ («un organo importante nell’insieme della vita umana»[23]) perché è una ‘festa’, ma non è una ‘festa’ perché ‘cristiana’. Se lo fosse, infatti, il tramonto del cristianesimo comporterebbe inevitabilmente il tramonto di ogni ‘domenica’.
La ‘domenica’ (o un suo equivalente funzionale) può avere un futuro, anche oltre la tradizione cristiana, perché risponde a esigenze antropologiche universali che attestano la dimensione ‘spirituale’ dell’essere umano. Qui siamo a un livello così radicale da precedere – e render possibile – ogni opzione teistica, atea o agnostica minimamente autentica. In questo senso, e in questo senso soltanto, posso sottoscrivere l’asserzione di Guardini:
Una di queste «più profonde prospettive» è quanto un numero crescente di autori denomina col termine “spiritualità”. Non posso in questa sede riassumere neppure brevemente i volumi che ho dedicato ad una, sia pur incompleta, rappresentazione di tale spiritualità che ho qualificato anche come ‘filosofica’[25]. Il lettore intuirà da sé che essa include – tra molto altro – il senso critico, l’esigenza della pausa, l’attitudine alla meditazione, il gusto del silenzio contemplativo, l’attrazione verso ogni forma di bellezza naturale e artistica, la capacità di dialogare senza pregiudizi, la ripugnanza viscerale verso l’ipocrisia, la preoccupazione fattiva per le sorti del pianeta, la postura nonviolenta, la comunione solidale verso ogni genere di viventi, la cura per alleviare ogni causa di sofferenza, il tratto gentile, i modi affabili, il piacere dell’umorismo [26].
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