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EDITORIALE

ph. Gjorgji Lichovski, Premio Luchetta 2016

ph. Gjorgji Lichovski, Premio Luchetta 2016

Non sappiamo se dopo il divorzio della Gran Bretagna si prepari la balcanizzazione dell’Europa, la reazione a catena destinata a provocare l’implosione dell’Unione. Non sappiamo se la faglia che si è aperta sia l’avvisaglia del sismico precipitare di tutta l’architettura sognata e costruita dai Padri fondatori. Non sappiamo se scozzesi e irlandesi dell’Ulster si separeranno dalla Corona, se oltre il Canale della Manica si riaccenderanno le tensioni tra fiamminghi e valloni, tra catalani e spagnoli, se indipendentismi, etnicismi, tribalismi riusciranno nell’opera di deflagrazione di quel che resta del tessuto connettivo del vecchio continente. Non sappiamo ancora pienamente valutare le conseguenze di questa minacciosa slavina, ma ne conosciamo le cause, profonde, radicate  e ramificate come un verminaio alimentato e tollerato da anni, un ginepraio di crepe e di piccoli  smottamenti carsicamente diffuso. Di sicuro dopo Brexit nulla sarà più come prima.

A livello di strutture apparenti, gli inglesi sono stati chiamati ad una consultazione sull’immigrazione, avendo identificato e concentrato nel fenomeno dei profughi che premono alla frontiera le responsabilità di un’Europa debole, lontana e inerte, incapace di difendere i suoi confini e i suoi cittadini. Le migrazioni, dunque, ancora una volta al centro di snodi cruciali del nostro tempo, cartina di tornasole e nervo scoperto delle nostre democrazie e delle nostre contraddizioni.  Ma la paura dei rifugiati e ancor più dei clandestini è stata il detonatore di una crisi ben più radicale, che è eminentemente politica ma è sostanzialmente culturale. Nell’incapacità di governare la globalizzazione si può riassumere il senso di questo collasso dell’europeismo, sentimento collettivo che ha animato e appassionato almeno quattro generazioni, oggi depauperato e via via degenerato in cupo risentimento, ovvero in euroscetticismo, antieuropeismo fino a tralignare in vera e propria eurofobia. A quella “casa comune”, a cui paradossalmente guardano con speranza i tanti che non hanno più patria né casa, in fuga dalle guerre, dalle carestie e dai cataclismi climatici, ognuno di noi ha contribuito a dare fuoco, dal momento che ha violato le regole del patto fondativo e ha rinunciato a stringere un più saldo e cogente rapporto federativo.

Da qui le spinte al rilancio dei nazionalismi come ad un ritorno all’età dell’oro pre-globalizzazione,      nella generale smemoratezza delle tragedie provocate tra Ottocento e Novecento da quei miti funesti, dalla esasperazione di quegli orgogli di sovranità e di identità destinati a generare rivendicazioni di primati e dichiarazioni di guerre. Se poi sui fantasmi di un’Europa lacerata al suo interno si dovesse proiettare l’inquietante ombra di un Trump, l’ultimo ayatollah del liberismo americano, sarebbe la totale disfatta di quanto è stato costruito dalle democrazie nel quarto di secolo successivo al secondo conflitto mondiale. C’è una evidente inadeguatezza delle istituzioni politiche a fronte dello sfilacciamento di tutto un mondo allora progettato per includere le differenze, ridurre le diseguaglianze e allargare gli spazi della cittadinanza – non più unicamente legata al luogo di nascita ma universalmente correlata ai diritti umani – e oggi scientificamente volto a escludere, a discriminare e a chiudere entro muri e fili spinati la libera circolazione degli uomini e le loro fondate aspirazioni.

Dissolta la comunità di destino in cui abbiamo creduto, assuefatti al degrado di una retorica xenofoba legittimata, assistiamo impotenti e, a volte, perfino indifferenti a quanto di aberrante e di efferato accade, pur nelle pieghe di una cronaca dell’informazione elusiva o addirittura omissiva. Può così passare nel silenzio degli osservatori più attenti la notizia dell’eccidio di profughi siriani consumato l’altro giorno al confine tra Siria e Turchia, dove tra i morti uccisi dalle guardie di Ankara si sono contati quattro bambini, mentre tentavano di oltrepassare la frontiera. Eletta proprio dall’Unione Europea a guardiana delle rotte balcaniche dei migranti, la Turchia pare assolvere al suo compito con la stessa ferocia con la quale perseguita gli oppositori politici interni. Che si spari sui bambini che fuggono dalle guerre e scampano ai naufragi è l’ultima infamia di un accordo che la coscienza europea dovrebbe sentire il dovere morale di sconfessare con urgenza e fermezza. Non c’è nulla di più abietto della violenza esercitata sui soggetti più deboli e vulnerabili del fenomeno migratorio, sui minori stranieri che cercano protezione presso le nostre comunità. Secondo le stime rilevate alla fine dello scorso anno dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, costituiscono il 50% degli oltre 65 milioni di rifugiati, il numero più elevato registrato dal secondo dopoguerra a oggi.

A guardar bene, il destino dei minori stranieri non accompagnati che giungono in Italia e in Europa è questione di cui non si ha ancora piena percezione né diffusa consapevolezza. Eppure è un aspetto sempre più eclatante e drammatico delle diaspore contemporanee. Nel dibattito inquinato dalle becere polemiche politiche irretite dalle cicliche campagne elettorali non c’è spazio per gettare uno sguardo al di là del terribile presente, della eterna emergenza, della stringente sequela di sbarchi incessanti, generosi soccorsi, accoglienza più o meno precaria e muri di sbarramento. Non c’è tempo per progettare una qualche politica dell’immigrazione che sappia  «ascoltare la crescita del grano», come direbbe Lévi- Strauss, che lasci intravedere il profilo di ciò che «la storia tiene in serbo», che si adoperi non solo ad amministrare e gestire la contingenza ma anche a preparare la società nella quale i migranti da ospiti ingombranti e più o meno graditi, stranieri comunque, diventino presenze riconoscibili e riconosciute, parte viva e costitutiva delle nostre città, agenti e referenti delle nostre comunità.

Dialoghi Mediterranei resta come sempre impegnata a dare un contributo alla riflessione sulle dinamiche del fenomeno sovente trascurate. In questo numero, ad esempio, si propongono dati e ragionamenti intorno alle cosiddette migrazioni qualificate, quei flussi che coinvolgono diplomati e laureati. Coccia e Pittau si incaricano di confutare diffuse vulgate e consolidati luoghi comuni, sostenendo in conclusione che «il problema del sistema-Italia non consiste tanto nella mancanza di personale con una istruzione superiore, quanto nell’incapacità di utilizzarlo in maniera adeguata, così da contenere la partenza dei talenti italiani e da inserire con maggiore apertura i talenti esteri». Altri contributi gettano luce su quanto accade nelle periferie del nostro Paese: a Rosarno dove la conflittualità interetnica si sovrappone a quella sociale in un contesto di grave sfruttamento lavorativo e tuttavia ricco di fermenti creativi e di esperienze “operose”. L’intelligente ricerca condotta da Cinzia Costa segnala cantieri di iniziative promosse da associazioni locali, che attraverso la musica, il teatro popolare e le attività ludiche realizzano spazi di socializzazione e di aggregazione dei migranti intorno ai «beni comuni» e alle «potenzialità positive del territorio». A Riace, nella città il cui nome è associato ai famosi Bronzi, si combatte lo spopolamento demografico con l’innesto delle famiglie di profughi che hanno rivitalizzato il paese, ripreso pratiche agricole abbandonate e rinnovato antichi mestieri artigianali dismessi. «Il caso Riace – scrive Chiara Dallavalle – mostra come nel nostro Paese siano all’opera diverse sperimentazioni, in cui migranti ed autoctoni vengono coinvolti nel processo di recupero dei territori abbandonati. Un segnale, questo, che arricchisce l’acceso dibattito sulla controversa presenza dei profughi in Italia, offrendo una prospettiva in cui questi ultimi non siano più visti solo come un peso ma anche come una risorsa e un’occasione di crescita per i territori in cui andranno a stabilirsi».

Sulla soggettività delle nuove generazioni di donne di origine araba continua a scrivere Lella Di Marco che ne raccoglie le testimonianze intorno all’idea della bellezza e all’uso del velo. Affiora un quadro che, nel dissipare le speculazioni teoriche di intellettuali arabi e non, islamofili ed islamofobi, aiuta a conoscere meglio le giovani figlie della migrazione in Occidente pronte a ostentare le loro collezioni di veli, che considerano elementi di protezione ma anche di attrazione. «Non è fuor di luogo pensare che si velano per nascondersi, ma così facendo s-velano di nascondersi, facendosi vedere, ferendo lo sguardo degli europei con il loro sedimentato immaginario da coloni».

In questo numero il Mediterraneo nella sua attualità sociopolitica trova ampio spazio in autorevoli contributi. Due scrittrici tunisine, Ayari Cozzo e Lilia Zaoauli, raccontano in modi diversi la travagliata e incerta stagione di transizione che la piccola repubblica nordafricana sta attraversando. Michela Mercuri, una studiosa particolarmente esperta di questioni geopolitiche, ha analizzato con rigorosa attenzione la situazione in Libia nella evoluzione delle sue criticità e nelle sue problematiche soluzioni, possibili solo attraverso «un dialogo inclusivo e una cooperazione efficace». Fa il punto sul dibattito annoso e controverso intorno alla questione dei rapporti tra Israele e Palestina Moshe Behar, acuto intellettuale e testimone privilegiato di questa lunga e complicata vicenda conflittuale, essendo figlio di una famiglia ebraica della piccola borghesia egiziana nato in Palestina. Un’altra testimone e sensibile osservatrice di storia contemporanea, Shaimaa Magued, scrive delle Primavere arabe assumendo l’Egitto come caso di studio per tentare di tracciare attendibili interpretazioni dei processi in corso che tengano conto delle diverse variabili concorrenti sul complesso scenario delle istituzioni.

A questo impegno di documentazione e argomentazione sui temi di più attuale interesse sociopolitico Dialoghi Mediterranei associa, in questo come nei numeri precedenti, scritti di antropologia e di semiotica, di letteratura, di storia e di scienze, esperienze di ricerche sul campo, letture di libri e di mostre. Nel quasi unanime silenzio che accompagna l’anniversario, tre diversi contributi ricordano Pitrè a cento anni dalla sua morte. Non manca, ancora una volta, l’attenzione per la fotografia che illustra nelle sue articolazioni il ciclo di coltivazione del grano e quello di estrazione del sale per mano di due autori siciliani, rispettivamente Giangabriele Fiorentino e Salvo Cristaudo. A chi, infine, ha voglia di mettere alla berlina la storica arroganza della gelida Albione non resta che avvicinarsi all’Uscita di insicurezza del nostro Nino Giaramidaro, per ritrovare accanto all’ironia e allo sberleffo la perturbante memoria della guerra e «un senso amaro di prodromi di dissoluzione».

Dialoghi Mediterranei, n.20, luglio 2016

amnesty -Regeni

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