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Identità e modernizzazione: Marshall Sahlins, “big man” dell’antropologia

copertina

Marshall Sahlins (Chicago, 27 dicembre 1930 – 5 aprile 2021). Venne in Italia a fare una lezione magistrale, nel 2011, a Torino, ospite dell’Accademia delle Scienze.

di Lia Giancristofaro

Che notte, per gli antropologi! Nel giro di poche ore, tra il 5 e il 6 aprile 2021 sono scomparse due grandi figure dell’antropologia statunitense, Marshall Sahlins e Paul Rabinow. C’è stato subito un effetto-domino tra tutti gli studiosi del mondo. Ma le loro antropologie non avrebbero potuto essere più diverse, e fin dall’inizio io ho sposato la linea di Sahlins, che era molto apprezzato da Alfonso M. Di Nola.

Ad Alfonso Di Nola devo gran parte della mia educazione all’antropologia, condotta ogni estate per oltre dieci anni consecutivi: una me adolescente passava dalle versioni di greco all’ascolto dei discorsi di un simile gigante intellettuale, mentre cucinavamo (Di Nola era uno chef eccezionale) o sistemavamo casa assieme alla famiglia di Ireneo Bellotta. Di Nola non amava certa antropologia “necrofora” e “piagnona”: la facile “geremiade” proprio non lo persuadeva, e prediligeva autori materialisti, pratici, con una vena di ottimismo. Mi invitò moltissimo a studiare in lingua straniera: francese, inglese e, avrebbe voluto, anche tedesco, ma non ne fui capace. Era un esercizio culturale, diceva. Mi propose la lettura di Godelier e Sahlins, in lingua originale.

In seguito alla sua morte (1997), trovandomi negli States, i suoi insegnamenti mi portarono ad andare a sentire una conferenza di Sahlins, che magicamente mi diede l’opportunità di interloquire con lui. Era una persona molto ironica, in particolare criticava il postmodernismo e la smania della produttività. Era il 2000, e lui era una star della Scuola di Chicago (vi insegnava dal 1974): una star marcata dalla ribellione e dalla competizione con Clifford Geertz, dalla cui antropologia interpretativa egli si distaccava parecchio. A me, questa sua “praticità” affascinava parecchio. Già allora aveva ricevuto un’infinità di premi e riconoscimenti, presi tutti con leggerezza e ironia. In quell’insieme di scuole, relazioni e contrapposizioni, possiamo avere una visione d’insieme dell’antropologia culturale americana dopo la seconda guerra mondiale: un’antropologia a misura di persona, che dava la fortuna di interloquire con maestri-persona, di trattenersi dopo le conferenze o addirittura di ricevere un bigliettino di carta strappato da un quaderno, con sopra un prezioso indirizzo elettronico scritto con la penna biro.

2Quando parlai con Sahlins, avevo letto Stone age economics, 1972, trad. it. 1980; Culture and practical reasons, 1976, trad. it. 1994. E il rivoluzionario Islands of history, 1985, trad. it. 1986 [1]. Da questi libri, avevo ricavato la sua ipotesi di quanto fossero più felici e pieni di risorse i popoli di caccia e raccolta, non assillati dal lavoro e dalla dimensione della produttività, in confronto a noi moderni che, sperando di essere felici, naufraghiamo nella competizione più sfrenata, ammazzandoci di lavoro e di stress per ottenere un fantomatico successo sociale. Anche Maurice Godelier era su questa linea, all’EHESS. Questo capovolgeva l’idea guida del progresso moderno, scatenando la riflessività nei suoi lettori. Nel mio caso, ha contribuito a creare una svolta radicale, a modificare il mio progetto di vita.

Quando lo incontrai, non avevo ancora fatto un vero, grande corso di studi in Antropologia; dunque sentivo gigantesche voragini nella mia preparazione. Però, avevo studiato bene il diritto e l’economia politica, avevo compreso Keynes e le due diverse direzioni offerte all’umanità dal capitalismo. Provavo rigetto verso il neoliberismo, percependolo come nemico di ogni morale, di ogni visione di un “bene comune”, di ogni possibile rispetto dell’ambiente e dei diritti delle persone. Da materialista storica educata da Di Nola, avevo compreso il paesaggio nel quale si muoveva Sahlins e le alternative che egli continuamente evidenziava nella sua prassi comunicativa, cercando instancabilmente di controbilanciare l’accecamento delle coscienze. Volevo essere ottimista sull’umanità, ma in effetti qualcosa non quadrava: infatti, il relativismo democratico, con un modo di procedere più “sofista” e rispettoso delle persone, avrebbe potuto prevalere da millenni, in Occidente. Eppure, per millenni, fino al Nuovo Millennio, è prevalso l’assolutismo platonico che, attraverso forme di sublimazione, idealizzazione e alienazione che vanno dall’organizzazione statale alla religione istituzionalizzata, dalla politica economica alla gerarchia di genere, schiaccia e distrugge ogni idea di uguaglianza e di libertà, corrompendo la portata di questo prezioso intreccio e, addirittura, facendo diventare i due termini (uguaglianza e libertà) come uno alternativo all’altro.

Tuttavia, le idee di Sahlins sul debito e sul credito non venivano da un comodo e verboso anarchismo critico, ma da una ricerca raffinata, ironica e politicamente impegnata nella strenua difesa del carattere culturale di ogni essere umano e delle differenze culturali come “scrigno” di infinite e creative possibilità nascenti dalle relazioni umane. La nascita era un concetto che lo affascinava molto, e che ha ispirato la sua lettura della parentela: «La procreazione è la più forte matrice parentale espressa dalle società. Ma le categorie di parentela non sono metafore delle relazioni di nascita. Piuttosto, è la nascita ad essere una metafora delle nostre relazioni di parentela» [2]. Con questa raffinata ironia, parlava con le persone, rispondeva alle domande e rilasciava le sue freddure.

Quando lo ascoltai, ero casualmente finita nel gruppo di fortunati che dopo la conferenza ricevevano un agile scambio di battute, di cui mi colpì l’ultima, che annotai su ciò che mi trovavo in mano, cioè la mappa della città di Buffalo: «Opposite are two things which are identical in every way, but one». La frase può essere interpretata in vario modo, e ottimisticamente pensai che alludesse a come gli umani si intrappolino con le loro mani in disuguaglianze sostanzialmente capziose e pretestuose, ma in realtà sono appunto identici. In ogni caso, quelle parole le pronunciò guardando in faccia me, una trentenne che in quel momento rimaneva letteralmente a bocca aperta e con lo sguardo perso nel vuoto perché attratta dal “mito vivente” dell’antropologia statunitense: una contraddizione in termini, se consideriamo l’ironia caustica di cui era intrisa ogni sua parola.

1

In questo testo, partendo dal caso della ‘divinizzazione’ del capitano James Cook sull’isola delle Hawaii, Sahlins si chiede se, quando gli studiosi occidentali scrivono di società non occidentali, riescono davvero ad articolare i significati e le logiche dei popoli non occidentali

Dal neo-evoluzionismo al colpo di scena ontologico, passando per l’antropologia storica che mi ha conquistata, Sahlins è stato il protagonista di tutti i cambiamenti dell’antropologia mondiale dagli anni ‘60 ai nostri giorni. Alle centinaia di necrologi di colleghi che evocano le immense vette raggiunte, vorrei aggiungere che Sahlins è stato uno dei pochi statunitensi che conosceva e seguiva gli sviluppi delle scienze sociali europee e soprattutto francesi, compreso il lavoro dei giovani sconosciuti, quando trovava un certo interesse per le loro opere. Egli era privo di quei pregiudizi, di quegli stereotipi accademici che a volte fanno sì che certi antropologi guardino con snobismo chi magari si occupa di folklore, di cose “vicine”. La sua apertura al discorso dell’etnologia europea era certa, tanto che, avendogli di recente chiesto una prefazione o una breve nota ad un mio volume, scritto in inglese americano, sui riti della preparazione casalinga del pomodoro, egli, contro ogni previsione, non solo mi aveva risposto, ma addirittura aveva dato la sua disponibilità, perché gli sembrava che la mia ricerca valorizzasse la creatività delle persone e le ibridazioni culturali.

Che si trattasse di popoli del Pacifico o di gruppi di emigranti del Suditalia, a lui interessava evidenziare le discrepanze e gli scollamenti del paradosso storico, cioè dell’egemonia culturale del mondo globale. Perché nessuno, in realtà, vive la sua vita davvero da “lontano”. Ogni giorno, è sempre il sistema globale che è alla periferia, e non le persone, impegnate in carne ed ossa nella loro quotidianità. Nel momento in cui gli antropologi, tutti presi dalle loro teorie, vogliono spostarsi dal concetto di cultura per vedere solo la storia, i popoli indigeni li prendono di contropiede, e usano il concetto di cultura per creare le proprie storie, in modo autonomo, magari folkloristico, ma autonomo e creativo.

pp48finalcoverSahlins sembra dire ciò che in tanti, tra gli antropologi, da tempo pensiamo, preoccupati dall’overdose di antropologia critica, la quale sembra bellicosamente intenzionata a distruggere a picconate il concetto di cultura: insomma, presto tutti avranno una cultura, tutti si riconosceranno in una cultura, e solo gli antropologi ne dubiteranno. Sarebbe una fine infausta e ridicola per l’antropologia, autodistruggersi e disfarsi dell’utile concetto che ha individuato, elaborato e limato per centocinquant’anni. La cultura esiste, ed è un prezioso confine che serve a differenziarsi. Evitando le critiche radicali (e inutili) al concetto di cultura, questo è, credo, il punto centrale sul quale dobbiamo discutere oggi, grazie a Sahlins: il modo in cui le persone, attribuendo rilevanza contemporanea alla loro identità, danno forme nuove e moderne alle loro culture, secondo quella che Sahlins indicava come «forma di autoctonizzazione della modernità» [3].

In questa prospettiva aperta e coraggiosa, trovo nel lascito di Sahlins una gratuità assoluta della ricerca, che nel 2015 ribadisce in un nuovo libro, provocatorio e, ancora una volta, controcorrente, Confucius institutes: Academic malware [4]. La ricerca di Sahlins ha a cuore il futuro, e indica una strada percorribile e generosa, che non è quella arida, narcisistica e autoreferenziale della critica fine a se stessa, che erode le sue fondamenta e divora i suoi figli (in questo caso, i giovani antropologi). Come tutti i miti, Sahlins ha una fine che è nostro compito spiegare, ma non come antecedente di ciò che verrà. Il passato non è semplicemente un prologo, ma un paradigma, e Sahlins, sotto molti aspetti, è un “campione mondiale” dell’antropologia e della riflessione intellettuale. Come studioso coraggioso in grado di prendere tutti di contropiede, Sahlins era collocabile, anche da vivo, in una dimensione atemporale e, appunto, di “distillato culturale”: una dimensione mitologica.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021
Note
[1] Tra le altre opere, segnalo Historical metaphors and mythical realities, 1981, trad. it. 1992; How ‘natives’ think. About Captain Cook, For Example (1995; trad. it. 1997); Culture in practice: selected essays (2000); Apologies to Thucydides (2004); The Western illusion of human nature (2008); What kinship is and is not (2013; trad. it. 2014); On kings (con D. Graeber, 2017; trad. it. Il potere dei re. Tra cosmologia e politica, 2019).    
[2] Marshall Sahlins, What kinship is and is not (2013; trad. it. 2014, La parentela, cos’è e cosa non è, Eleuthera, pp. 5-6).
[3] Marshall Sahlins, Pacific Identities and Modernities, in «The New Pacific Review / La Nouvelle Revue du Pacifique», 1 (1), 1999: 18-23.
[4] Negli ultimi anni, gli Istituti Confucio sono sorti in tutto il mondo, con notevoli contributi dalla sede centrale di Pechino. Secondo Sahlins, si tratta di una colonizzazione politico-governativa che minaccia i principi di libertà e integrità accademica che dovrebbero essere alla base del sistema di istruzione superiore.

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Lia Giancristofaro, Ph.D., DEA, è professore associato di Antropologia Culturale all’Università degli Studi di Chieti-Pescara. Si occupa di diritti umani e culturali, di culture folkloriche e popolari e delle nuove responsabilità politiche delle ONG. In rappresentanza della Società Italiana per la Museografia dei Beni DemoEtnoAntropologici, ha osservato diverse sessioni dell’Assemblea Generale degli Stati-Parte della Convenzione Unesco per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale. È autrice di numerosi studi. Le sue pubblicazioni più recenti sono: Il segno dei vinti, antropologia e letteratura nell’opera di Giovanni Verga, 2005; Riti propiziatori abruzzesi, 2007; Il rituale dei serpari a Cocullo, 2007; Il ritorno della tradizione. Feste, propaganda e diritti culturali in un contesto dell’Italia centrale, 2017; Cocullo. Un percorso italiano di salvaguardia urgente, 2018; Politiche dell’immateriale e professionalità demoetnoantropologica in Italia, 2018; Patrimonio culturale immateriale e società civile, 2020 (con Valentina Lapiccirella Zingari).

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