Stampa Articolo

Appunti e disappunti sulle parole del Covid

attesa-in-un-punto-vaccini-allospedale-ingrassia-di-palermo

Attesa in un punto vaccini all’Ospedale Ingrassia di Palermo (ph. N. Giaramidaro)

di Nino Giaramidaro

Di nuovo davanti al televisore. Raffiche di sofisticati mitragliatori, micidiali fucili che annientano i bersagli, pistole che non si scaricano mai, esplosioni con persone che volano in aria e atterrano incolumi, fiamme, palazzi e altre costruzioni fra incontenibili lingue di fuoco. Ditata sul telecomando e precipito dalla cooking pan to burning – traduzione autonoma, voglio dire dalla padella nella brace – e sì, perché tutte queste sterminazioni sono americane; gli italiani sullo schermo non sparano nemmeno castagnole.

E imperversano ispettori, vice ispettori, capitani e sergenti, agenti scelti e da quattro soldi, quasi tutti “sotto copertura”, che si infiltrano dovunque e rimangono vivi. E agenti Fbi, Cia, di altre sette meno conosciute, sceriffi e assimilati con gli Stetson, i Ray Ban e le loro automobili oceaniche e molleggiate che attraversano deserti e strade incredibili. Tutta roba attorno a telefonini di vent’anni fa, apparecchi fissi da collezione che fanno da spia all’epoca di questi filmati. Sono spinto a credere che vengano acquistati a chilo – o a detonazioni –dalle reti Tv italiane.                                                                

Continuo in un frenetico saltabeccare – zapping è troppo brutto – da un canale all’altro, ma trovo altri morti ammazzati, immersi in bagni di sangue, autopsie, corpo a corpo, pestaggi da uccidere qualsiasi persona anche più vigorosa del normale; ma loro rimangono alive, si scrollano le legnate e riprendono a cercare guai nel buio: perché un’altra trovata neo filmistica è quella di svolgere le azioni nel tetro, anche in una bella giornata di sole. Speriamo che Hëlios non si incazzi.                                                      

Un’incertezza sul telecomando e mi trovo nella selva oscura del Covid 19. Ascolto con apprensione nel tentativo di apprendere qualcosa sul letale mistero: non capisco nulla delle circonlocuzioni che vengono profferite con estremo spregio della lingua comune. Comorbilità, cluster, dad, spill over tante altre espressioni che veloci suonano senza il tempo di afferrarle. L’importante è che non si capisca nulla in questo paludato uso di parole inafferrabili al posto di quelle proprie. Mi sento preso dalla macchina del tempo che mi porta alla Vucciria, all’Albergheria dove c’erano quelli con la valigetta e le tre carte e tu non azzeccavi mai quella giusta.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Palermo, Vocabolari scolastici tra i rifiuti (ph. N. Giaramidaro)

Apprendo che fra la moltitudine di …ologi ci sono anche i voltologi che guardano in faccia e sanno dire di che pasta sei fatto; come faceva nel tardo Ottocento Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare. E arriviamo all’hub.  D’istinto il mio sapere in disuso mi suggerisce di aggiungere sob, gulp, sniff, sigh, gasp, brrr, slam e bum. Sono fiducioso. Queste meravigliose onomatopee non passerà tempo che verranno utilizzate per designare una qualche cosa del mondo reale. Per ora ci accontentiamo di hub dal momento che nella cabina di regia rifiutano “centro “, “punto” (sottointeso vaccini), ambulatorio, luogo e, visto che c’è un generale che guida l’avanzata delle fiale, anche postazione. Così, per evitare cluster si ricorre al meal delivery grazie ai veloci driver. Senza divertimento perché lo showbiz non funziona – avete capito?                         

A chi è destinato questo linguaggio? Certo non agli over 70/80 che, spesso nella loro insicurezza e solitudine, avrebbero bisogno di avere portata a casa una porzione di anelletti al forno o una pizza… all’arrabbiata. Rimane in lingua madre “l’evento avverso” cioè la morte, suppongo perché in anglo-americano non esiste una traduzione di questo agghindato eufemismo.

Quale arzigogolo sospinge i nostri custodi a parlarci con parole che sono pietre in un tempo bisognoso della massima comunicabilità? Non trovo altra risposta se non il disprezzo, l’esercizio del sapere-potere in maniera violenta, l’espressione coerente di una democrazia avariata. Diceva don Lorenzo Milani «Un operaio conosce cento parole, un padrone mille».                                        

libri-buttati-come-immondizie

Palermo, libri tra i rifiuti (ph. N. Giaramidaro)

Sostiene l’eretico Noam Chomsky che «la scienza ha determinato un divario crescente tra le conoscenze del pubblico e quelle possedute e utilizzate dalle élite dominanti. Il sistema – aggiunge l’eretico – è riuscito a conoscere meglio l’individuo di quanto egli stesso si conosca. Ed esercita un controllo e un gran potere sugli individui maggiori che lo stesso individuo esercita su se stesso». Esempio AstraZeneca. Malgrado nessuna agenzia di sondaggi ne abbia fatto uno – almeno non ve ne è notizia – per sapere cosa pensa il popolo di tale vaccino, da questo augusto silenzio si può anche dedurre che il popolo non pensi bene. L’Ema (Agenzia europea per i medicinali) non se la sente di dire che l’antidoto anglo-svedese può provocare trombosi, nonostante la morte di numerosi vaccinati. Prima ha dichiarato che l’AstraZeneca non c’entra con i decessi, poi che quel vaccino può provocare sparuti casi di trombosi.

I morti – non ci è concesso sapere quanti – non bastano, e nemmeno la frase di John Donne riciclata da Hemingway: ogni morte di uomo mi diminuisce. AstraZeneca l’anno scorso ha distribuito 3.144 miliardi di dividendi – fonte Google – il suo slogan è “What science can do” (cosa può fare la scienza) ma ha pure un pedigree terrificante di fattacci economico-aziendali-giudiziari, e l’Ema non ha lo spirito di Franti con il suo berrettino di tela cerata che ai funerali del re rideva.                                                                          

lo-scempio-dei-libri-nellimmondizia

Palermo, libri per strada tra i rifiuti (ph. N. Giaramidaro)

Conosciamo solo la timida punta dell’iceberg del pandemonio di interessi, regolamentari e molto obliqui, in questi numerosi mesi di pandemia. Le speranze che il letale virus fosse affrontato con la solidarietà peregrinano nelle periferie della società dove si crede ancora nel miracolo auspicato dal Papa: l’avvento di una società più equa, con i monopolisti del denaro che rinunciano ad accumulare profittando della debolezza di Stati poveri e strutture sociali più debilitate.

Forse mai si sono registrate tante ignominie di grandi e piccoli profittatori come in questa guerra moderna. Una violenza multivalente: che colpisce in modo diretto; strutturale che trafigge indirettamente; e culturale che le giustifica.

Scenario nel quale spicca l’indignazione per la brutalità delle bande di giovani che si danno appuntamento per pestarsi. Mentre i grandi si avvicinano pericolosamente a una neo guerra fredda disinteressandosi pomposamente delle guerre con le armi che bruciano Africa, Asia e serpeggiano nell’America del sud. I ragazzi e i giovani conducono le loro ferocissime belligeranze con le play station, oppure – insieme a grandi – nelle inermi campagne fuori mano con le sofisticate – e costose – armi della soft air: air soft gun (in italiano arma ad aria compressa) che sparano pallini di plastica – biodegradabile però.  Una corrente di psicologi sostiene che queste esercitazioni esorcizzano la violenza e rendono paghi i giovani delle loro pulsioni a menare le mani o le armi; altri, per converso, affermano che tutto questo guerreggiare sviluppi il desiderio di mettere in atto le atrocità immaginate.                                                            

un-libro-di-testo-studiato-da-molte-generazioni

Un libro di testo studiato da molte generazioni (ph. N. Giaramidaro)

«L’arte non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia». Questa frase, indirizzata ai giovani, è stata detta e perorata più di un secolo fa da Filippo Tommaso Marinetti, l’inventore del futurismo che propugnava la “bellezza nuova”: quella della velocità. Un’automobile «col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo è più bello della Vittoria di Samotracia». La guerra? «Sola igiene del mondo», ed esaltava il «militarismo, le belle idee per cui si muore, e il disprezzo della donna».

Il Covid 19 e le sue successive numerazioni e travisamenti, infieriscono sulla psiche dei giovani come in tutti i tempi bui e di spregio di ciò che abbiamo chiamato cultura.

Sulla strada del mio “pizzo” (corso Calatafimi basso,a Palermo) in una mattinata di sole che si annunciava leggera, mi sono imbattuto in una montagna di libri sparsi per terra attorno ad alcuni cassonetti dei rifiuti. Ho riconosciuto il manuale di Filosofia e pedagogia di Eustachio Paolo Lamanna (Le Monnier editore 1965), la Gerusalemme Liberata-Brani scelti e annotati dal professor Giuseppe Pietroluongo, Heroica, antologia omerico-virgiliana con introduzione di Concetto Marchesi (Principato editore 1942), una copia della rivista L’Espresso che aveva tirato 500 mila copie e decine di altri testi scolastici, venerati per decenni, riviste e dizionari e vocabolari. Il Grande dizionario Italiano Francese di Francesco D’Alberti di Villanova. Ho pensato al mio Campanini e Carboni di latino della Paravia (quarta edizione, 1952), con sulla copertina verde inciso un albero e la scritta “In labore fructus”, bel latino sulla cui attualità si possono nutrire dubbi.

anche-il-papa-buono-finisce-tra-i-rifiuti

Anche il Papa Buono finisce tra i rifiuti (ph. N. Giaramidaro)

Questo scempio – lenito da alcune persone che raccattavano i volumi meno danneggiati – l’ho interpretato come un’avvisaglia funesta. Ho pensato ai roghi del 10 maggio 1933 nella piazza dell’Opera (Opernplatz, ora Bebelplatz) di Berlino: 25 mila volumi bruciati (e poi milioni). Oggi in un memoriale incastrato sulla strada si legge: «Dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli esseri umani» (Heinrich Heine 1821). Mi è venuto istintivo sostituire a bruciare gettare, ed è stata una giornataccia.

L’unica certezza in questo marasma di fatti e parole che saettano sia a destra sia a sinistra come gli scooter dei “rider” e i monopattini elettrici, è che la scienza insegue alacre l’inafferrabile virus. E ci chiede fiducia che non siamo in grado di negare oltraggiando l’adagio – non so da dove mi viene – «Quello che lo scienziato studierà il contadino lo sa già».

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021

_____________________________________________________________

Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968 nel Belice.

______________________________________________________________

 

 

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Cultura, Società. Contrassegna il permalink.

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>